Siamo giunti al secondo appuntamento della breve rubrica 3×3, artisti in quarantena che prevede 3 interviste ad altrettanti protagonisti del mondo dell’arte, al fine di comprenderne l’umore, l’attività e le speranze, in un periodo di grave emergenza come quello che stiamo vivendo. Oggi la nostra attenzione si focalizza su Pietro Ruffo, un artista romano poco più che quarantenne di studio al Pastificio Cerere, proprio accanto a quelli di Nunzio, Piero Pizzi Cannella, Marco Tirelli ed altri ancora.

Architetto di formazione, Ruffo ha dimostrato da subito di possedere un talento innato per il disegno che con il tempo si è aperto all’uso di altre forme espressive come l’installazione, il collage e la scenografia. Un artista a 360 gradi insomma, che sin dagli inizi della sua carriera ha collezionato una vasta serie di premi, successi di critica e pubblico, oltreché collaborazioni importanti.

Si sono accorti della sua straordinaria abilità creativa persino case di moda prestigiose come Valentino e Christian Dior, che, rispettivamente nel 2015 e nel 2017, gli hanno affidato la realizzazione delle scenografie per le sfilate di Haute Couture a Roma e a Parigi. Se nel primo caso Ruffo ha trasformato Piazza Mignanelli in un Foro Romano moderno dai tratti quasi magici, nel secondo, all’Hôtel National des Invalides, ha creato una grande installazione che riproduce un “Teatro della Meraviglia”, in legno, che richiama i 5 continenti sormontati da una cupola a forma di stella che raffigura la volta celeste.

Pietro Ruffo è stato inoltre definito l’”artista della libertà”, sia per le tematiche generalmente trattate nei suoi progetti, sia per la scelta di utilizzare spesso nelle sue opere soggetti che la rappresentano simbolicamente, come le libellule intagliate nelle mappe geografiche per esempio, ormai diventate una delle sue cifre stilistiche. Al tempo del coronavirus tutto ciò risuona come una contraddizione che ci ha convinti a contattarlo per conoscere la sua opinione riguardo alle conseguenze che questa pandemia potrebbe avere nell’arte, e non solo. La reazione è stata a dir poco ottimista…

Courtesy Pietro Ruffo

Pietro, la pandemia ed il conseguente lockdown ha provocato negli artisti diversi effetti a livello creativo: certi hanno trovato un maggiore stimolo nella produzione, altri si sono bloccati a causa di un vero e proprio annebbiamento mentale. In quale di questi casi ti riconosci di più?

«Io sto procedendo con il mio lavoro, ma non senza cambiamenti rispetto alle mie abitudini. Di solito mi reco sempre nel mio studio e lì sono a contatto con molte persone. Adesso sono costretto a rimanere a casa, come tutti, e disegno quotidianamente. Tornare ad utilizzare strumenti semplici come il foglio e la penna mi ha consentito di tornare alle origini del mio lavoro, il quale era per l’appunto partito da lì per evolversi soprattutto in termini di grandezza. Un cambiamento che tutto sommato trovo interessante».

Ciò significa che i tuoi progetti per il futuro non si sono fermati, è così?

«Esatto! In questo periodo sto lavorando ad un progetto molto grande per una casa di moda francese e ad un altro che è entrato proprio nei primissimi giorni del confinamento. Mi sto dedicando ad entrambe le commissioni con entusiasmo e senza sosta. E poi ci sono tante idee in ballo, tutti stanno già pensando alla ripartenza ed io sono ottimista, almeno per adesso».

Pietro Ruffo, Tidal Wave 3, 2019-2020, Courtesy Galleria o’ Neill, foto Giorgio Benni

Poco prima del lockdown avevi inaugurato una mostra alla galleria Lorcan o’ Neill di Roma intitolata Maremoto e, se non mi sbaglio, tra le principali tematiche affrontate vi era l’ambiente. Pensi che ci possa essere una relazione tra l’emergenza ecologica ed il coronavirus, vedi lo smog per esempio?

