I One Blood Family sono una band composta da giovani ragazzi arrivati in Italia da alcuni paesi africani. Molti di loro sono ancora richiedenti asilo, solo pochi hanno già di documenti in regola. Il loro gruppo è nato grazie al progetto della Cooperativa Atypica presso Villa5 (Collegno, TO), il piccolo centro di accoglienza che li ha aiutati ad inserirsi e a raggiungere un primo, importante obbiettivo.

Il lavoro di Manuel Volpe, Simone Pozzi, Gabriele Concas e Matteo Marini è stato essenziale. Da producer e membri dell’Associazione Culturale Spazio Rubedo sono riusciti ad aiutare questi giovani a trasformare le proprie emozioni in vera e propria musica. Da poco più di un mese è possibile ascoltare il loro ultimo singolo: Life Can Change, un brano forte ed energico che parla del viaggio e di tutti i loro sogni. VelvetMag ha intervistato in esclusiva Manuel Volpe, il musicista, compositore e producer che ha lavorato sempre a stretto contatto con tutti loro.

Intervista a Manuel Volpe: la storia degli One Blood Family 

Quando hai iniziato a lavorare con questi ragazzi loro avevano già le idee molto chiare: volevano esprimersi facendo musica. Come è iniziato il tuo viaggio insieme alle One Blood Family?

Il mio percorso è iniziato grazie ad un incontro con i ragazzi. Loro avevano già in mente questo tipo di progetto nato insieme alla cooperativa Atypica. Avevano voglia di esprimersi, ma più in generale di scoprire dei momenti diversi nella loro vita, che era sospesa tra incertezze e dubbi. Agli inizi ci incontravamo tutti i lunedì, lo abbiamo fatto sempre per i primi due anni. Era un’occasione unica per poter condividere qualcosa di diverso: un attimo di svago, qualche ora di libertà. Insieme dentro una stanza la musica diventava un linguaggio comune, in grado di andare al di là di tutte le difficoltà linguistiche o culturali. In realtà nessuno di loro aveva espresso in modo esplicito il desiderio di far musica, però nel momento in cui abbiamo iniziato a incontrarci e a conoscerci meglio, era chiaro che in loro ci fosse tanta voglia – addirittura bisogno – di questi momenti.

È stato proprio all’interno del piccolo centro di accoglienza torinese – Villa5 – che il bisogno di esprimersi di questi ragazzi si è trasformato in qualcosa di più, che forse poteva sfociare solo nella musica. Infatti il gruppo si riuniva spesso per suonare o ballare. È stato importante per questi giovani poter dire la loro tramite una forma d’arte come questa?

Certo. Anche il nostro interesse nei confronti della loro musica già gli dava un po’ un riconoscimento. Sicuramente all’inizio i ragazzi si saranno ritrovati a pensare: “Ah guarda questi che neanche ci conoscono e sono comunque interessati anche al nostro modo di fare le cose e al nostro modo di intendere la musica!

Un lungo viaggio tra storia, testo e musica

Tutti sono arrivati in Italia dopo un lungo e difficile viaggio, e da subito hanno iniziato a farsi strada nella loro nuova realtà. Nonostante i ragazzi condividano le stesse esperienze di vita, ognuno di loro ha una sua individualità e un proprio bagaglio ancora più personale. Come avete messo insieme le emozioni di tutti per creare dei brani musicali?

Non abbiamo mai forzato la mano da questo punto di vista e ci siamo mossi sempre con molto rispetto. Noi eravamo lì per fare musica, non avevamo nessuna urgenza e non aspettavamo che loro tirassero fuori un certo tipo di emozioni e tematiche. Tutto doveva essere una cosa naturale e così è stato dopo due anni. Dai primi testi che parlavano della fidanzata, dell’amore e dei genitori, sono iniziate a venir fuori delle liriche un po’ più indirizzate verso quegli aspetti lì. Ovviamente c’era il ragazzo più chiuso, più introverso e invece un altro che magari improvvisamente – spesso anche con brutalità – iniziava a raccontarti delle cose che aveva vissuto. Parliamo di viaggi che sono durati dai tre a i quattro anni: andare via di casa per intraprende un percorso da soli a quattordici, quindici anni è qualcosa che per noi è quasi inconcepibile. Un sacrificio del genere è difficilissimo da immaginare, eppure queste storie sono venute fuori. Noi abbiamo cercato di accoglierle sempre senza giudicare. Attraverso la musica quindi abbiamo cercato di trasformare questi racconti in delle emozioni da condividere con altre persone.

“Ascoltiamo tutti la stessa musica”

Invece per quanto riguarda il testo e la musica? Ognuno ha detto la sua e si è arrivati ad un compromesso?

In generale la scrittura è sempre stata autonoma: noi li stimolavamo a scrivere delle canzoni individualmente. Gli davamo delle basi o erano loro a procurarsele, e su queste ultime tutti lavoravano a un pezzo. Ognuno quindi arrivava con il suo testo o la sua melodia e con grande rispetto tutti nella band accoglievano il brano. Se era necessario altri ragazzi poi davano un contributo. Magari infatti serviva una strofa più rap su un pezzo e allora il rapper del gruppo scriveva quella parte mantenendo la stessa tematica. Al di là di alcune parole sostituite perché non funzionavano all’interno del testo, noi non abbiamo mai messo le mani sui pezzi: erano cose loro. Sulla musica invece il nostro contributo e il nostro punto di vista si è fatto sentire di più. Molto spesso partendo da uno spunto dei ragazzi lavoravamo per creare un brano originale che fosse in grado di rispettare anche i nostri gusti. Abbiamo sempre visto questo progetto in modo orizzontale: come loro portavano il loro, noi eravamo contenti di condividere il nostro. In questo mondo globalizzato ascoltiamo tutti la stessa musica, quindi non è stato strano scoprire che sui loro telefonini girasse la stessa musica di qualsiasi altro ragazzo di 20 anni. Da questo punto di vista siamo tutti abbastanza omologati. Loro sicuramente hanno un piglio più ritmico, più romantico. Molti poi sono proprio dei romanticoni: ascoltano delle ballad strappalacrime in lingua wolof! In linea generale, però, per quanto riguarda i gusti e gli stili ci piacciono cose molto simili ed è giusto che sia così: l’accesso alla musica oggi è totale.

