‘Sto sport è nato sulla terra, urla Alberto Di Stasio: anche questo film. Sulla terra di un campetto da calcio del Quarticciolo, in piena periferia romana, sotto il sole cocente e quasi insostenibile dell’estate 2017. Noi che abbiamo girato La partita ricordiamo una lavorazione fatta di corse, sudore, del rumore costante degli scarpini che battono il terreno e sollevano la polvere, sempre infilata negli occhi, tra i capelli, sotto le unghie. Ricordiamo un set giocato a colpi di pallone, adrenalina e dedizione cieca in un progetto che – gli avevano detto – era troppo rischioso per investirci.

Lo intervisto oggi che il suo film, invece, in sala ci è arrivato: Francesco Carnesecchi, che per me è sempre stato Frank. Quando l’ho conosciuto tre anni fa credevo che il dischetto del rigore fosse un fabbisogno di scena e non distinguevo un fuorigioco da un fallo. Chiaramente non li distinguo neanche adesso. Ma quella macchina da presa “tra le gambe dei giocatori” e sui loro volti stanchi e agguerriti, giovani e inconsapevoli eroi di una partita domenicale in cui si gioca il tutto per tutto, lui ha voluto ad ogni costo descriverla sul campo, tra la terra, sfidando la resistenza fisica e i tempi di un film girato in appena 4 settimane. Qualcosa che della bellezza di questo sport mi ha insegnato parecchio. Perché se raccontato in questo modo, il calcio emoziona anche chi non lo ama, e magari vende. Pure in Italia.

“La partita”, intervista a Francesco Carnesecchi

Togliamoci subito il pensiero: sei stato uno dei pochi ad uscire in sala con un film in pieno panico da Coronavirus. Come la stai gestendo?

Sto cercando di ottimizzare il tempo che mi viene concesso. Ho un virus che ha creato panico e ha costretto i cinema di mezza Italia a fermarsi, quindi io ho meno sale. Questo è un dato di fatto, quindi ci sta danneggiando. Però allo stesso tempo lo stiamo affrontando con un po’ di ironia, giocando sui social. Devo dire che abbiamo anche preso delle sale nel resto dell’Italia che prima non avevamo, proprio perché molti film hanno deciso invece di rimandare l’uscita. E questo forse ci darà meno pubblico, ma la speranza è che il film resti più tempo in sala.

La partita nasce come cortometraggio, ormai molti anni fa, e poi diventa un film, con non poca fatica. Non l’hai proprio voluta mollare questa idea. Perché ci hai creduto così tanto? Un bisogno, una visione, o entrambe le cose?

Sì, forse entrambe. Ci ho scommesso perché mi piaceva l’idea di fare un film all’interno del campo da calcio e di usare la struttura dei 90 minuti di una partita come filo conduttore per raccontare una storia. La durata di una partita di calcio è all’incirca la stessa di un film, e questa coincidenza mi ha sempre dato ‘del cinema’. Poi mi piaceva chiudere il destino di tre personaggi all’interno di una partita. L’idea è vincente? Non lo so, ma i film fatti sullo sport fino a questo momento trattavano sempre una stagione, un obbiettivo verso la coppa, un doversi salvare. Nessuno ha mai fatto un film solo su una partita, ché poi la partita in sé, di base, non conta niente, è una partita tra ragazzini. Quello che c’è dietro, però, la fa diventare molto importante per tutti.

“Il calcio non vende in Italia”

Quando cercavi una produzione, all’inizio, ti sei sentito ripetere una frase che per noi è diventata uno slogan: “Il calcio non vende in Italia”. Allora cos’è che vende in Italia? Ma soprattutto, perché hai insistito a fare un film che non vende in Italia?

(Ride, ndr) Perché più mi dici che una cosa non si può fare e più mi viene voglia di farla! Anche perché mi davano questa risposta tirando in ballo film sul calcio che non funzionavano o che non avevano ricevuto la giusta attenzione. Guarda caso noi abbiamo fatto un film nel 2017, la lavorazione è stata lunga perché era un film indipendente, ma nel frattempo la ‘moda-calcio’ è esplosa. L’anno scorso è uscito “Il Campione”, tra poco uscirà “Ultras” di Francesco Lettieri su Netflix, stanno anche facendo la serie Amazon su Maradona, il film su Totti, quello su Baggio…

Perché secondo te è esplosa solo ora? Il calcio è il nostro sport nazionale da sempre…

Non so, forse si sono resi conto che gli americani fanno i film sul fooball, sull’NBA, sul baseball, e funzionano anche all’estero. Ci si rispecchia anche se è uno sport che non si pratica. Forse alla fine hanno capito che anche in Italia bastava fare dei prodotti di qualità, che trattassero bene l’umanità dei personaggi. Io per esempio tratto molto il campo, volevo proprio buttare la camera tra le gambe dei giocatori, far sentire la terra.

Che poi La partita è anche un inno alla romanità, alla cultura romana, ai suoi colori. Hai mai avuto paura che questo fosse poco esportabile?

Diciamo che io non potrei scrivere in milanese (ride, ndr). La cosa che sopporto meno dei film italiani è quando i personaggi parlano e non sai localizzarli. Non è vero, nella vita reale nessuno parla sempre l’italiano pulito. Devo capire da dove vieni. Certo, La partita è tutto ambientato nella periferia romana, quindi più marcato. Però ho pensato: in Gomorra mi dà fastidio il dialetto napoletano così marcato? No, mi darebbe fastidio il contrario.

“La partita”: Pannofino, Di Stasio, Colangeli

Francesco Pannofino, Alberto Di Stasio e Giorgio Colangeli: tu hai puntato su di loro. Loro hanno puntato subito su di te?