«Affermare che la natura si sia ribellata nei nostri confronti con il virus non lo posso dire, perché sono convinto che noi stessi siamo i primi artefici di ciò che ci accade. La mia visione antropocentrica mi porta a pensare che noi non siamo tanto colpevoli del degrado del pianeta – poiché la natura ha dei tempi e delle forze talmente grandi da risultare piccolissimi al suo cospetto – quanto del degrado della nostra stessa specie su questo pianeta. Non possiamo sempre addossare le colpe a qualcun altro o a qualcos’altro. Ogni individuo dovrebbe assumere atteggiamenti rispettosi nei confronti dell’ambiente, senza aspettare che siano per esempio il Governo o l’Onu ad imporli. Quindi, ripeto, non dobbiamo pensare a come salvare il nostro pianeta, ma a come comportarci sul nostro pianeta».

Il distanziamento sociale è arrivato proprio in un momento in cui eri molto concentrato su un tipo di arte partecipativa. Mi riferisco alla mostra “Garbatella 20/20 – La città e la memoria”, inaugurata il 21 febbraio insieme ad un gruppo di 100 studenti del Dipartimento di Architettura dell’Università degli Studi Roma Tre, in occasione dei cent’anni dello storico quartiere romano. Puoi raccontarci qualcosa di più in proposito?

«Hai davvero centrato il punto, perché stranamente in questo periodo avevo cominciato a prendere le distanze dalle mappe e dalle tematiche sociopolitiche, di cui mi avvalgo spesso, per avvicinarmi alle persone. Per esempio, negli azulejos di Maremoto compaiono diversi personaggi da me realmente incontrati nel corso di alcuni viaggi in Italia e all’estero effettuati in precedenza. Garbatella 20/20 – come da te accennato – è stato un progetto nato dalla cooperazione di oltre 100 studenti del Dipartimento di Architettura di Roma Tre, coordinati dalle docenti, nonché curatrici, Francesca Romana Stabile, Elisabetta Pallottino e Paola Porretta insieme a me. Per un anno abbiamo studiato tutti i lotti del quartiere, abbiamo intervistato persone, abbiamo realizzato enormi elaborati grafici di un cantiere che poi è stato ristrutturato grazie all’intervento dell’Ater, l’istituto delle case popolari che detiene circa l’80% della Garbatella. Così è stato per altri palazzi, strade, cortili e via dicendo. Poi il tutto è sfociato in una mostra ospitata all’interno dell’hub culturale Moby Dick, in cui ancora oggi si trova una mia opera. Questo progetto mi ha regalato grandi emozioni e tantissimi stimoli, soprattutto perché ha avuto un risvolto pratico e concreto».

Garbatella 20/20, courtesy Pietro Ruffo

Passare da un “bagno di folla” così a due mesi di isolamento in casa, immagino provochi un certo effetto…

«Effettivamente sì, è stato un bel cambiamento considerato che il giorno dell’inaugurazione, al Teatro Palladium della Garbatella, c’era talmente tanta gente che si era creata la fila fuori come in un concerto rock! La partecipazione degli studenti e dei cittadini mi ha davvero impressionato e reso felice allo stesso tempo, soprattutto perché generalmente lavoro come fossi uno scienziato al microscopio».

A proposito di cambiamenti, pensi che il tuo approccio all’arte subirà delle modifiche in seguito all’esperienza che stiamo vivendo?

«Sicuramente questa emergenza avrà delle conseguenze nel mondo dell’arte, ma ancora è troppo presto per sapere quali. È giusto che i musei si stiano reinventando per dare la possibilità al pubblico di vedere le mostre almeno virtualmente, ma andarci “fisicamente” è troppo importante: non possiamo pensare che questa situazione si protragga ancora a lungo. Non ho la sfera di cristallo per sapere cosa succederà nel futuro, ma, ripeto, per adesso la mia sensazione è che le persone abbiano tanta voglia di ripartire. Speriamo sia così!».

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