Life Can Change degli One Blood Family: il videoclip

Nel video di Life Can Change i corpi dei ragazzi si muovono in modo sinuoso e con movimenti molto forti. Potrebbero venire in mente delle danze tipiche africane. È stato facile riuscire a tirare fuori le emozioni anche tramite la fisicità?

Nel video si vedono degli spezzoni di uno spettacolo che abbiamo fatto in collaborazione con TorinoDanza. I ragazzi hanno lavorato per circa due mesi con il coreografo del Burkina Faso Jéròme Kaburé per creare questa forma di “teatro – danza” e poi abbiamo musicato il tutto. Loro hanno una grande predisposizione al movimento, non è stata questa la vera difficoltà. Tirare fuori le emozioni attraverso la danza in uno spettacolo invece sì, anche perché il tema della rappresentazione era molto difficile da affrontare: il viaggio. È stata un’esperienza molto emozionante per tutti noi, sicuramente è stato più complesso rispetto a scrivere una canzone. Sono stati dei momenti davvero toccanti e formativi. Inserire nel video alcuni frammenti di quest’ultimo è stato per noi un modo per celebrare quella che è stata la storia di One Blood Family fino ad oggi. Una storia che ci ha portato a scrivere un disco insieme… Vedremo cosa ci riserverà il futuro.

One Blood Family, musica senza etichette: “Non c’è mai stato l’obbiettivo di creare una band composta da rifugiati”

Con voi il gruppo di ragazzi ha avuto modo di esprimersi liberamente e di essere in un certo modo protetto dal mondo esterno. Come ha reagito il pubblico durante le prime esibizioni? Come è stata accolta la band dei richiedenti asilo?

I concerti sono stati accolti molto bene e generalmente sono stati svolti tutti in situazioni affini e sensibili al progetto. È stata sempre una grande emozione essere a contatto con il pubblico. Tra i nostri obiettivi poi non c’è mai stato quello di creare una band composta da rifugiati, come per dargli un’etichetta per giudicarli o apprezzarli. Per noi poter far apprezzare al pubblico la nostra musica era sicuramente la cosa più importante, il fatto che loro siano richiedenti asilo è un valore in più a livello comunicativo. In ogni caso la musica per quanto ci riguarda deve piacere: durante i concerti tutto deve essere curato con attenzione. Molto spesso utilizziamo strumenti sul palco – come percussioni, basso, tromba – e anche l’elettronica è gestita dal vivo. Siamo una famiglia allargata che in base alle esigenze crea la sua formazione per avere uno spettacolo completo.

La rabbia dei giovani: sognare la normalità

Questi ragazzi si sono impegnati fin da subito per diventare membri importanti per la comunità: hanno studiato, imparato un mestiere e si sono adattati a una nuova cultura. Cosa pensano e cosa provano nel vedere che la politica li allontana costantemente?

Non posso rispondere per loro, però quello che posso dire è che sicuramente c’è tanta rabbia. Loro sono giovanissimi e hanno tutta la vita davanti: possono e vogliono dimostrare quello che valgono. Si trovano in una situazione in cui questo non gli viene permesso per questioni politiche e non di opportunità, perché queste ultime ci sono e loro ambiscono semplicemente alla normalità, nulla di più. Vedere che questo, soprattutto lo scorso anno era diventato un terreno di battaglia esclusivamente politico aveva scatenato in loro davvero tanta rabbia. Avendo a che fare giornalmente con persone che non si pongono problemi di questo tipo, con noi, suonando, questa rabbia si è poi placata. Attraverso degli incontri poi si possono creare cose belle per tutti, non solo per loro. Di questa esperienza fatta insieme siamo tutti contenti: anche noi bianchi italiani che condividiamo queste esperienze con loro. Non è una cosa che facciamo solo per noi, ma anche per noi stessi e la facciamo grazie a loro. Oltre la rabbia c’è anche tanta speranza.

“Io cambio, divento: ancora non so chi né dove”

All’inizio del video uno dei ragazzi (Seedy Badje) protagonisti dice: “Io cambio, divento: ancora non so chi né dove”. Molti di questi giovani non sanno cosa accadrà anche nel loro futuro più prossimo. Pensi che continueranno a voler fare musica nella loro vita?

Chi più chi meno, alcuni ragazzi hanno proprio il sogno della musica. Attraverso questo progetto poi hanno iniziato ad assaporare un po’ questo mondo: il palco, gli studi di registrazione, le interviste. Ora che hanno capito com’è essere musicisti cercheranno di farlo meglio e con più professionalità. Altri invece coltivano la musica semplicemente come qualcosa che li fa sta bene e da parte nostra non c’è alcun giudizio. Ognuno deve avere i propri sogni e le proprie ambizioni. Nel gruppo per esempio c’è un ragazzo che sogna di giocare con il Torino perché è un ottimo calciatore; un altro è un bravissimo sarto, un altro ancora fa il cameriere e magari sogna di aprire un ristorante tutto suo. La musica è una grande incognita per tutti, è difficile scegliere questo percorso. Lo scegli se hai le possibilità, se queste sono limitate cerchi di guardare oltre.