Letizia Battaglia: “Il Coronavirus? Infotografabile. È più forte della mafia” [INTERVISTA ESCLUSIVA]
“Sono Letizia”. Inizia così una telefonata dai toni possenti, crudi e sinceri. Se non si chiamasse Battaglia, sarebbe stato di certo l’appellativo migliore; perfettamente calzante con la sua intensa vita.
Letizia Battaglia è una combattente, un’artista ma soprattutto la prima fotoreporter donna. Dal 1974, per 19 anni, è stata responsabile del servizio fotografico del giornale ‘L’Ora’. In un mondo di fotografi maschi, Letizia ha lottato pur di far sentire la sua voce, di mostrare al mondo la sua Palermo. A volte nuda, a volte sanguinaria. E tra le immagini di un archivio che racconta la storia, non solo quella della sua Sicilia ma dell’Italia; il suo obiettivo ha anche ricercato l’incanto innocente negli sguardi dei bambini. Ha spogliato donne sfatando la banalizzazione del nudo, fotografando la vera e pura essenza della semplicità in un corpo femminile.
Letizia Battaglia è una fotografa pluripremiata. È stata la prima donna europea a ricevere nel 1985 il Premio Eugene Smith a New York. Il Mother Johnson Achievement for Life nel 1999. Riconoscimenti, mostre e documentari a lei dedicati. Come il ritratto personale ed intimo raccontato da Kim Longinotto in ‘Shooting the mafia”. Oppure nel film di Franco Maresco, in concorso durante la Mostra Internazionale del Cinema di Venezia del 2019, con ‘La mafia non è più quella di una volta’, di cui lei è coprotagonista. Non basterebbero le pagine di un qualsiasi giornale per raccontare la sua vita e quello che ancora vorrebbe fare. Neanche una piacevolissima chiacchierata al telefono che avrei voluto fosse interminabile.
E oggi, a più di un mese sotto la morsa pericolosa del virus Covid-19, che ha costretto milioni di persone a chiudersi in casa per abbassare il rischio di contagio, ci sono dottori, infermieri, eroi che combattono in prima linea. E mentre vivono tracciando quello che un giorno sarà storia, ci sono altrettanti professionisti che riflettono su come un nemico invisibile possa esser fotografato e documentato. Letizia Battaglia c’ha pensato e non ha dubbi.
In esclusiva per Velvet Mag, intervista alla prima fotoreporter donna, Letizia Battaglia.
Letizia, lei è la prima fotoreporter donna conosciuta a livello internazionale. Ha iniziato a raccontare la vita e tutto ciò che ne fa parte attraverso il suo obiettivo. Ma chi era prima Letizia Battaglia?
Prima ero una donna inquieta. Madre di tre figlie adorate, femmine. Ma una donna che non poteva scegliere la propria vita perché l’aveva già sbagliata sposandosi a sedici anni. Questo è orribile. È un errore grave. Per cui quella parte della mia vita la considero… Così, un’attesa. Le figlie sono molto importanti. E questo è tutto! Ero una donna che stava male. Ma grazie alla psicoanalisi sono rinata di nuovo. Ecco! Ero io finalmente, a quasi 40 anni.
Nel documentario ‘Shooting the mafia’ che le dedica Kim Longinotto, lei dice: “Sono sempre stata una donna in lotta senza saperlo”. In quale circostanza ha dovuto dimostrare più coraggio a se stessa e agli altri?
Beh, – sospira – nella vita e nelle scelte che facevo. Scelte pericolose che non ricevevano l’approvazione della società, della famiglia, eccetera. Ma io ho vissuto. Non ho mai pensato: “Oh, quanto sono coraggiosa che faccio la foto al mafioso. O se vado contro le regole di una famiglia patriarcale”. Non ho pensato alla lotta. Ho vissuto, fotografato. Ho fatto il mio dovere come fotografa nei confronti di un giornale che mi pagava. Effettivamente prima non pensavo che stessi lottando; dopo ho capito che le cose però stavano prendendo questa strada.
Non ho mai chiarito a me stessa cosa stessi facendo. Sapevo che dovevo fare il mio dovere e fare buone fotografie. Che dovevo soprattutto documentarmi su cosa fosse una buona fotografia. Rispondere alle esigenze del giornale ma anche alle mie, che andavano nascendo con la cultura della fotografia. Io ho iniziato, infatti, a fotografare senza una cultura. Esattamente come se una persona cominciasse a scrivere un libro prima di non sapere né leggere e né scrivere. Ho fatto tutto con passione andando oltre il senso del dovere. Il dovere! Mi faceva andare nei posti dove era pericoloso andare e fotografare. Però dovevo farlo. In me non c’era nessun dubbio.
