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Vincenzo Alfieri e i suoi ‘Uomini d’Oro’: il furto del secolo arriva al cinema [ESCLUSIVA]

“Quando ho fatto ‘I Peggiori’ mi svegliavo la notte per capire quanto aveva incassato, la media copia, le sale, e mi chiedevo: sarà andato meglio a Torino o a Roma? Penso che nessuna scuola, niente ti prepari davvero all’opera prima. Non a girarla, ma ad affrontare quello che c’è dopo”.

Ora, alla vigilia dell’anteprima stampa del suo secondo film da regista, “Gli Uomini d’Oro”, Vincenzo Alfieri sfoggia un’insolita calma. A guardarlo così viene in mente quel famoso e antico saggio seduto sulla riva del fiume, che impegnato in un esercizio di controllo e fiducia, aspetta di vedere cosa succederà. Con una carriera da attore alle spalle, virata in modo naturale verso quella da regista, Alfieri sa bene che i prossimi giorni saranno cruciali, ma sa anche che adesso è il momento di passare il film nelle mani degli spettatori. E lui, che è prima di tutto uno spettatore attento e un cultore del cinema, afferma senza ipocrisia: “Nasco come attore, certo che vorrei arrivare ad avere un mio pubblico”. Fuori dal set non beve, non fuma, segue una routine che definisce perfino “sedentaria”. “Ma nel cinema sono pazzo”, aggiunge subito dopo. E la storia di questo secondo film, in fondo, non lo smentisce.

“Gli Uomini d’Oro”: intervista al regista Vincenzo Alfieri

Il 7 novembre uscirà in 300 sale italiane il tuo secondo film, “Gli Uomini d’Oro”: se fossi uno spettatore andresti a vederlo?

Sì, penso che ci andrei. Perché obbiettivamente mi sembra che parli con un linguaggio non usuale, e già dalle prime immagini del trailer capisci che sei catapultato in un mondo diverso dal tuo. A me non piace fare i film realistici. Mi piace che la gente al cinema si senta parte della storia, ma che capisca anche che è un film. Essendo cresciuto con Tim Burton, con Scorsese, voglio sedermi in sala e dal primo secondo ‘essere da un’altra parte’. “Gli uomini d’Oro” secondo me è così, o almeno lo spero.

Saresti andato a vedere anche “I peggiori”, la tua opera prima?

Forse non lo sarei andato a vedere, perché non è stato pubblicizzato (ride, ndr). In realtà sì, penso che sarei andato a vedere anche “I Peggiori”, semplicemente perché quando scrivo delle cose mi chiedo sempre “ma io questo film me lo vorrei vedere?”. Quello che giro per me dev’essere sempre molto appetibile. Dal cinema americano ho imparato che l’impacchettamento dev’essere totale, ogni reparto dev’essere ben gestito.

A questo proposito come avete lavorato sulla ricostruzione storica di quello che è, a tutti gli effetti, anche un film d’epoca?

Noi avevamo sempre in testa “I Malavoglia” di Verga, con la teoria dell’ostrica: certi personaggi non li puoi staccare dallo scoglio, perché soccomberanno. La vera sfida era parlare degli anni Novanta: esteticamente sono un po’ la base di quello che siamo oggi, e in più io li ricordo, ma non li ho vissuti da adulto. Ho ascoltato tutte le canzoni possibili degli anni Ottanta e Novanta per capire quel mood, e poi volutamente distaccarmene. Nel film difficilmente vivi Torino: rimango sempre sui personaggi e sulle loro case, dentro il contesto sociale che si riflette su di loro.

Siamo partiti da un articolo di giornale dove Meo Ponte (giornalista de La Repubblica) diceva: “Se ne facessero un film partirebbe come ‘I Soliti Ignoti’ e finirebbe come ‘Le Iene’”. Due film che io ho nel cuore. Poi abbiamo letto il libro di Bruno Gambarotta, “Il colpo degli Uomini d’Oro. Il furto del secolo alle Poste di Torino”, un libro di inchiesta sul fatto realmente accaduto. Cose incredibili, ci sarebbe materiale per fare una serie.

Hai detto “ci sarebbe materiale per farne una serie”.