Giorgio ci ha puntato più tardi. Alberto mi ha dato cieca fiducia dall’inizio. Per quanto riguarda Francesco invece ho saputo tempo dopo che mi aveva aperto la strada Marco Risi. Conosco Tano, il figlio di Risi, è stato a New York anche lui e si era innamorato di un videoclip che avevo girato. L’aveva fatto vedere anche al padre, che conosce Pannofino. A quanto pare si sono parlati proprio quando io cercavo di contattarlo per averlo nel film.

Quindi Pannofino lo hai voluto dall’inizio?

Pensavo sia a Francesco che a Giorgio fin dalla scrittura. Ad Alberto poco dopo. Avevo ancora in testa ‘Alberto di Boris’, ma quando ho visto che era diventato molto più malinconico ho voluto subito anche lui.

Francesco Carnesecchi: «Per girare a quel ritmo serviva una grande tenuta fisica»

Uno dei complimenti più frequenti, e forse anche il più paradossale, che ho sentito finora è che questo sembra un film “molto americano”. Da cosa dipende?

Secondo me è un mash-up di cose. La mia regia e il montaggio di Giovanni Pompetti chiaramente sono molto americani, le influenze sono quelle. Mi stavo ispirando ai loro grandi film sportivi, primo su tutti “Ogni maledetta domenica”, ma anche a Christopher Nolan che gioca molto con il tempo. Se mi dicono che è un film molto americano, comunque, può essere un complimento ma anche un’offesa… Ci sono un sacco di film americani terribili!

La partita è davvero un film low budget: possiamo dire quanto ‘low’?

Noi avevamo un budget da nemmeno duecento mila euro.

Ma questa ‘americanità’ del film credo dipenda anche da una certa frenesia, dovuta alla mole di inquadrature presenti. Ci hanno portati un po’ a pensare che un film a basso budget sia un film da tre inquadrature per scena o da piani sequenza d’emergenza…

È vero! (ride, ndr). Ovviamente per fare le scene in campo come volevo io c’era una quantità di inquadrature elevatissima, che andava al di sopra della media. Non avevo mai girato così tanti shots, arrivavamo a fare anche 40 inquadrature in un giorno…

55 inquadrature in un giorno. Il massimo raggiunto tra scene sugli spalti e campo.

Ecco, una follia! Come fai a girarle tutte di qualità? Io ho provato a pensarle prima. Sapevo come avrei montato, quindi sapevo cosa dovevo girare. In una scena di calcio ci sono tanti stacchi ma sono spallate, scivolate, botte, action velocissima. Lì ti serve innanzi tutto un bravo direttore della fotografia. Stefano Ferrari si è distrutto. Al di là dell’essere bravo e avere un grande occhio, lui ha avuto una tenuta fisica impressionante. Arrivava sul set in calzettoni e scarpini, correva sul campo da calcio con la macchina insieme ai giocatori.

“La partita”, da New York a Roma

A cosa non avresti potuto rinunciare per raggiungere questo livello di qualità?

Alla mia squadra. Quando a New York io, Stefano e Giovanni abbiamo iniziato a confrontarci per il film eravamo solo regia, fotografia e montaggio, poco dopo è arrivato anche il suono con Guido Spizzico. Volevamo fare un film con i soldi che avevamo, ma che poi avesse una resa almeno cinque volte superiore. Abbiamo concentrato le risorse su quello che ci interessava, a partire dalla scrittura: il 70% del film è ambientato in una location.

Ci è voluto un po’ per decidere il genere con cui far uscire il film. Quanto è importante quest’etichetta, oggi, per venderlo al pubblico?

Quando cercavamo ancora una distribuzione non capivano come venderlo. “Cos’è, una commedia? Un dramma?”. Solo quando ho fatto vedere il trailer è stato più chiaro che avrebbero potuto venderlo come un film d’azione, sportivo. Io non ho voluto guardare come lo definiscono i giornali. Per me La partita è un western.

Francesco Carnesecchi: «Per me “La partita” è un film western»

Un western!?

Io volevo fare un western ambientato in un campo da calcio. La terra era il mio deserto, con il vento, la polvere, i cactus. Poi girandolo qualcosa è cambiato, ma per me i ritmi rimangono quelli del western. Il rigore finale dura un tempo infinito, i primi piani sono da duello, e i droni musicali con cui ho giocato, anche. Ai due compositori della Rotornoise Soundtrack ho detto che volevo un western moderno. Non le schitarrate alla Morricone, attenzione; infatti gli mandavo spesso come reference un compositore scomparso nel 2018, Jóhann Jóhannsson, che ha fatto le musiche di “Sicario” e “Arrival”.

Anche con la locandina hai lanciato un messaggio chiaro…

Volevo il ragazzo davanti, e dietro i tre che muovono il suo destino. Lo stile era quello dei poster di “Lo chiamavano trinità” “Il buono, il brutto e il cattivo”. Volevo quel beige, quel marrone, lo ‘sporco’ delle locandine di quella corrente lì.

Western, calcio, drama, action, comedy… E poi uno squarcio delicatissimo, in mezzo a tutto questo: la linea narrativa romantica. Hai inserito dei dialoghi di coppia piuttosto lunghi, intimi. Perché ci tenevi così tanto?

Per me la macchina appartata è un simbolo. Mi ricorda i miei vent’anni o le volte in cui tornavo da New York e non avevo nessun altro posto per bruciare amore se non la mia auto. Con quelle scene volevo rappresentare semplicemente due giovani che si vogliono bene, che cercano di godersi quel momento mentre il mondo attorno a loro va a rotoli.

Il mondo va a rotoli e non è detto che siano i buoni a vincere.

La vita è cinica. Forse anche per questo ho voluto dare spazio al romanticismo, perché alla fine un sogno può rompersi ma può anche cambiare.