Quando incontro Giuseppe Bonito Figli è già in sala da un po’, ha quasi finito la sua corsa al botteghino e capisco subito che il fine ultimo di quest’intervista sarà quanto di più lontano dalla promozione del suo lavoro. Quella premessa sulla locandina ufficiale, “Un film di Mattia Torre, regia di Giuseppe Bonito”, è carica di ricordi, responsabilità e macigni personali. Il testimone che gli è capitato tra le mani è di quelli che segnano la vita e che, forse, non avrebbe mai augurato a se stesso di ricevere. Oggi, dopo 6 mesi di convivenza con Figli, tra cui sette settimane di riprese e due fortunati weekend in sala, Giuseppe parla di questa creatura con la stessa confusione e lo stesso timido rispetto con cui l’ha accudita quando Mattia Torre l’ha lasciata in eredità a lui.

Fa appena in tempo a sedersi e, senza neanche aspettare la mia prima domanda – ma indovinandola, curiosamente, come se la conoscesse già – si racconta subito: «Per me c’erano molti fattori d’inquietudine nel fare questo film. La cosa buona è che ce ne erano così tanti a livello personale, anche rispetto a Mattia, che poi tutte le ansie da prestazione di un film sono passate in secondo piano».

Intervista a Giuseppe Bonito, regista di “Figli”, un film di Mattia Torre

Giuseppe, ti è pesata la promozione del film?

Molto. Infatti poi ho smesso. Mi chiedevo sempre cosa avrebbe pensato lui, se sarebbe stato contento, se gli sarebbe piaciuto.

Alla famiglia di Mattia è piaciuto il film?

Sì. Frou (Francesca, ndr) la moglie di Mattia, mi ha scritto un messaggio che ho tatuato dentro. Lei ha visto il film il giorno prima della proiezione stampa per i giornalisti, ed essendo la persona più vicina a Mattia che io conosca in vita, questo valeva tutto per me. Ero molto amico di Mattia. Il film per me è nato da una situazione terribile, drammatica. Ho cominciato a prepararlo quando lui se ne è andato. Ho vissuto tutto in una dimensione affettiva e d’impegno a portare avanti qualcosa a cui Mattia teneva tantissimo. Una delle sue ultime frasi che ricordo e che mi colpì, perché Mattia non era persona da dire frasi del genere, è stata: “Questo film per me è un terzo figlio”

Un lutto e un film: sembrano due situazioni impossibili da tenere in piedi insieme.

Già, e in questo caso sono drammaticamente coincise. È stato un film in cui tutti quelli che l’hanno fatto hanno pianto molto. La cosa veramente straordinaria è che tutto questo si è trasformato in qualcosa di davvero bello. Io vedevo che tutti ci tenevano a lavorare al massimo, c’era qualcosa in più della normale energia di un set. 

È stato in qualche modo catartico?

Non so se è stata una lavorazione catartica. Però ha continuato a farci sentire Mattia ancora presente. Pensa che un 80% di persone, tra cast e troupe, erano buoni amici di Mattia. A cominciare da me, che per sei mesi ho convissuto con questo film, ma è stato così per tutti. È stato un modo per elaborarla un po’, la perdita di Mattia. Con questa sceneggiatura in qualche modo ci confrontavamo tutti i giorni con lui, in una maniera sia istintiva che riflessiva.

Giuseppe Bonito: «Il mio rapporto con Mattia è sempre stato istintivo»

Ti aspettavi di ereditare questo testimone da Mattia? Ti sei mai chiesto perché abbia scelto proprio te?

Me lo sono chiesto. E gliel’ho chiesto. Mattia mi disse: “Non mi chiedere perché ho pensato a te, è stato un atto molto istintivo”. E alla fine anche il modo in cui io mi relazionavo alla sua assenza, durante il film, è stato un atto istintivo. Non mi sono mai chiesto ‘come avrebbe fatto Mattia’ razionalmente. In realtà la nostra collaborazione non è stata inedita. Con lui avevo fatto “La linea verticale”, la mia troupe di seconda unità ha girato un paio di settimane per lui. Anche lì, con Mattia vivente e operativo, non ragionavamo sulle scene. È stato sempre tutto istintivo tra noi, mai troppo mediato dalle parole. Quell’esperienza mi è servita tanto a capire certi suoi dosaggi. La sua è una scrittura che quando vai a metterla in scena, è importante che non sia mai ‘dopata’ da nulla. Né nel lavoro con gli attori né nell’uso della macchina da presa. Nella sua scrittura la realtà e l’invenzione dell’inconscio si alternano con grazia e sfrontatezza, a volte anche nella stessa scena. Ho capito che tutto questo non andava mai sottolineato. Il passaggio tra i due registri c’era già, in maniera naturale. Ho seguito questa stessa modalità di messa in scena, ma bisognava stare attenti. Bastava che marcassi un po’ per soffocare l’effetto della scrittura.

