Si può prendere la Cina come modello di risposta all’epidemia? La domanda, sul Corriere della Sera, la pone Guido Santevecchi. A dicembre le autorità di Pechino avevano sottovalutato e addirittura in parte censurato le notizie provenienti da Wuhan, epicentro del coronavirus.
Ma da gennaio le autorità hanno attuato misure estremamente severe. Si è deciso di fermare l’ economia e le attività sociali dell’intero Paese. Dal primo giorno della dichiarazione di emergenza a Wuhan e nello Hubei si è stabilito di chiudere aeroporti, linee dell’alta velocità, fabbriche, uffici, scuole.
In Cina il campionato di calcio, che costa centinaia di milioni di dollari in ingaggi di giocatori stranieri, si è fermato subito. Senza che nessuno protestasse.
A Pechino, che è stata quasi isolata e difesa dalla minaccia, ci sono 827 mila persone in quarantena precauzionale ancora oggi. A Wuhan da più di un mese la popolazione non può uscire da casa. La spesa alimentare si fa con ordini online e le autorità hanno organizzato un sistema di consegna ai cancelli dei comprensori residenziali.
Obiettivo: limitare al massimo i contatti. Niente file e niente spese esagerate ai supermercati. Lunedì 9 marzo, per il secondo giorno consecutivo, non sono registrati nuovi casi di contagio trasmesso internamente in Cina al di fuori di Wuhan, il ground zero del Coronavirus. Nella megalopoli si sono registrati 36 infetti (su 11 milioni di abitanti).
Wuhan – 11 milioni di abitanti – e subito dopo la provincia dello Hubei – 60 milioni di abitanti, come l’Italia – erano stati chiusi il 23 gennaio. Per settimane ogni giorno si contavano oltre cento morti e decine di migliaia di infettati. Questa tragedia appare ormai superata.