Il personaggio di Margherita Vicario sta via via assumendo la forma dell’artista totale. Senza particolare esposizione mediatica, con pochi passaggi nelle radio regolari o esibizioni nei palinsesti chiave, quello della trentenne romana è comunque un volto con cui ormai non è difficile avere una certa familiarità. Attrice fin da ragazzina (dai Cesaroni, una vita fa, a Nero a Metà lo scorso anno – passando per collaborazioni con Zoro e i Pills), negli ultimi tempi sta vivendo una esposizione tutta nuova in virtù della parallela attività da musicista. Cantante e autrice da sempre, solista dal 2011, i suoi singoli (caricati su Youtube e prodotti con l’etichetta torinese INRI) migliorano ad ogni uscita. E così i numeri. A gennaio, il singolo Abaué le aveva procurato più di un riflettore: ed è arrivato ora Mandela, un pezzo che, per usare terminologia desueta, non può che segnalare definitivamente l’avvenuta maturazione. Tra ironia nera e storytelling più o meno personale, vena polemica e attitudine da commediante, l’artista sta sviluppando una capacità di distinguersi sempre più sofisticata, emergendo dall’affollatissima scena indie-capitolina di questi anni.

Nel frattempo, di Margherita Vicario cominciano ad accorgersi in molti. Da Repubblica a Radio 105 fino alla partecipazione al contro-Concertone del Mai Così Tante, la giovane cantante è ufficialmente sulla mappa. Di questo percorso personale e stilistico, ne abbiamo parlato con la diretta interessata.

Velvet: “Mandela” è sempre più particolare. Non somiglia a nulla in Italia, almeno a livello di ciò che si sente in radio. Ma soprattutto è riconoscibile uno stile tuo personale sempre più caratteristico e affinato: da dove sei partita, e come ci sei arrivata?

Margherita Vicario: Ad essere sincera Mandela l’ho scritta una sera tutta d’un fiato perché non volevo arrivare a mani vuote il giorno dopo in studio dal mio produttore Dade. Io vivo a Roma ma vado a Torino per delle sessioni di registrazione quindi ho pochi giorni a disposizione ogni volta e devo buttare giù più cose possibili. Dade mi ha mandato la musica  dell’inizio del brano e io sono partita da dove parto sempre: cioè una situazione ben definita.

Non riesco a scrivere in modo astratto di cose poetiche random, devo sempre partire da qualcosa di concreto, che riesco a visualizzare e a raccontare in modo quasi cinematografico, in questo caso un risveglio dopo una sbronza. Ho iniziato a scrivere in totale libertà, senza pensare a cosa funziona e cosa no. Quando la canzone ha preso forma, anche se non finita, l’ho portata a Dade che all’inizio mi ha detto “che cos’è?” ma in due minuti l’ha capita e mi ha aiutato a darle la forma definitiva che ha adesso.

Da un punto di vista musicale, rimani piuttosto difficile da catalogare. Convivono elementi da pop melodico, altri più indie, da qualche tempo sono arrivate le batterie elettroniche e suggestioni vagamente rap. Come scegli l’impianto musicale di un pezzo?

Per questo nuovo progetto mi sono affidata tantissimo alla fantasia di DADE (Davide Pavanello / INRI- Linea 77- Salmo) abbiamo background musicali diversissimi ma il primo giorno che ci siamo incontrati gli ho detto il nome di un artista americano come reference e lui è sbiancato perché era esattamente quello che aveva pensato per me. Non porto mai una canzone finita in studio, Dade mi aiuta a cucirla. La cosa di cui mi occupo al cento per cento è il testo e la melodia, tutto il resto lo fa Dade, gli mando un memo vocale piano e voce e lui lo ribalta e lo spoglia e lo riveste. L’idea è quella di fare musica divertente ma non per questo disimpegnata o semplice. Io sono sempre stata ironica nelle mie canzoni, ma a questo giro voglio intrattenere anche i corpi non solo le menti.

Ci piace il tuo buttare lì frasi e concetti pesanti, quasi en passant, rendendo l’ascolto tutt’altro che disimpegnato. Ed è l’ultima cosa che un ascoltatore si aspetterebbe da una cantante italiana comunque vicina al mainstream.

Be’ attraverso l’ironia, la commedia, il cazzeggio, il sarcasmo, si possono dire tante cose che magari arrivano più veloci e leggere a destinazione. Non è una cosa che faccio di proposito a tavolino, mi viene, anche nella vita sono molto informale ed entro subito in confidenza anche con gli sconosciuti quindi ecco, credo sia un modo di essere. Poi insomma il bello della musica è che puoi raccontare di tutto,  le cose tragicomiche e anche quelle proprio tragiche.

Senza girarci attorno: a fare questo tipo di cantatutorato, a questo punto, di donne ce ne sono pochissime. Nonostante il successo resta un genere estremamente maschile, come il cantatutorato di una volta d’altra parte. Come mai persiste questa tendenza popolare ad affidarsi a steccati?

