L’intervista a Giovanni Troilo, regista di Frida. Viva la vida! [ESCLUSIVA]
Presentato al Torino Film Festival, Frida. Viva la vida! è il docu-film evento di Giovanni Troilo che studia ed esamina con uno sguardo attento e mai banale alcuni aspetti della vita della rivoluzionaria artista messicana. Suddiviso in sei capitoli, il lavoro cinematografico riesce straordinariamente nell’intento di ricostruire un’autobiografia della donna. Lo fa raccontandone sì la mirabile inclinazione artistica, lo straordinario animo che l’ha resa icona pop, ma anche l’intenso dolore a cui è stata sottoposta nel corso della sua vita. È la voce di Asia Argento a condurre lo spettatore all’interno della narrazione. Una narrazione ricca di aneddoti, documenti, interviste, immagini d’archivio e luoghi emblematici.
In uscita nei cinema italiani lunedì 25 novembre, il film – prodotto da Ballandi Arts e Nexo Digital, in collaborazione con Sky Arte – resterà nelle sale per soli tre giorni.
Intervista a Giovanni Troilo, regista di “Frida. Viva la vida!”
Frida. Viva la vida! si propone di mettere in luce le due anime di Frida Kahlo. Puoi dirci di più su questa dicotomia?
Questa dicotomia è un po’ alla base del film, tanto che in una fase iniziale avevamo pensato di titolarlo Le due Frida. Dopo un lungo cercare e studiare ci siamo imbattuti in un racconto bellissimo all’interno del Diario – che è una delle fonti a cui ci siamo affidati di più – che si intitola L’origine delle due Fride. In questo testo c’è Frida che porta alla mente la solitudine della sua infanzia, e racconta che in quei momenti provava a trovare conforto in un’amica immaginaria. Una personalità frutto della sua immaginazione, che riusciva a raggiungere attraversando un vetro, scendendo addirittura sotto terra, e diceva: «Con lei finalmente sono felice».
Le due Frida nascono sicuramente da questo rapporto strettissimo, simbiotico, che lega la Frida del dolore alla Frida dell’arte, e di conseguenza che lega la produzione della bellezza alla grande sofferenza che accompagna la donna per tutta la vita. Questa è sicuramente la matrice della dicotomia, ma poi ce ne sono mille altre. C’è la Frida più tradizionalista e quella più emancipata, c’è la Frida in versione moderna e quella che guarda alle proprie radici, c’è la Frida privata e quella pubblica che decide di avvicinarsi alla politica del Comunismo. Di doppie Frida ce ne sono tante, ma in questo film abbiamo deciso di concentrarci sulla donna che soffre e che, pian piano, è costretta a soccombere al suo corpo, messa in relazione con quella che riesce a liberarsi nella sua arte.
È una dicotomia che poi si riflette anche sulla produzione artistica di Frida. In che modo?
Il concetto del doppio, del dualismo è proprio alla base dell’arte precolombiana, a cui Frida stessa si riferisce più e più volte, in maniera anche molto esplicita nei suoi dipinti. Vediamo raffigurate allo stesso tempo la luce e la tenebra, il sole e la luna, così come accadeva sulle superfici delle piramidi. C’è di fondo l’idea di una forza unica dalla duplice valenza, portatrice di vita ma, allo stesso tempo, anche di morte.
Per ricostruire l’esperienza di Frida Kahlo, siete entrati in contatto con molte personalità e molte realtà vicine all’artista. Un lavoro di grande spessore. Quanto tempo vi ha richiesto? E che tipo di esperienza è stata?
Trattandosi di un film-documentario da girare in Messico, all’inizio c’è stata una fase di studio e di scrittura molto lunga, portata avanti in particolar modo dagli autori, Marco Pisoni e Jacopo Magri. Poi abbiamo iniziato insieme questo percorso di ricerca per trovare la chiave narrativa giusta. Quando siamo arrivati in Messico, avevamo davanti a noi un viaggio già programmato, ma lunghissimo. Diverse sono le personalità che abbiamo incontrato, ma tre in particolare quelle su cui ci siamo soffermati.
La prima è quella di Hilda Trujillo Soto, la direttrice del Museo Frida Kahlo. Lei ci ha schiuso il regno di Frida come nessun altro sarebbe stato in grado di fare. Io l’ho definita un po’ scherzosamente “la coinquilina di Frida Kahlo”, visto che abita la sua casa da vent’anni. Non solo: Frida continua a mandarle messaggi dal passato. Di fronte a noi è successa una cosa bellissima: Hilda ha aperto un cassettino in un armadio in cui l’artista aveva ricostruito in miniatura tutta Casa Azul e al suo interno c’era un bigliettino con su scritto: «¡Viva La Paz!». Era Frida che giocosamente lo aveva scritto, nell’attesa che qualcuno lo ritrovasse aprendo quel piccolo cassetto della casa in miniatura.
