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Achille Salvagni: “Odio la parola lusso, la bellezza non ha valore commerciale” [ESCLUSIVA]

Negli ultimi quindici anni si è distinto nel mondo dell’architettura e del design guadagnandosi il prestigio di un fuoriclasse. Specializzato in interni residenziali e yatch sofisticati, Achille Salvagni si è raccontato durante un’intervista a VelvetMag, rivelando una visione quasi romantica del suo mestiere. Ha confezionato interni esclusivi per personalità influenti in qualsiasi città del mondo, ma a chi gli parla di lusso, lui risponde che la bellezza di un materiale risiede nella storia che racconta.

I suoi lavori vengono spesso definiti un raffinato incontro tra la tradizione artigianale e il gusto del lusso. Lei è d’accordo?

Esistono due tipi di progettisti: chi viene riconosciuto per un sistema estetico che si ripete e chi viene riconosciuto per un metodo, che ogni volta applica per ottenere risultati diversi. Io preferirei essere associato ad un metodo di lavoro piuttosto che a una cifra stilistica. Per quanto riguarda il lusso, è una parola che io personalmente odio. Il lusso per me non è da associare a materiali preziosi, opulenza e ricchezza di ambienti che ti fanno sentire un privilegiato. Anzi, talvolta quelle sensazioni ti fanno sentire inappropriato e fuori luogo. Un diamante su una mano sgraziata può essere una cosa estremamente pacchiana, invece un fiore di campo in una mano gentile può rappresentare un lusso sfrenato, in termini di eleganza e bellezza.

Quindi che parola sceglierebbe al posto di quella che ho utilizzato io, “lusso”?

Forse parlerei di sofisticazione, di eleganza, ma anche più banalmente di bellezza. Ecco: un lusso può essere quello di essere circondati dalla bellezza. Ma la bellezza non ha un valore commerciale.

A proposito di questa differenza: lei opera trasversalmente in tutto il mondo, da Roma a New York, Miami, Parigi, ovunque. Quanto cambia l’approccio creativo rispetto al gusto, al design e al concetto di bellezza che fa da padrone in una specifica città?

È proprio questa l’essenza dell’approccio a cui mi riferisco. Avere a che fare con un committente che ti chiede di progettare l’interno di una residenza a Manhattan non è lo stesso che disegnare un padiglione a Ginevra o una casa nel quartiere Marais di Parigi. È differente la cultura in cui si va ad innestare il progetto e quindi anche le aspettative del committente. Se io adottassi un mio preconcetto di stile in ogni luogo diverso, imporrei la mia estetica in un luogo in cui non può essere accolta. L’oggetto di design invece riesce spesso a mettere d’accordo più soggetti che lo osservano da punti di vista differenti: una mia lampada può essere apprezzata a Tokyo come a New York o a Parigi, anche se io l’ho pensata a Roma. È come l’arte: non tutti vedono in quel dipinto o in quella scultura lo stesso messaggio. Poi però, caso vuole che quando un genio metta mano ad un’opera, quell’opera sia apprezzata in tutto il mondo; ognuno ne fa una lettura diversa, ma tutti ne consacrano il valore.

C’è un elemento che, nonostante tutto, lei non può fare a meno di riproporre ai suoi committenti?

Io sono un appassionato del tempo, della storia. Mi piace l’idea che le cose acquisiscano un valore che il tempo, lentamente, rilascia sulle loro superfici. Sono affascinato dalle patine, dalle condizioni naturali che intervengono sui materiali. Avrò declinato più di cinquanta patine sul bronzo o sulle grane dei legni. Io rifuggo da tutti i processi industriali che banalizzano e intontiscono qualsiasi tipo di vita all’interno di un materiale. Lavoro molto sulla storia dei materiali, devo avere la sensazione che quella cosa sia sempre stata lì.

Questo spiega perfettamente perché parlando del suo metodo si parli anche di tradizione artigianale.

Esattamente, per questo mi avvalgo di artigiani che oggi sono delle perle rare. Per mia scelta ora sono quasi tutti basati a Roma, perché io opero da Roma e lavoro in giro per il mondo. Forse proprio grazie all’imprinting di forte connotazione culturale che questa città dà a tutto, sono riuscito con i miei artigiani a ottenere effetti naturali che altrove è difficile raggiungere. La loro è una sensibilità abituata a vedere come la storia e il tempo modifichino le superfici delle pietre, dei legni, dei palazzi, dell’ambiente architettonico che contamina la città. Se lo chiedi a un artigiano di Manhattan o di Mumbai, è più difficile che riesca a vedere con questi occhi: provengono da città dove l’acciaio, il vetro e le superfici riflettenti la fanno da padrone, è difficile che poi sulle patine di legno riescano a tirar fuori lavori di grande sensibilità. Penso che la maestria che possiamo dare noi italiani in queste cose non abbia assolutamente pari, in nessuna parte del mondo.

Dell’Azimut Grande 35 metri si è ampiamente discusso: ha conquistato 6 premi ed ha ottenuto perfino la definizione di “miglior motoryacht nella categoria tra i 100 e i 200 piedi”. Trovo che l’interazione tra le vetrate e l’illuminazione degli ambienti sia straordinaria: come pensa gli interni rispetto allo spazio e alla luce?

Per me la decorazione è un gesto finale che arriva quando la struttura e l’involucro sono stati indagati e organizzati. Molti miei colleghi invece amano coprire superfici modeste attraverso la decorazione. Io preferisco scolpire la materia sin dalle sue prime forme, per poi giocare serenamente con piccoli gesti, e dare guizzi di attenzione. Credo che l’oggetto spoglio e la casa nuda debbano già urlare bellezza e autorevolezza, senza che il divano, la lampada o il quadro ne possano glorificare il valore. Nel Grande 35 metri, quelle enormi vetrate davano l’occasione di creare interni drammatici, e gli interni drammatici si fanno con gesti puri. La luce gioca in modo autorevole solo quando è messa di fronte a volumi semplici; se invece è messa di fronte a volumi molto articolati, l’ombra che proietta a terra è quasi una macchia nera. In quel progetto, con una serie di volumi positivi e negativi, ho creato un gioco di rimandi che le grandi vetrate hanno poi enfatizzato. La differenza che esiste tra una casa e una barca è abbastanza forte: la casa ha dei punti di vista fermi, la barca si muove in continuazione, e fa di queste grandi vetrate degli scenari che ogni volta cambiano: una volta può essere una costa rocciosa della Sardegna, l’estate prossima magari una crociera in Bretagna. L’abilità di un progettista sta nel creare ambienti neutri, che però abbiano una forza tale da sposarsi con qualsiasi esterno.

Per concludere le propongo un piccolo esercizio di fantasia: un grande personaggio della storia per cui avrebbe voluto progettare un interno?

Ho invidiato qualche collega che ha avuto la possibilità di conoscerlo e di interfacciarsi con lui per alcuni progetti: Steve Jobs. Sono sicuro che avrei raggiunto dei livelli di stimolo assolutamente inaspettati, perché ho potuto confrontarmi con chi ci ha lavorato e mi hanno raccontato di esperienze fuori dall’ordinario. L’unico vero lusso è quello di potersi circondare di obiettivi sempre più alti, e un personaggio di quella caratura rende quasi certo il risultato. Direi che Steve Jobs rappresenta a pieno una parte della filosofia del mio pensiero di progetto.

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