Di Roberta Mattei mi colpiscono due o tre cose in particolare, durante l’intervista che facciamo in occasione dell’uscita in sala del suo ultimo film. La voce dai toni fermi e calibrati, accesa da qualche scossa di timido sarcasmo, solo quando proprio non riesce a trattenerlo; la lucidità con la quale racconta le occasioni più importanti della sua carriera e il tratto gentile con cui ritrae i suoi colleghi, i registi che l’hanno diretta e le storie dei suoi personaggi.

Alle spalle una carriera versatile, tra fiction tv di successo (R.I.S. Roma – Delitti Imperfetti, Don Matteo, Un passo dal cielo) e una rosa di importanti film per il cinema (Non essere cattivo, Veloce come il vento, Il grande salto), che l’ha condotta verso una candidatura ai David di Donatello nel 2017, come Miglior attrice non protagonista nel film di Matteo Rovere.

Da oggi al cinema con il nuovo film diretto e interpretato da Ficarra e Picone, “Il primo Natale”, Roberta Mattei sarà Rebecca. Una donna incredibilmente attuale, nonostante sia impegnata a salvare la vita di Gesù nella Palestina al tempo di re Erode.

Intervista a Roberta Mattei, al cinema con la sua Rebecca nel film “Il primo Natale”

Roberta, da oggi sei al cinema con il nuovo film di Ficarra e Picone, “Il primo Natale”. Una commedia natalizia ma anche una sorta di fiaba moderna, e perfino una satira politica. Cosa dobbiamo aspettarci da questo film?

Aspettiamoci tanta dolcezza, tanta gentilezza da questo film. È il segno che contraddistingue Ficarra e Picone, la capacità di fare sempre una commedia mai volgare. Aspettiamoci di fare un viaggio nel tempo e di ritrovarci in situazioni a cui forse non abbiamo mai pensato, come appunto la nascita di Gesù Bambino. Che cosa è successo in quel momento storico?

Il salto indietro nel tempo è di quelli importanti: Palestina, circa 2000 anni fa. Questo è il tuo primo film in costume con un impianto produttivo così complesso. Com’è stato lavorare su un set del genere?

È stato praticamente un colossal. Abbiamo avuto a che fare con la grande macchina del cinema, fuori dal quartiere, dalle situazioni più convenzionali. Ho visto davvero la costruzione della magia del cinema, fatta di grandi paesaggi, di bighe, di tigri, di costumi eccezionali come quelli creati da Cristina Francioni, con un senso di vastità incredibile. Abbiamo girato in Marocco. L’ambientazione delle riprese era la stessa in cui vivevamo in quel periodo. È stato come non uscire mai da quell’atmosfera, con addosso la suggestione di essere continuamente immersi in quegli anni. 

Ti sei innamorata del tuo personaggio?

Sì, mi sono innamorata davvero di Rebecca. È una donna combattiva, è una donna che sceglie l’autodeterminazione. Anziché rimanere a casa ad accudire solo la famiglia, decide di partecipare ad una rivoluzione. In molte donne dell’epoca c’era questa spinta, anche leggendo i libri sacri è pieno di donne che trovano un modo per ottenere quello che vogliono. Mi sono resa conto che il femminismo non parte nel ’68 (ride, ndr).

Immagino tu abbia già visto il film. Sei soddisfatta del tuo lavoro?

Molto. Soprattutto perché non è facile stare vicino ad una coppia di giganti, rischi di sentirti sempre un po’ una ‘spalla’. Invece, a maggior ragione in una storia come questa, la coppia “Ficarra-Picone” doveva essere altrettanto credibile come non-coppia. È stato come avere due persone in un’anima sola. Salvo (Ficarra, ndr) ha l’istinto, la praticità, il senso del comico e della maschera. Valentino (Picone, ndr) è la preparazione concettuale, la pignoleria nei minimi dettagli, quasi non dormiva in vista del lavoro del giorno dopo. Quindi il filosofo e il pratico, lo spirituale e il concreto. Ma sempre in coppia.

Nel 2015 con “Non essere cattivo” e poi nel 2016 con “Veloce come il vento” hai preso parte a due film che hanno segnato il cinema italiano degli ultimi anni. All’epoca percepivi già l’importanza di due progetti come questi?

A dire la verità, sì. Con Rovere ho girato prima di Caligari, anche se il film è uscito dopo. “Veloce come il vento” era il mio primo film in assoluto e avevo la percezione, data la personalità del regista e la bravura di Stefano Accorsi, di far parte di un’operazione che era già unica nel suo genere. Un interno familiare sportivo, tratto da una storia vera, e in qualche modo in Italia non si era mai girato un film così sulle macchine da corsa. Sentivo che l’intuizione di Matteo fosse qualcosa di nuovo. Con Caligari ho avuto la netta sensazione, ogni giorno che giravo, di far parte di un messaggio estremamente importante e universale, di un cinema alto. Qualcosa che avevo ritrovato negli artisti che amavo quando ero più piccola, come De André, Pasolini, e tutti coloro che hanno messo al centro ‘gli ultimi’. Una tematica che nell’epoca contemporanea, fino a poco fa, non veniva osservata un granché.

Che sensazione si prova a sentirsi dire: “Roberta, sei candidata ai David di Donatello”?

Non me l’aspettavo, sono una che vive un po’ fuori dal mondo. Pensi sempre che quei premi siano destinati a persone già affermate, che giustamente hanno un background professionale più consolidato. Sapere che la giuria di un premio come i David ti prende in considerazione, in qualche modo, anche se non è necessario, t’accarezza il cuore.

Dov’eri quando l’hai saputo?

Ero in bagno, a lavarmi i denti (ride, ndr). Sono andata da mia madre e le ho detto: “Ma’, mi hanno messa nella cinquina”, e lei mi ha risposto: “Beh, qual è il problema?!”.

Ti rivedremo presto, spero. Dove?

Sto lavorando con Niccolò Ammaniti. Posso dirti che è una favola nerissima, chi ha letto il libro “Anna” in qualche modo avrà già idea di cosa stiamo parlando. Il mio è un personaggio che vive in un mondo che non vorrebbe, che assiste a qualcosa che non vorrebbe vedere. È un ruolo con una grande evoluzione psicologica e soprattutto fisica. Però è una storia che ha all’interno tanta tenerezza. Siamo in fase di ripresa, i prossimi mesi gireremo in Sicilia e sarà un duro lavoro che non vedo l’ora di fare.