Sì. In realtà la stiamo scrivendo, sperando che qualcuno ce la faccia fare. È sempre stato nelle mie intenzioni e in quelle di Renato Sannio, mio co-sceneggiatore. D’altronde è stato lui a portarmi il famoso articolo di giornale quando tutto è iniziato.

Gli Uomini d’Oro di Vincenzo Alfieri: Fabio De Luigi, Edoardo Leo, Giampaolo Morelli, Gian Marco Tognazzi

Ne “I Peggiori” tu eri anche attore co-protagonista, insieme a Lino Guanciale. Che ruolo avresti sentito più tuo ne “Gli Uomini d’Oro”?

Forse quello del cattivo, Boutique. C’è molto di me in quel personaggio, l’ho scritto in base a come io avrei recitato quel ruolo, e l’unica persona che avrebbe potuto interpretarlo come io lo avevo in testa è Gian Marco Tognazzi, che oltre ad essere per me un mito assoluto è anche un fratello. Mi rivedo molto in lui, ma soprattutto ha dato al personaggio una rotondità che io non gli avrei dato. Con trent’anni di carriera alle spalle, ovviamente, gli ha dato un tocco in più.

In quest’opera seconda ti sei confrontato con un cast fortissimo, e il vero azzardo è stato scardinare alcuni attori da un immaginario che li lega alla commedia. Qui Edoardo Leo è cupo e Fabio De Luigi drammatico. Il rischio del flop era dietro l’angolo, ma il risultato è sorprendente: come hai fatto?

Credo ci siano due aspetti da considerare: il primo è che essendo io di base un attore, amo gli attori e penso che loro lo percepiscano. Quando ci confrontiamo, quando gli spiego cosa fare, si crea subito un’alchimia perché si parla la stessa lingua; so cosa provano, so da attore come vorrei che un regista mi parlasse. L’altro aspetto è che fin dalla scrittura ho le idee molto chiare, dai bozzetti sui costumi agli storyboard, fino alla ricerca del modo di fare che avrà il personaggio. Quando vado da un attore gli do un pacchetto d’informazioni da studiarsi e forse questo lo fa sentire sicuro.

Immaginare Fabio De Luigi in un ruolo drammatico è stato un pensiero spontaneo o una mossa astuta?

Io prima scrivo, poi penso agli attori. Conclusa la prima stesura andai a trovare Giuseppe Stasi e Giancarlo Fontana sul set di ‘Metti la nonna in freezer’ e lì conobbi De Luigi, che già amavo follemente. Ma non avevo mai pensato a lui. Si è seduto di fronte a me, immobile, col suo copione, leggeva e ogni tanto parlava al telefono con la sua famiglia. Da sempre sono un curioso, amo osservare e studiare la gente, la cosa che preferisco è analizzare gli atteggiamenti degli altri. Quel giorno ho visto in quest’uomo, solitamente simpatico, un uomo anche pacato, educato, con un occhio vigile ma stanco: se lo chiami è subito pronto, sennò se ne sta un po’ lì per i fatti suoi a riposare. Nei suoi occhi ho letto qualcosa e ho pensato: come sarebbe lui nei panni del mio Zago, che è un cardiopatico costretto a tenersi sempre a freno?

E come reagisce un attore come Fabio De Luigi quando gli proponi un ruolo del genere?

“Bellissimo. Ma no, grazie”. Questa è stata la sua prima reazione. Poteva essere un film rischioso per lui, era molto titubante. Io ho iniziato a pedinarlo, a riempirlo di messaggi e telefonate, e dopo quattro mesi ha accettato… piuttosto che farmi arrestare per stalking (ride, ndr).

Invece che succede quando un regista alla sua opera seconda propone ad una produzione Fabio De Luigi per un ruolo drammatico da protagonista?

Mi dissero che ero pazzo e che Fabio non avrebbe mai accettato. Ufficialmente cercavamo un attore, intanto nelle retrovie io sfiancavo De Luigi per farlo accettare. Nessuno si aspettava che accettasse, neanche io.

Da “non accetterò mai” ad una prova davvero riuscita. Ci avevi visto lungo?

