Maria Luisa Caruso, che grazie alla riforma del Concilio Vaticano II ha mantenuto il suo nome da laica, oggi è Suor Maria Luisa. Una suora che ha scelto di cambiare la sua vita senza stravolgerla. Ha fatto delle sue capacità tecniche e dei suoi studi una risorsa da utilizzare anche nella vita da consacrata. L’abbiamo affettuosamente definita l’ingegnere che ‘costruisce’ le case per i poveri, perché Maria Luisa è proprio in questo modo che ha realizzato il sogno coltivato fin da bambina.

Suor Maria Luisa, prima di diventare suora, quale carriera aveva intrapreso?

Ho studiato ingegneria civile strutturale e ho lavorato circa cinque anni in uno studio di progettazione, progettando anche strutture in terre di missione. Ne ero molto contenta. Stavo realizzando in qualche modo il mio sogno da bambina. 

A quale sogno si riferisce?

Sin da bambina, affascinata dai racconti dei missionari della mia parrocchia, che raccontavano pieni di entusiasmo la loro vita tra i più poveri, sognavo di partire per le missioni e lì vivere con la gente e magari costruire case per i più poveri dei villaggi; sognavo di farlo insieme al mio papà che era ingegnere e costruttore.

Costruire strutture nelle terre di missione ha contribuito nella scelta verso la vita consacrata?

Sì, è in quegli anni che mi sono sentita di dover rispondere ad una chiamata del Signore che mi chiedeva di seguirlo lasciando tutto e ascoltando la sua voce per andare e servire i fratelli più poveri, lì dove Lui solo mi avrebbe indicato. Sono entrata tra le Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret, e dopo 8 anni è arrivata la richiesta di partire per la missione in Etiopia. Sono partita con l’entusiasmo della scoperta ma soprattutto con la gioia di poter realizzare il sogno che già nutrivo sin da bambina, e che poi nel tempo, e soprattutto immergendomi nei servizi che mi erano stati chiesti, avevo quasi dimenticato!

Suor Maria Luisa, in che modo ha potuto realizzare questo sogno, sfruttando le sue competenze ingegneristiche?

Il progetto che ho potuto realizzare tra gli altri, e che più mi sta a cuore, è quello dell’avvio di una scuola di cucina per giovani donne di Shire e dintorni: analizzando il territorio e rispondendo alle esigenze di molte
giovani donne impossibilitate a trovare lavoro, abbiamo potuto realizzare, con l’aiuto della CEI e di generose famiglie e parrocchie italiane, una scuola alberghiera che offre alle giovani la possibilità di imparare a cucinare e non solo cibo tradizionale etiopico, ma anche internazionale, a servire negli alberghi e magari anche presso le famiglie più benestanti. Iniziato il primo corso con solo 5 iscritte, siamo arrivate in tre anni ad avere 120 iscritti ogni anno, distribuiti in due corsi semestrali. Ognuno degli iscritti aveva
poi avuto la possibilità di trovare un lavoro, o presso i ristoranti e gli alberghi della città, o in Addis Abeba, o in Sudan presso organismi internazionali. La maggior parte degli studenti sono giovani ragazze
e mamme: una conquista che ha dato loro la possibilità di avere un lavoro e quindi una propria autonomia. Che gioia per loro!

8 anni in un Paese diverso dal suo: c’è un momento, un episodio che l’ha segnata in particolare?

Ricorderò sempre la prima visita a una famiglia assistita: erano madre, padre molto malato e debole che lavorava come guardiano di notte in una fabbrica, una ragazza maggiore, paralizzata e con disturbi mentali, un secondo e un terzo figlio abbastanza sani ma che non potevano andare a scuola per la distanza eccessiva dalla casa, un gemello nato da poco e il cui fratellino era mancato improvvisamente qualche giorno prima. La casa era davvero molto misera e senza luce, la ragazzina sedeva per terra all’esterno
della casa, per avere un po’ di aria… Il cibo era scarso, ma il sorriso e la gioia del benvenuto così coinvolgenti ed emozionanti che non me li dimenticherò mai. Quale spirito di accettazione, di fiducia e di speranza. Un grande insegnamento! Quale senso di solidarietà tra la gente. Ho imparato molto lentamente quanto forti siano i legami tra di loro, soprattutto nei momenti difficili e della morte. Percorrono lunghe distanze, chi può in macchina, ma per lo più a piedi su sentieri scoscesi e accidentati per ore e ore, per poter essere presenti al funerale della persona deceduta ed essere vicini alla famiglia, molto spesso a digiuno, ma sempre con del pane o del cibo per sostenere la famiglia nel momento del lutto.

Suor Maria Luisa, dopo essere ritornata dall’Etiopia ci sono state per lei altre esperienze simili?

L’Etiopia è stata fino ad ora l’unica esperienza missionaria significativa e lunga.

E in questo momento sta lavorando a qualche progetto in particolare?

Il servizio che la Congregazione mi chiede ora è quello di seguire e accompagnare progetti di sviluppo presso le nostre missioni in 32 Paesi nel mondo. Sto imparando così a conoscere tante missioni e ho la gioia di scoprire nuovi mondi, studiarne la realtà e le problematiche e arrivare a ipotizzare un minimo di sviluppo. Perché davvero tutto avvenga per il bene di quei popoli. Sento forte l’appello che il Papa ci ha rivolto la scorsa
giornata mondiale del povero (17 Novembre): “Siamo chiamati ad agire, per essere il volto di Cristo ed incontrare il suo volto Siamo chiamati ad essere Speranza e a donare Speranza”. Questa è la mia speranza e questa è la mia preghiera ogni giorno.