Un’altra importante compagna di viaggio è stata Cristina Kahlo, che ci ha raccontato senza veli il rapporto difficile e insolito con un parente così noto e così ingombrante. Ci ha spiegato come solo molto in là negli anni ha scoperto davvero chi fosse Frida, imparando a conoscerla e a rispettarla profondamente.
La terza personalità cardine di questo viaggio è stata Graciela Iturbide, la donna che per prima ha fotografato gli strumenti del dolore di Frida Kahlo. L’artista infatti si sottopose, a seconda delle fonti, a non meno di venticinque operazioni (ma pare siano state almeno trentadue) nell’arco di circa vent’anni. Graciela fu la prima a fotografare i busti nel 2004 quando, a cinquant’anni dalla morte di Frida, vennero aperti alla direttrice del museo alcuni bauli contenenti questi strumenti del dolore.
Grazie a queste tre donne è stato un po’ come sedersi a un tavolo in cui si parlava di un’amica che in quel momento non c’era, per quanto è approfondita e intima la conoscenza che loro hanno di Frida Kahlo. Ci hanno dato un accesso unico al suo mondo ed è stata un’esperienza davvero straordinaria. Spero che una piccola parte di tutto questo riesca a passare anche al pubblico.
Ci sono degli aspetti della vita di Frida che ci tenevi particolarmente a mettere in luce in questo documentario?
Quando si ha il compito di pensare a un film su un artista così noto, ovviamente viene da chiedersi cos’altro si possa aggiungere su un personaggio di cui si sa praticamente tutto. Quello che abbiamo fatto è più che altro stabilire degli angoli visuali e provare a veicolare non solo informazioni, ma anche alcune suggestioni attraverso un racconto molto cinematografico. Uno dei punti visuali che abbiamo scelto è sicuramente quello del recupero delle radici. Uno sguardo al passato che si integra paradossalmente con questa donna estremamente moderna che era Frida Kahlo. Un recupero delle radici per guardare poi avanti, un modo capire bene chi si è per poi diventare le persone di domani. Il film ne tratta diffusamente, con uno studio attento, curioso, mai accademico ma sempre molto emotivo del Precolombiano e delle sue tradizioni. Si spazia dagli abiti alla tecnica pittorica.
Un altro punto visuale è quello della scrittura intimistica di Frida. Durante il film sentiamo spesso la lettura di alcuni passaggi non solo del Diario, ma anche di alcune lettere dell’artista, in cui emerge chiaramente la sua voce.
Nel documentario, a condurre lo spettatore all’interno dell’esperienza di Frida Kahlo è Asia Argento. A cosa è dovuta questa scelta?
Sicuramente ci piaceva molto l’idea di avere una donna forte, che fosse in grado di raccontare con energia al pubblico per novanta minuti una storia così intensa. In secondo luogo c’è una passione che poi abbiamo scoperto essere propria di Asia per Frida Kahlo. È stato questo l’ingrediente che ha fatto sì che lei sposasse la causa del film, e che trasferisse tutta la sua energia nella narrazione.
Frida Kahlo non è la prima artista su cui hai deciso di girare un docu-film. Nel 2016, ad esempio, è uscito quello su William Kentridge, nel 2018 “Le ninfee di Monet”. Da cosa nasce questa tua passione per il mondo dell’arte?
È una passione in senso molto lato, perché poi spazia dall’arte contemporanea alla fotografia, tanto che per Sky Arte ho diretto tre serie di fotografi. Sicuramente c’è un’attitudine personale forte, alimentata da questo lungo sodalizio con Sky Arte per cui ho lavorato a circa trenta documentari. Negli anni ho spaziato dai dipinti scomparsi (un progetto in cui ho trattato di sette diversi artisti molto diversi tra loro), a vere e proprie monografie. Due esempi sono quella su Monet e questa su Frida.
Con quale criterio hai scelto gli artisti su cui girare docu-film?
Dipende dal tipo di storia. Ad esempio nel progetto dei dipinti scomparsi c’era un’equazione molto complicata da seguire. C’era infatti bisogno di una storia molto forte legata all’opera d’arte, così come di un artista abbastanza noto. In quel caso, poi, c’era la necessità che fosse conosciuto non solo in Italia, ma in tre diversi Paesi. Ci sono quindi delle cose che devono coincidere, ma quello che poi muove tutto è la scintilla che nasce. Una vera e propria fase di innamoramento. È qui che diventa chiaro che non solo ci sono tutti gli elementi per costruire una storia, ma anche un vero trasporto capace di alimentare un processo molto lungo nel tempo.
Hai altri progetti simili per il futuro?
Sono ora in fase di montaggio, di chiusura e di post-produzione di un documentario che racconta il rapporto uomo-vulcano, girato a Napoli. C’è poi l’idea di un film di finzione da girare in Belgio; un progetto completamente diverso, di stampo tarantiniano. Infine in cantiere c’è anche un documentario su Roma.