Io ho letto una cosa che c’era, non penso di essermi inventato niente. Forse la mia capacità è stata cogliere quella vena più drammatica. Ma quel ‘qualcosa’, in lui, c’è. Basta analizzare i suoi film. Poi ovviamente subentra anche un lavoro da fare: lui ha imparato il piemontese, ha perso 7 chili, ha studiato l’accento e il copione maniacalmente, ci incontravamo ogni settimana anche solo per parlare del personaggio.

Dietro gli Uomini d’Oro con Vincenzo Alfieri: tra preparazione e set

Tecnicamente avete raggiunto un livello molto alto, fuori dall’ordinario se consideriamo le difficoltà del caso. Quindi si può girare un film così ambizioso in 6 settimane?

(Ride, ndr) È complicato. Devi avere le persone giuste accanto, la squadra giusta. Io ce l’avevo. Ho scelto il meglio che potessi avere: Davide Manca alla fotografia, Patrizia Mazzon ai costumi, Ettore Guerrieri alla scenografia, Francesco Cerasi alle musiche. È stato un lavoro di un anno, tra reference e riunioni, bozzetti e prove, con gente che mi ha dato l’anima. In un film si legge quando c’è stato un problema di mancanza di fiducia. In questo invece c’è l’amore di ogni singolo reparto. Quindi sì, penso si possa fare se riesci a creare quel clima.

Tu chiedi molto sul set?

Chiedo molto, sì. A fine giornata sono tutti stanchi e stressati, perché per fare un film così complesso in 6 settimane si corre tanto, e io alla corsa aggiungo altre difficoltà, anche se lavoriamo molto in preparazione. So di essere drasticamente pignolo, ma spesso questo mio modo di fare stimola i reparti. Sono rimasto stupito dall’enorme competenza dei professionisti che avevo al mio fianco.

Quanta differenza fa la preparazione?

Totale. Senza la preparazione i miei film non si potrebbero girare come li giro io. Ricordo che venivo costantemente preso in giro per la palette. Quando entravo in costumeria capitava che Patrizia Mazzon mi dicesse subito: “Vincenzo, abbiamo preso i costumi, sono tutti in palette. Se vedi questo verde diverso è perché ancora dobbiamo stingerlo”. Avevo scelto tutti con cura, mi fidavo, sapevano cosa fare.

Voi avete girato a Torino, a novembre, con il gelo, spesso in esterna, in notturna e con la pioggia. Sei mai crollato?

Mai.

Com’è possibile?

Vitamine (ride, ndr). Non lo so, io non potevo crollare in quel momento.

Non è scontato.

C’è stato nervosismo, momenti in cui avrei voluto litigare, scoppiare. È stato un film di una difficoltà enorme, con un livello di stress ed una posta in gioco altissima. Ma non ti puoi permettere di essere stanco se vuoi trascinare gli altri fino all’ultimo.

Vincenzo Alfieri: da “I Peggiori” a “Gli Uomini d’Oro”

La tua regia è cambiata da “I peggiori” a “Gli Uomini d’Oro”, ne sei consapevole e anche questo non è scontato. Molti registi esordienti cercano di imporsi sempre con uno stile preciso. Tu dici l’opposto.

Sì, io voglio prendere una sceneggiatura e capire come girarla. Deve capirsi dall’atmosfera e dal modo di raccontare che è un mio film; in questo senso sto provando a creare una mia linea narrativa. Ma non voglio ripetermi, né nei tipi di film né nei tipi di regia. Non sarebbe giusto: se ho una storia romantica tra le mani non posso raccontarla come “Gli Uomini d’Oro”.

Con questo film cosa hai raggiunto come regista e cosa ti manca ancora?

Ho raggiunto la consapevolezza di quanto posso essere paziente, e dovrò capire quando invece non esserlo.

Quindi dietro un grande regista chi c’è?

Forse la sua felicità deriva da quello che fa e dalle persone con cui riesce a condividerlo. Io ho una famiglia alle spalle che amo, che mi sostiene e mi ha reso quello che sono, oltre che alcuni strettissimi amici che mi supportano e mi vogliono bene. Dietro di me c’è il calore. Forse anche dietro un grande regista… un giorno, chissà.

“Gli Uomini d’Oro” – Photogallery 

 

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