Lo scorso 21 febbraio 2020 è stata proiettata a Roma l’anteprima del documentario Welles Of Hope. Progetto nato dall’iniziativa dell’Unione Internazionale delle Superiori Generali e realizzato dalla regista Lia Giovanazzi Beltrami. Il video racconta la piaga sociale della tratta di esseri umani nel bacino del Mediterraneo; luogo in cui il fenomeno è in aumento e dove il progetto Welles Of Hope (fonti di speranza) cerca di intervenire per proteggere, sostenere le vittime e, laddove è possibile, prevenire. L’iniziativa nasce da Talitha Kum, la rete mondiale che si pone l’obiettivo di porre fine alla tratta.

Dopo aver assistito alla proiezione dell’anteprima di Welles Of Hope abbiamo raggiunto la regista Lia Giovanazzi Beltrami che ci ha raccontato alcuni particolari inediti, nascosti dietro la realizzazione di un documentario dalle tematiche così forti.

Intervista esclusiva a Lia Giovanazzi Beltrami, regista di “Welles of Hope”

Dottoressa Beltrami, nella maggior parte dei suoi lavori gli argomenti trattati affrontano importanti piaghe sociali. In Welles of Hope si parla della tratta di donne nel Mediterraneo. A tal proposito le chiedo in quali forme oggi si manifesta la tratta di essere umani?

Le nuove schiavitù sono numerose. Ne ho trovate diverse nel contesto del film in Medio Oriente, ma ne ho trovate altre in altri lavori che ho fatto. C’è la prostituzione che è la prima forma; purtroppo la più drammatica è quella per il traffico degli organi, che è molto diffusa. Quella l’ho trovata sia nella realtà che ho raccontato in Medio Oriente che durante la lavorazione del documentario Alganesh, nei campi profughi eritrei. Queste rotte vengono da sud e arrivano nel Sinai dove avviene il rapimento, che nella maggior parte dei casi si conclude con il traffico di organi. Un’altra forma, nella quale si manifesta la tratta, riguarda i matrimoni giovanili con ragazzine giovanissime. Nel nord della Thailandia, con il documentario Tears and Dreams, ci siamo posti come obiettivo la lotta al traffico delle bambine che vengono vendute in questi campi cosiddetti ‘tribali’. Lì vengono messi, alle bambine, questi colli per farle diventare le ‘donne giraffa’. Iniziano con le bambine dai tre anni! Non è più una tradizione in quanto è scomparsa da oltre duecento anni, oggi viene fatto esclusivamente per i turisti.

Agli argomenti forti trattati nei suoi documentari, si aggiunge spesso l’ostilità dei territori che fanno da cornice a tante piaghe sociali. Il Libano e la Siria, ad esempio, sono i luoghi in cui si svolge la storia di Welles Of Hope. Ha incontrato difficoltà con le riprese in questi territori?

Mediamente c’è la tendenza a dire No, nel mio territorio non c’è niente”, invece che affrontarlo. Perciò realizzare i documentari così è sempre molto difficile. Le tratte sono gestite dalla criminalità ed è quella la parte propriamente pericolosa. Da un lato, durante le riprese, bisogna stare molto attenti perché altrimenti si rischia tanto; ma dall’altro lato è importante anche presentare il problema, cercando di rispettare il posto dove si fa il lavoro. Perché, ad esempio, se al nord della Thailandia abbiamo incontrato la tratta delle bambine, è importante precisare che non tutto il nord della Thailandia è così. Il Governo, in certi casi, sta avviando delle iniziative contro la tratta per la prostituzione, quindi è importante specificare che qualcuno sta facendo dei passi avanti. Non sta a noi dare un giudizio sulle persone, sui Governi o sugli Stati; ma possiamo solo valutare le difficoltà oggettive. Tre anni fa abbiamo girato un documentario in Sri Lanka sulla tratta dei bambini. Lì, poco tempo prima, il sacerdote salesiano, che ha fondato il primo board al mondo contro la prostituzione minorile, è stato bersaglio di un attentato: una bomba nel convento. Quindi, in questi contesti, ogni passaggio è piuttosto duro.

A tal proposito, durante le riprese è necessario selezionare i luoghi? In tal senso, vi vengono imposti dei limiti?

Noi cerchiamo di far sì che ogni luogo sia autenticamente quello. In certe situazioni immagino il luogo; nel caso ad esempio di Welles Of Hope, quello in cui è stata rapita Shaima. Proprio quel luogo lì era inaccessibile, a causa di ostacoli di ogni tipo, ma solo a 20 km più a sud c’era un luogo assolutamente parallelo, con la stessa conformazione. In Siria non c’era il confine chiuso quando abbiamo fatto le riprese, ma per diverse ragioni non potevamo entrare, quindi la parte siriana l’abbiamo fatto con i collegamenti online. Cerchiamo di fare in modo che ogni luogo non sia superficiale. In Welles Of Hope la sorgente è proprio quella che è riconosciuta come la sorgente di Mosè nel deserto. Quindi usare anche il simbolismo dei luoghi. Laddove non è possibile si cercano dei luoghi fortemente simbolici che siano in grado comunque di trasmettere il messaggio.

Dottoressa Beltrami, lei ha introdotto la figura di Shaima, protagonista del documentario Welles Of Hope. Una giovane vittima della tratta, che attirata con l’inganno è divenuta sposa di uomo che poco dopo ha venduto i suoi organi. Le chiedo, si tratta di una storia reale?

La storia di Shaima è purtroppo una storia reale e la donna che l’ha raccontata è una delle persone che ha trovato il corpo. Le voci e i volti del documentario sono quelli delle persone che hanno accompagnato la famiglia a ritrovare Shaima e riportarla a casa lungo questo drammatico viaggio di ritorno. E sono quelle che hanno messo in luce tutto questo e che ancora oggi accompagnano la famiglia e gli amici di Shaima nel campo profughi.