Letizia Battaglia: «Unica donna in un mondo di fotografi maschi»
Nel 1974 ha lasciato Milano dove ha vissuto per circa tre anni, per ritornare nella sua Palermo come responsabile del servizio fotografico del giornale ‘L’Ora’.
Fu una cosa grande che mi venne affidata. Strana, perché non erano anni in cui la donna avesse molto rispetto o significato. Però mi venne offerta questa possibilità da Vittorio Nisticò. Meraviglioso direttore che non c’è più. È rimasto come un mito. Lui mi chiamò da Milano; unica donna in un mondo di fotografi maschi. Scelsi le persone con cui lavorare e andò avanti così.
Photo Credits: Letizia Battaglia
Si ricorda il primo scatto fotografico che ha fatto?
Guarda, io non me lo ricordo. Ma forse il primo scatto credo di averlo fatto a Londra. A un meraviglioso vecchio che sembrava Leonardo Da Vinci, durante una manifestazione del ’68 addirittura. Avevo una macchinetta in mano e non ero fotografa. Ma ricordo che questa foto era bella e non ce l’ho più, come neanche i negativi. Sono passati tanti anni, ma da allora i negativi sono sempre con me. Ben curati e protetti. Le cose che ben ricordo invece, sono le tappe. Milano. Palermo.
A Milano proponevo articoli ai giornali. Piccoli all’inizio, perché ancora non ero una fotografa. Da freelance proponevo argomenti interessanti. Ma loro mi dicevano:“Sì, va bene. Ma le foto?” – ed è da quel momento che ho cominciato con le foto. Ecco! Io ricordo che mi cercavo i processi che faceva il Palazzo della Giustizia, le manifestazioni del movimento studentesco della facoltà di Lettere e cercare i personaggi. Pasolini per esempio, quello fu l’incontro memorabile della mia vita, non perché successe qualcosa, ma perché sono riuscita a vederlo, ascoltarlo e fotografarlo.
È stato un grande momento. Seguivo Dario Fo, l’occupazione della Palazzina ‘Liberty’. Questa era Milano, questa ero io. Una freelance sperduta in quella città dove sono stata onorata, rispettata e dove sono riuscita a mantenermi. Io, come donna e come moglie, ho rifiutato gli alimenti di un marito ricco e mi sono messa a guadagnare i soldi che mi servivano. Era molto importante per me!
E a Palermo?
Quando sono arrivata a Palermo sapevo che c’era la mafia, ma non capivo niente. Appena arrivata, non pensavo. Ed invece era appena iniziata la lotta della mafia contro le istituzioni. Contro Palermo. Il primo omicidio, quello che posso… quello che devo ricordare. Perché sta lì, la cosa più drammatica che puoi raccontare. Un uomo morto per violenza di un altro uomo. Dentro di me sognavo, pensavo. Mi auguravo e mi dicevo: “Ora si muove. Ora si muove” – invece era lì, sotto un albero di ulivo in una campagna bella.
«Ho tentato di distruggere le mie foto mescolandole ad altre cose»
Ha avuto mai l’istinto di bruciare un suo provino, perché troppo doloroso?
Aspetta. Mi accendo una sigaretta…. Dopo tanti anni che avevo troppo visto, troppo sofferto. Empaticamente vissuto una realtà orribile, sognavo sempre di bruciare i miei negativi. Volevo dimenticare. Per fortuna non lo feci, ma registrai un video dove bruciai le mie foto. Una cretinata, ma che ho fatto con passione e ce l’ho ancora.
Però un gesto simile l’ho fatto. Ho tentato di distruggere le mie foto mescolandole ad altre cose. Volevo annullare il morto ammazzato. E per un certo periodo queste foto le stampavo su un grande formato. Le appendevo al muro e davanti ci mettevo una donna nuda, una bambina o anche dei fiori. Ho infatti una foto con delle rose rosse e ciò annulla il “cutman” del morto ammazzato. Se metto una donna nuda in primo piano, guardi di più lei che non il morto. Poi sì, guardi anche lui, è chiaro! Ma volevo spostare l’attenzione alla realtà. Dopodiché mi sono calmata e ora sono qua.
