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Fattorie verticali, il cibo fatto in casa diventa una realtà produttiva

Aumenta sempre di più, a livello mondiale, la tecnica delle colture indoor. Dette anche “fattorie verticali”. Si tratta di produzioni che privati o aziende realizzano a “metro zero” in serra. All’interno di edifici. Case, palazzi o costruzioni che si trovano nelle vicinanze dei centri abitati. L’obiettivo è quello di interrompere la catena logistica di distribuzione del prodotto finale rendendola cortissima.

Il sistema di produzione, comunemente denominato vertical farming, lo si pratica in serre verticali che si qualificano come centri di autoproduzione di cibo. Le colture – ortaggi, insalate, frutti – vengono coltivate in strati sovrapposti verticalmente all’interno di appositi ambienti.

Il comparto, secondo stime rilasciate in occasione di “NovelFarm“, appuntamento fieristico in programma a Pordenone Fiere il 19 e 20 febbraio prossimo, avrà una crescita media annua del 24,6%. E così passerà dai 2,23 miliardi del 2018 (fonte Allied Market Research) ai 12,77 previsti per il 2026.

Il settore, come detto, ha il fine di produrre ortaggi, piccoli frutti, verdure. Ma anche erbe officinali e aromatiche. Tutto grazie al sistema delle tecnica ad irrigazione idroponica. Whole Foods Market, la catena di cibo “organic” e di alta qualità parte del gruppo Amazon, con oltre 500 negozi in tutti gli Stati Uniti, sta ad esempio accelerando. Adotterà cioè sempre di più le fattorie verticali di piccole e medie dimensioni per coltivazioni fuori suolo all’interno o in prossimità dei propri store.

A New York si producono regolarmente verdure a foglia, microgreen ed erbe aromatiche. Nel New Jersey e recentemente anche a Boston, la produzione si concentra sui funghi. In Europa, l’avanguardia è rappresentata dalla startup berlinese Infarm.

Domenico Coviello

Attualità, Politica ed Esteri

Professionista dal 2002 è Laureato in Scienze Politiche alla “Cesare Alfieri” di Firenze. Come giornalista è “nato” a fine anni ’90 nella redazione web de La Nazione, Il Giorno e Il Resto del Carlino, guidata da Marco Pratellesi. A Milano ha lavorato due anni all’incubatore del Grupp Cir - De Benedetti all’epoca della new economy. Poi per dieci anni di nuovo a Firenze a City, la free press cartacea del Gruppo Rizzoli. Un passaggio alla Gazzetta dello Sport a Roma, e al desk del Corriere Fiorentino, il dorso toscano del Corriere della Sera, poi di nuovo sul sito di web news FirenzePost. Ha collaborato a Vanity Fair. Infine la scelta di rimettersi a studiare e aggiornarsi grazie al Master in Digital Journalism del Clas, il Centro Alti Studi della Pontificia Università Lateranense di Roma. Ha scritto La Storia di Asti e la Storia di Pisa per Typimedia Editore.

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