Direi che ci sei riuscito. C’è una semplicità di forma e di regia perfetta per quelle che secondo me erano le intenzioni di scrittura.

Sì, con Mattia non abbiamo parlato nello specifico delle scene, ma lui ogni tanto ‘buttava fuori’ cose, si riferiva ad una certa commedia francese. Dopo che se ne è andato mi sono dovuto aggrappare anche a queste chiacchierate.

È stato doloroso?

Soprattutto all’inizio. Ho rivisto tutti i provini che lui aveva fatto, ascoltavo le sue voci fuori campo, come dava le battute agli attori, le indicazioni, i cambiamenti che faceva nella scena per vedere se funzionava. È stato un esercizio dolorosissimo, erano circa 50 ore di prove e provini. Anche quello mi è servito a tentare di ricostruire un’idea di film che Mattia poteva avere.

Ma durante la lavorazione tu non potevi avere un confronto diretto con lui. 

No, e tra l’altro quando Mattia mi ha coinvolto stava già molto male fisicamente. Voleva già che lo affiancassi, sapeva che non sarebbe riuscito a tenere tutti i ritmi del film. La situazione clinica era già compromessa, e da lì a pochi giorni è diventata irrimediabile. Sono passate due settimane prima che morisse, ma le abbiamo trascorse semplicemente stando insieme. Parlare del film in quel momento era doloroso per lui ed era violento per me.

Giuseppe Bonito: «Ho chiesto 48 ore per pensarci»

Hai mai pensato di non accettare il film?

Sì, quando si è delineata la possibilità che dovessi farlo solo io ho chiesto 48 ore per pensarci. E ho seriamente preso in considerazione l’idea di non farlo.

Però?

Però mi sembrava ingiusto farlo e ingiusto non farlo. Quindi, tra le due cose, ho preferito farlo.

C’è qualcosa che ti ha spinto davvero ad accettare?

È stato importante confrontarmi con la moglie di Mattia, e anche una telefonata di Valerio Mastandrea. Ma sono state 48 ore in cui ho pianto tantissimo. Avevo perso mio padre tre mesi prima, è stato tutto molto drammatico. Una morte è sempre ingiusta, soprattutto il fatto che muoia una persona di 47 anni, un padre, un giovane. Ma quello che mi ha fatto più rabbia è l’idea di perdere lui. E non parlo solo da amico. Ho fatto l’aiuto regista per vent’anni, ne ho conosciute di persone, anche di esaltati. Ma Mattia era un talento vero, puro. E poi un altro aspetto ha reso tutto ancora più ingiusto: nonostante avesse già scritto cose importanti, da Boris ad una sua certa produzione teatrale, dando prova di essere un grandissimo autore, con La linea verticale Mattia aveva cominciato un percorso suo, e solo suo, di narrazione per il cinema. Secondo me nel giro di qualche film avremmo avuto un nuovo importante autore del cinema italiano, riconosciuto anche all’estero.

Questo credo abbia fatto una rabbia sincera a tutti.

Sì, in un ‘festival di ingiustizia’ questo, da persona di cinema, è stato un aspetto inaccettabile della sua scomparsa. Mattia aveva una curiosità verso l’essere umano che io non ho mai visto in nessuno. E aveva anche l’umiltà tipica dei grandi. In Figli è capitato spesso che chi ha lavorato al film dicesse “questa gliel’ho raccontata io”, “questo è successo a me”. Bastava una cena, un racconto sentito, e lui aveva sempre le antenne pronte in una dimensione di ascolto sincero verso le storie degli altri. Gli raccontavi qualcosa e magari diventava una scena. Perfino i voli dalla finestra in Figli traggono spunto da qualcosa di vero.

