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“Workaholic” dipendenza dal lavoro: quando lavorare troppo non è una virtù

Workaholic: no, non è una parolaccia. Si tratta piuttosto di un disordine ossessivo-compulsivo, una patologia reale che caratterizza la nostra epoca. Se pensavate che lo stacanovismo potesse già bastare, state certi che il workaholic apre una contemporanea ed inquietante parentesi sulla tematica.
Il termine, introdotto nel 1971 dal medico psicologo Edward Oates, sta ad indicare l’ossessione, o meglio la dipendenza vera e propria – “alcolismo” come suggerisce il neologismo inglese – dal lavoro.
Erroneamente confuso con l’ambizione, con la dedizione, con lo stress da scadenza e con molte altre ansie comuni, “l’alcolismo da lavoro” è serio e tutt’altro che normale. Nonostante ci portino a credere che lo sia. E, soprattutto, non è una virtù.

Il tempo libero è tempo sprecato

Il workaholic non è semplicemente una “persona che lavora tanto” ma – come fanno notare gli studi dell’Università norvegese di Bergen – è una compulsione malsana. Un bisogno costante ed impellente di lavorare per sentirsi utili, unito alla percezione che il tempo libero sia tempo buttato. Questa è la grande ansia del “lavoratore-alcolista”. Un’unica, pulsante preoccupazione: pensare a come, quando e quanto lavorare. Questa dipendenza rientra a tutti gli effetti tra le New Addiction – insieme ai social network e allo shopping compulsivo – ma è facile che provochi reazioni di antipatia negli altri. È faticoso infatti empatizzare con qualcuno che parla solo di lavoro, che legge email a colazione e si rende perennemente reperibile, che biasima chiunque investa il proprio tempo in attività non proficue, considerandole futili. Ma il workaholic è un fenomeno sottovalutato che ha serie ripercussioni su salute, relazioni e benessere personale. Per questo individuo tutto è urgente; se non lavora viene divorato dal senso di colpa; l’incidenza che questo meccanismo mentale ha su di lui è paragonabile al gioco d’azzardo patologico e al perfezionismo compulsivo dell’anoressia. Come chi si guarda allo specchio orgoglioso di un corpo spigoloso e nemico, come chi perde al gioco ma punta di più alla vincita, allo stesso modo il workaholic si percepisce appassionato e dedito al proprio lavoro e, forse cosciente di aver superato dei limiti, persegue comunque nella sua compulsione:

Non pensa a come ritagliarsi del tempo libero, ma a come liberarne sempre di più per lavorare; soffre se gli viene impedito di farlo, se non si sente sottopressione; se gli viene consigliato di allentare i ritmi, prova quasi una punta d’orgoglio; ma avverte anche imbarazzo nel mostrarsi così ossessionato, e quindi arriva a fingere altri interessi e a mentire; non ha tempo per l’attività fisica e la cura di sé, ma lavora così tanto da avere ripercussioni sulla propria salute psicofisica, come ulcere precoci, problemi cardiovascolari e una costante astenia. Il workaholic però ignora anche questi sintomi.
Poco a poco si impoverisce emotivamente e spiritualmente: dimentica di essere qualcuno al di là del suo lavoro. Si convince di essere il suo lavoro e di non poter eccellere in nient’altro, cullandosi nel concetto idealista di adrenalina: si illude di avere una salute eterna ed infinite energie che solo il lavoro può stimolare. In effetti l’adrenalina entra in gioco davvero: non nell’accezione delirante che lui le attribuisce, ma nella veste di ormone, quale è, creandogli una dipendenza.

“Mangia, prega, ama” …e spegni il cellulare

Per quanto la società non aiuti e gli ambienti lavorativi si compiacciano di questi comportamenti, il workaholic ha una via di uscita, come qualsiasi altra patologia. Purché si scelga di affrontarla. Gli psicoterapeuti consigliano, oltre ad un supporto psicologico, di sperimentare alcune soluzioni quotidiane:
Programmare il tempo così da ritagliarsi dei momenti per se stessi; scoprire e appassionarsi a qualsiasi attività che prescinda dal lavoro, così da sentirsi bravi e affascinati anche da altro; provare a scrivere ogni giorno almeno 5 cose per cui sentirsi grati fuori dal lavoro e, soprattutto, imparare a staccare il telefono quando effettivamente non è necessario rendersi reperibili.
Condividere, costruire, amare e stimolare adrenalina attraverso il rapporto con l’altro e con il mondo, sembra essere l’unico segreto per reagire… e per guarire.

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