Che intendi per steccati? Comunque credo di aver capito la domanda e mi è stata posta più di una volta. In qualsiasi ambito, non solo artistico, prevale la visione e il punto di vista maschile. È una questione culturale. E sembra sempre molto banale come risposta ma è così. Bisogna conquistarsi il pubblico e il pubblico deve sostenerti, non è automatico. Bisogna tenere alta la qualità, e cercare di capire bene cosa vuoi raccontare. La donna deve giustificare la sua presenza più dell’uomo in qualsiasi ambito. È sottoposta a più critiche. Insomma bisogna trovare buoni alleati, e avanzare insieme a loro. Che sia una parte del pubblico che ti porta in palmo di mano o che siano artisti con cui collaborare, bisogna fare squadra e tirare dritto.

In Abauè e Mandela si nota subito come sia subentrata una certa ironia acida, al limite del sarcasmo, se ci passi i termini. Ci sono riferimenti alla cronaca, oltre che al personale, e mai accomodanti. Come mai questa evoluzione in termini di tematiche?

Non saprei, ci sono alcune tematiche che mi “bussano”. Per me in quel pezzo aveva senso sviscerare quelle cose. Abaué è un pezzo pieno di immagini, sembrano buttate senza senso ed è l’effetto che volevo ottenere. Prima tendevo a indagare un mondo più intimo e il rapporto tra uomo e donna, ovviamente continuerò a farlo, ma questi due primi pezzi parlano del mondo che mi circonda ed è anche un mio modo per far capire che secondo me la musica, l’arte può anche (non è che DEVE) tornare a tradurre il mondo esterno e non solo quello interno degli artisti.

Un altro fattore importante è l’importanza che dai all’elemento video del brano. I videoclip sono tutt’altro che accompagnamento, anzi c’è una grandissima professionalità e attenzione al dettaglio. Che è un’ottica molto internazionale di fare musica.

I musicisti che seguo, osservo e stimo usano i videoclip come ulteriore livello di lettura della loro musica, cosa che sto provando a fare anche io. Io sono dell’idea che le canzoni possono essere molto più importanti di quello che sembrano. Quindi quando le offro al pubblico le provo a valorizzare con un buon lavoro visivo. INRI me lo sta permettendo e non gliene sarò mai grata abbastanza.

Tieni tutt’ora il piede in due scarpe, quello della recitazione e quello della musica. C’è una maniera in cui il primo mondo arriva a riflettersi nel secondo? Penso magari a tutto un approccio narrativo, quasi da storytelling stretto, che traspare dai tuoi pezzi.

Assolutamente si, come dicevo io un pezzo prima di sentirlo, lo vedo, e la cosa che più mi aiuta a scrivere è partire da una scena, una situazione, immedesimarmi in un personaggio. Il mio primo disco era uno spettacolo di teatro canzone, con tutte le canzoni legate da una narrazione. Ora sto cercando di essere meno prosaica ma comunque la natura un po’ forse rimarrà quella per sempre.

Come ti poni con questa “scuola” a cui bene o male ti assoceranno? A questo punto l’interesse per questa forma di neo-cantatutorato pop, molto quotidiano e molto romano, è sempre più forte. E’ bene o male una realtà riconoscibile anche dal grande pubblico.

Essere identificati in una scuola è spesso una fortuna perché vieni trascinato in un filone che il pubblico è pronto ad accogliere. Io non so adesso in che scia sono entrata. Sto capendo, vediamo come va la lavorazione dell’album.

A trent’anni appena, sembra che tu sia sulla scena da sempre: dalle prime colonne sonore a oggi alla fine hai attraversato un decennio. Cosa è cambiato nella musica italiana, e nel tuo modo di portici?

Oddio in effetti è dal 2011 che suono… allora ammetto che non sono stata molto prolifica musicalmente perché ho sempre lavorato anche come attrice per pagarmi l’affitto e farmi le vacanze però bene o male ho vissuto da dentro, anche se non da protagonista, i cambiamenti degli ultimi 5/6 anni, il cambio di leva, la fine dell’indie etcetc… ed è stato molto interessante. Orde di ventenni ai concerti, spotify, l’esplosione delle piccole etichette e il tramonto delle grandi etichetti indie, la contaminazione, il rap, la trap.

Se pensi che il primo video de Icani HIPSTERIA è stato girato a casa mia e il mio cane la piccola SABBIA (pace all’anima sua) interpretó il cane de ICani…. che bei tempi! Comqunue io sono cambiata perché sono meno ossessionata dalle mie idee musicali, mi affido più ad altri, e mi piacciono anche molte più cose rispetto a quelle che giravano dieci anni fa. Di base mi sembra che la musica sia più, passami il termine, divertente: iCani, Cosmo, Frah Quintale, Miss Keta… insomma vediamo un po’ dove andiamo.