Giuseppe Bonito: «Ci siamo divertiti tanto sul set»

In quante settimane avete girato Figli?

Sette settimane. Che era un tempo giusto, buono. Non amo avere troppo tempo per girare, ho bisogno di limiti per dare il meglio.

Tu sei subentrato in una storia a cui Mattia teneva molto, ma qual è stato il tuo approccio da regista sul set? 

Io ho bisogno un po’ di rischiare. Mi piace andare sul set un’ora prima, la mattina, e starmene seduto a pensare nella location, prima che arrivino tutti. Non riesco a prefigurarmi un disegno formale del film prima. Macchina da presa e attori per me devono andare sempre un po’ a braccetto, insieme. Con Paola e Valerio prima di iniziare le riprese ci siamo fissati un recinto, rispetto alla sceneggiatura di Mattia. Poi ci siamo concessi dei momenti di libertà, i miei momenti di ‘personalità’ sono stati puramente registici. Dal punto di vista dei contenuti ho sempre voluto rispettare Mattia, avevo un mandato. Il paradosso è che se l’avesse girato lui sicuramente avrebbe cambiato molto di più.

Questo gusto per il rischio si contrappone in maniera curiosa alla tua carriera ventennale da aiuto regista…

Assolutamente. Determino le inquadrature in base al lavoro con gli attori. Non riesco a prepararmi neanche qualche reference prima di girare, non ho un progetto formale a monte, ogni volta che me lo riprometto alla fine diventa un atto istintivo. Credo che in questo si guadagni qualcosa e si perda qualcos’altro.

Vi siete anche divertiti sul set?

Ci siamo anche divertiti, e questo mi fa piacere dirlo. C’era uno spirito che sarebbe piaciuto a Mattia, lui riusciva a sdrammatizzare sempre. Credo sia stata una situazione irripetibile. Molti di quelli che hanno fatto il film sono stati con Mattia anche nel momento in cui se ne è andato. Forse per questo tutto quel carico emotivo si è trasformato in qualcos’altro, è stato miracoloso.

Giuseppe Bonito: «Mattia ha visto qualcosa in me che neanche io capivo»

In sala, durante tutto il film, mi hanno colpito due cori precisi. Il primo partiva da quelli con i figli che ridevano e commentavano: “quanto è vero!”; il secondo arrivava da quelli senza figli, che si giravano verso gli altri: “ma succede davvero così?”. Come si raggiunge tanta verità al cinema? Anche nel tuo primo film, “Pulce non c’è”, la verità non manca.

Questo aspetto di me l’ha capito lui più di me, è incredibile. Quando mi ha coinvolto nel film gli avevo subito obbiettato: “Mattia, tu stai chiedendo di fare un film a una persona che non ha figli, quindi io sto facendo un film di fantascienza, è un film di genere per me!”. Ma forse lui aveva bisogno proprio di affidare il film a una persona che non avesse l’ansia della risata. Questo però andrebbe chiesto a lui, è lui che ha visto qualcosa in me che io neanche capivo.

In Figli ci sono dei momenti in cui si tira parecchio la corda, alcune scene sono davvero anticonvenzionali e al limite del tragico. Hai mai avuto paura di esagerare?

Sì, il pubblico magari si aspettava la commedia e basta. I primi 60 minuti in effetti ridi soltanto, poi entri in un’altra dimensione e diventa un film sulla coppia. Sulla sua capacità di tenuta o meno di una coppia. È come una sorta di cappa pressoria che preme su di loro. C’è una porzione di spettatori che resta anche delusa da questo. Credo che fosse proprio un intento di Mattia.

A un certo punto, sul finale, io e il mio compagno ci siamo guardati e stretti la mano, angosciati dal futuro. Molti invece hanno visto una chiusura ottimista, come a dire che l’amore supera tutto. 

Sì, io direi piuttosto che “l’amore supera tutto… però. A me piace l’idea che tu finisca il film senza che si risolva la tensione, come a dire: “Potremmo farcela, ma non è detto che ce la facciamo”. Spesso la nostra commedia banalizza ciò che tratta, o è bianco o nero. Invece la vita è più complessa, e credo che Mattia cercasse un approccio di questo tipo alla commedia. Anche io volevo suggerire questo nel finale. Non finisce male, ma non è detto che finisca bene.