Voi come siete venuti a conoscenza di questa storia?

Attraverso la rete Talitha Kum, perché per fortuna questa idea di creare una rete delle reti è molto forte ed efficace. Si arriva a costruire con essa una conoscenza del territorio che credo tanto spesso neanche i governi conoscano. Composta da tante persone che sono presenti sul territorio.

La tratta di essere umani nel mediterraneo riguarda sia uomini che donne, ma la storia narrata nel documentario fa riferimento all’esperienza di una giovane donna. Lei, da donna, che emozioni ha provato ad approcciarsi a tale racconto?

La prima cosa è un dolore immenso, e infatti è stato difficile durante le riprese. Perché finché prepari un progetto, lo prepari sulla carta, ma quando ti trovi a vedere faccia a faccia le persone, vedi le vittime, incontri chi ha trovato quel corpo. E lì, prevale il dolore infinito. Questo aumenta ancora di più nella fase del montaggio. Perché finché sei lì, ti fai forza, ti abbracci, piangi insieme. Quando ti trovi in studio di montaggio, rivedere le stesse frasi infinite volte, risentirle ogni volta ti demolisce. Per esempio, nel film sulla Thailandia, questi occhi di questa bimba di 5 anni che è stata presa quando ne aveva 3, il suo pianto… Io non riesco a guardarlo nel film. È stato così logorante nelle fasi del montaggio che quando facevamo serate e incontri, io introducevo la proiezione e poi uscivo. Perché non ce la puoi fare, questa è una fase molto delicata del nostro lavoro. Perché per raccontare queste storie devi avere una forte empatia, però questa la paghi tutta, ti senti spremere come un limone con tutto quello che hai dentro. Per me è stato fondamentale l’incontro con Papa Francesco tre anni fa; lui mi ha stretto forte le mani e mi ha detto: “Continua a raccontare, abbiamo bisogno che il racconto non si fermi”.

“Abbiamo bisogno che il racconto non si fermi”, mi lego a questo messaggio consegnatole da Papa Francesco e le chiedo: è possibile (anche grazie al racconto) per le potenziali vittime riuscire a comprendere l’inganno e non cadere nelle reti della tratta?

Portare a conoscenza aiuta. Poi però devi fare un lavoro capillare, per esempio in questo caso avere dei volontari nei campi profughi che fanno vedere a piccoli gruppi il film e lo discutono. Non basta lanciarlo in rete, c’è bisogno di incontri. Noi abbiamo sempre pensato il percorso di Aurora Vision impostando i nostri lavori affinché non vengano subito distribuiti ad una televisione, ma facendo prima tantissimi incontri sul territorio. Allora sì, allora puoi scoprire l’inganno. Per esempio, sui temi della tratta per prostituzione è più difficile perché gli uomini, i ‘clienti’, difficilmente verranno ad una proiezione o guarderanno un lavoro così. Io ho intervistato qualche ‘cliente’ sulla tratta nello Sri Lanka e poi ho scelto che non meritavano di avere neanche un secondo di uno schermo. E la loro versione è quella del: “Eh, ma io le aiuto…”. Tuttavia, anche se lì è tanto più difficile, non dobbiamo perdere la speranza e continuare.

Welles Of Hope ha sicuramente una funzione di sensibilizzazione, oltre che informativa. Ma ciascuno di noi ha la possibilità di poter dare un aiuto concreto?

Sì, e questo ci teniamo tantissimo a ribadirlo ogni volta. Ognuno in quello che fa può fare la propria parte. Nel caso di Welles Of Hope abbiamo abbinato due livelli: quello dell’informazione e quello del piccolo aiuto concreto. Perché anche aiutare finanziariamente questi movimenti e associazioni è importante. Noi facciamo la comunicazione, ma dopo loro sono sul territorio ed ogni piccolo aiuto, può davvero fare la differenza. E per Welles Of Hope il sito di Thalita Kum ha abbinato la possibilità di scaricare il film e in questo modo poter fare una donazione e sostenere il lavoro delle reti contro la tratta nel mondo. Piccole azioni concrete che rendono possibile a chi è in front line di fare il cambiamento.

Esiste già un progetto che, con la raccolta di proventi per Welles Of Hope, potrebbe essere realizzato?

Il primo progetto è il radicamento di Welles Of Hope in Medio Oriente. Stanno cercando di realizzare una residenza protetta e di organizzare i gruppi di sensibilizzazione nei campi profughi. Questo è importantissimo secondo me! Perché tra le tante donne vittime di violenza e di tratta, anche quelle che riescono ad uscirne rivolgendosi alla rete, dove vanno a vivere? Non possono certo andare nel tessuto dei parenti, magari in Siria in mezzo al conflitto. E allora creare dei posti, dei luoghi dove queste persone possono essere seguite è fondamentale. Io ho incontrato una ragazza profuga dalla Siria e vittima di tratta, riuscita però a salvarsi. Mi ha raccontato che stava studiando per prendere il diploma e che e avrebbe voluto studiare medicina, ma la retta costa oltre 1300 euro l’anno. Ecco, riuscire a far studiare anche solo una di queste ragazze, sarebbe già un importantissimo passo avanti.

Dottoressa Beltrami, nel ringraziarla per il suo gentile contributo, volevo chiedere se c’è un messaggio personale che vuole inviare rispetto a questa piaga sociale?

Quello che vorrei dire è solo ed unicamente che attraverso la solidarietà e il prendersi cura degli altri, possiamo attuare il cambiamento.