Photo Credits: Letizia Battaglia
Uno dei volti da lei fotografati è il viso di Rosaria Schifani, vedova di uno degli agenti della scorta di Falcone. Il ritratto è potente. Forte quanto lo è la luce e l’ombra che ne delinea perfettamente il viso. Cosa ricorda di quel momento?
Quella foto non è frutto di grande studio. Stavo facendo alcuni scatti per la copertina di un libro, ma non ero contenta. Allora la portai vicino al balcone dove entrava di lato la luce. Mi guardava, ma anche lì non mi piaceva. Io volevo rendere profondissimo questo sguardo, questa donna, questa storia. E le dissi:“Chiudi gli occhi”. Chiudendoli, ho levato tutte le altre cose che aveva dentro di sé.
Aveva un figlio. Voleva mangiare, comprarsi i vestiti. Voleva partire e voleva restare. Non aveva solo il dolore del marito in quegli occhi. Ma io invece volevo solo quel dolore e chiudendoli, è venuto fuori. Perlomeno per me! Quella bellezza in lei con gli occhi chiusi. Niente altro, che solo il ricordo di quello che era successo al suo giovane marito. Un uomo che lei amava. Una passione per l’un l’altro. E quando te la tolgono così brutalmente, il dolore è molto forte. Quello, fu un momento molto emozionante per me.
Photo Credits: Letizia Battaglia
Quando, Letizia, è buona una foto?
Ce lo domandiamo sempre e me lo chiedo anch’io:“Quando è buona una foto? E quante foto si fanno?”. Io ne faccio tante. E quando la foto è buona è proprio un grande momento. La riconosci perché è quando il mondo converge con il tuo mondo, con il tuo dentro. Cioè, quando riesci a fare la sintesi.
Ecco, foto buone ce ne sono poche e io ne ho poche. Averne qualcuna, è già importante. Ma altrettanto fondamentale è non banalizzare la realtà. Io per esempio, che ho 85 anni e faccio nudo di donna. è quello che sto cercando di fare: lottare contro la banalizzazione del nudo. Noi siamo terra, siamo vita. E dunque le banalizzazioni, ovvero il fianco messo in un certo modo, la schiena e gli occhi sexy, li detesto! Il mio nudo è semplice e sto provando a raccontare la bellezza della semplicità delle donne. Donne. Solo donne e non uomini. Non mi piacciono da fotografare. Ma li ho amati, sì.
Photo Credits: Letizia Battaglia
Di notevole intensità con grazia e innocenza, sono invece i volti dei bambini fotografati.
Cos’era la bambina? L’ho capito dopo tanto tempo cosa era per me la bambina. A 10 anni mi fu tolta la libertà. Mio padre vedeva che stavo crescendo e un uomo a Palermo si esibì davanti ai miei occhi. Ed io, bambina che non sapeva niente, corsi da mio padre e mia madre i quali si spaventarono e mi chiusero in casa. Da quel momento il mio sogno fu solo la libertà.
Libera di diventare una scrittrice. Libera di diventare una donna. Per essere tale, mi sposai a sedici anni. Questo però fu molto cretino. Fu sbagliato, perché non ci si sposa a sedici anni. E non solo questo. Anche per il rispetto della persona che sposi. Non puoi portare l’inquietudine di una sedicenne in un matrimonio. Ecco perché la bambina nelle mie foto. La bambina sono io.
A 10 anni ha quell’incanto, quel sogno e desiderio. Quella bellezza e quel disincanto che poi magari diventerà bruttezza. Crescendo, effettivamente cambiano un po’ le cose. Però io in quel momento trovo il mio sogno, di me a 10 anni che immaginavo cose meravigliose per il mio futuro. La bambina che io fotografo deve essere magra, con i capelli lisci, e con un po’ di occhiaie. Sono riuscita a trovarla e infatti vorrei fare un libro solo delle mie bambine. Non a caso io faccio, propongo, scelgo. Lavoro tanto. Anche se in questo periodo, in chiusura per il virus, trovo foto in archivio che non avevo mai più visto o ricordato.
Circa due, tre mesi fa, a Milano, Palazzo Reale, c’è stata una mostra, la più grande che io avessi mai fatto con 300 foto quasi tutte mai comunicate prima. Ecco! Io ora sto guardando tra i miei negativi e tra i miei file, e mi sono accorta che ho ancora tante foto nuove da tirare fuori. Non sono soltanto quelle dei morti ammazzati, dei famosi, Falcone. No. Io ho anche altre foto della vita. Inquieta, ma pur sempre vita. Anche quella felice.