Peraltro è quello che secondo me lo rende davvero un film generazionale. Ci ricorda che non siamo una generazione fortunata, in cui l’amore e la famiglia sopravvivono. 

Infatti non mi sento di dire che in futuro Nicola e Sara non si separino (ride, ndr).

Valerio Mastandrea e Paola Cortellesi: «Per me sono sempre stati Sara e Nicola»

“Non poteva essere altro che la coppia Mastandrea-Cortellesi”, anche questo è un parere comune. In realtà siamo di fronte ad una coppia inedita sullo schermo, quindi non si andava a colpo sicuro. Secondo te potevano essere solo loro Sara e Nicola?

Loro li aveva già scelti Mattia. Il mio approccio con loro non è mai stato “Valerio e Paola”, li ho sempre visti come un unico personaggio. Un’unica creatura con due teste, NicolaeSara. Anche secondo me potevano essere solo loro due. Alcuni hanno notato che forse sono un po’ grandicelli per quel ruolo, ma per me rappresentano anche in questo una generazione precisa. Mattia aveva sempre questo riferimento delle social-democrazie del nord-Europa in cui i figli si fanno presto, com’è giusto e bello che sia. Il fatto che invece i nostri siano più grandi d’età ci rappresenta.

Pulce non c’è e Figli sono due film familiari giocati su equilibri particolarissimi. Tu però non hai figli. Che riferimenti hai soprattutto quando dirigi gli attori?

I miei genitori. Figli è un film non solo sull’essere genitore, in effetti, ma anche sull’essere figlio. Quella è stata una guida importante, ho raccontato i genitori ma da figlio. È curiosa questa storia…

Verso “L’Arminuta”, trasposizione cinematografica del romanzo di Donatella Di Pietrantonio – vincitore del Premio Campiello e Premio Napoli

Il tuo prossimo film, L’Arminuta, ti porterà ancora una volta in questa dimensione di rapporti familiari complessi…

Esatto, lì esploreremo addirittura il concetto di maternità nei suoi confini più estremi. Credo di aver portato davvero un amore genitoriale nel fare sia Pulce che Figli, e ho pensato “in queste coincidenze c’è qualcosa che prima o poi capirò”. È incredibile come la vita non mi abbia portato ad avere figli, però il cinema sì. Nel caso del film di Mattia, poi, è un progetto che mi è perfino piombato addosso. È una nemesi che devo ancora mettere a fuoco, forse c’è qualcosa che mi vibra dentro. Probabilmente parlo anche al genitore mancato che è in me e ho bisogno di esplorare queste mie zone oscure per fare un film. Ma è difficile, dovrei fare qualche decennio d’analisi per risponderti davvero (ride, ndr).

Hai già incontrato Donatella Di Pietrantonio, l’autrice de L’Arminuta?

Certo, abbiamo già scritto la sceneggiatura, insieme a lei e Monica Zapelli, che è stata anche la sceneggiatrice di Pulce non c’è. Se tutto va bene gireremo il film in autunno, perché racconta un anno di vita e ho bisogno di un inverno vero, un inverno da cinema iraniano. Sarà una bella sfida, è la storia di una ragazza che ha due madri e nessuna madre, di fatto.

Donatella Di Pietrantonio le chiama “la madre delle vacanze”, oppure “la prima madre”: fa delle scelte lessicali incredibili.

Ecco, la cosa impressionante di Donatella è che si ha l’impressione che ogni parola che sceglie sia l’unica parola possibile. Ci sono delle frasi che io non riesco a leggere a voce alta per quanto mi commuovono. Vuol dire che è una scrittura davvero densa, ogni frase ha un peso pazzesco. Lei è una sorta di Ágota Kristóf calda, mai fredda.

Sarà davvero una bella sfida rendere visivamente una scrittura forte come la sua. Ti spaventa?

Sono abbastanza tranquillo in realtà. Figli è un percorso ancora caldo, ho bisogno di capire bene cosa è successo, cosa ho vissuto. Per L’Arminuta ho addosso il senso di ebbrezza di una nuova avventura che inizia. È rischioso perché è un film difficile da fare, ma io non sento mai l’angoscia del film. Se ci pensi è l’occasione di un viaggio.