Letizia Battaglia: «Prigioniera, aspetto la fine senza spazientirmi e annoiarmi»
È felice Letizia?
La vita può esser felice. Per esempio io in questo periodo sono chiusa in casa. Le mie figlie abitano nello stesso edificio, ma per salvaguardare la mia fragilità per via dei polmoni delicati, non ci vediamo. Non vedo neanche Roberto, il mio più caro amico. Però sono felice ugualmente. Io sono serena. Messa qua, prigioniera, aspetto la fine senza spazientirmi e annoiarmi. La giornata è sempre troppo corta perché mi piace fare tutto. Anche cucinare. Pensa che dopo 40 anni che non stiravo, mi sono messa e ho stirato tutto quello che possedevo: federe, tovaglie, tovaglioli. I vestiti per questa estate sono già pronti.
Il nemico da combattere oggi è invisibile. Fotograficamente parlando, Letizia Battaglia cosa scatterebbe con la sua macchina fotografica?
Naturalmente c’ho pensato e ho visto le immagini che girano. La città vuota, le mascherine. Ma io personalmente non sento di raccontare questo momento. Non ho voglia di fotografare gente con le mascherine. Eppure, ho visto foto di persone con le mascherine negli anni ’20. È stato utile che venissero fotografati con le mascherine quando ci fu la Spagnola. Ma resta il fatto che non raccontano il dramma che ci fu. Un milione, forse. Non so quante persone morirono all’epoca.
Potrei andare negli ospedali. Ma non si riesce a raccontare come hanno fatto alcuni fotografi. Eugene Richards, fotografo americano che io adoro, ha documentato il pronto soccorso. Ma non si può raccontare, lo ripeto. Tutti hanno le mascherine e non mi piace documentarlo così questo mondo. Ed io, dunque, come fotografa mi allontano. Aspetto che si ritorni fuori e non sarà raccontato da me questo periodo. Non lo saprei raccontare e non lo sa raccontare nessuno. È troppo forte. Più forte della mafia. Raccontare la mafia lo puoi fare perché sono persone, sono esseri umani. Anche l’amore si può fotografare. Mentre il virus secondo me è infotografabile. È inoltre chiaro che fra due, tre, quattro mesi, un anno, quando usciremo, qualche fotografo avrà lavorato.
Sai cosa sto facendo in casa? Ho la macchina fotografica, appendo i pomodori al muro e li fotografo. Fotografo le piccole cose, la mia solitudine. Non saranno foto che rimarranno o che serviranno a qualcuno, però io sento la necessità di farlo. Fotografo il mio volto stanco. Le cose che cucino e che stiro. Sciocchezze per gli altri, ma per ora sono la mia vita. E fotografo anche il mio archivio, specialmente le schede del mio archivio. Le foto che vado cercando, messe sul tavolo alla rinfusa le fotografo. Sono foto mie, ma non credo di sapere raccontare questa cosa potente, terribile che c’ha colpito. Perché è un virus, non è un nemico visibile. È un qualcosa che ha a che fare con la natura, una realtà molto profonda, molto particolare. E mi tortura anche.
«Come fai a raccontare l’assenza? È un nemico molto forte»
Che aspetto ha oggi Palermo nell’era del Covid-19?
È nuda. Palermo nuda. Non come le mie donne, ma è vuota. Dove sono tutti? Dove sono? Poverini! Dove sono le bancarelle che vendevano le cose? Cosa fanno? Fame? Miseria? È chiaro. È un momento molto duro. Come fai a raccontarne l’assenza? È un nemico molto forte. Il mafioso, in qualche modo lo lotti: con il voto democratico, con la macchina fotografica, con un libro. Lo arresti se sei un poliziotto. Lo giudichi se sei un giudice. Ma il virus? Aspettiamo la scienza.
Eppure devo dire che questo periodo è importante per me. Sto sperimentando me stessa. La mia accettazione. L’ineluttabile. Io sono qua, che non sbraito. Devo accettare perché c’è tanto dolore nel mondo. Non posso annoiarmi perché sono a casa, e me lo posso permettere. C’è gente invece che non può permetterselo. Per cui devo stare zitta. Contenta di avere ancora vita. Poter ancora respirare e parlare con te.