Un libro sul comodino di Filippo Mignini: incontro con l’autore di “Europa e Cina”
Le conseguenze del nuovo coronavirus Sars-Cov-2 appaiono destinate a mutare, forse in maniera irreversibile, le relazioni geopolitiche mondiali. La Cina, da potenza nell’occhio del ciclone per presunte occulte responsabilità, mai dimostrate, di aver scatenato la pandemia, si sta trasformando nell’alfiere del multilateralismo e ha cominciato a inviare aiuti in Italia prima che a farlo fosse l’Unione europea. Quali sono le prospettive delle relazioni fra Europa, Italia e Cina? Cosa ci aspetta nel futuro? Quale direzione potrebbe prendere il confronto-scontro fra culture e civiltà così diverse? VelvetMag lo ha chiesto a Filippo Mignini, professore emerito di Storia della filosofia all’Università di Macerata, profondo conoscitore della Cina e autore del volume Europa e Cina (Quodlibet), uscito in libreria proprio nei giorni dell’esplosione della pandemia del coronavirus. L’esame delle relazioni storiche tra le due civiltà mostra quale legame privilegiato vi sia tra di esse – è la tesi di fondo dell’opera -. Il confronto con la Cina impone all’Europa di scegliere: unità politica o dissolvimento.
Perché la Cina è così importante per noi europei?
In un’economia integrata come quella nella quale viviamo da anni, l’Europa non può prescindere dalla Cina sia come produttore di merci e tecnologie sia come grande importatore dei nostri prodotti. Per le stesse ragioni, tuttavia, l’Europa è altrettanto importante per la Cina, sebbene la bilancia dei pagamenti sia nettamente a favore di quest’ultima. Da ciò la necessità per i due partners di intrattenere relazioni reciproche e di conoscersi sempre meglio.
Relazionarsi e conoscersi meglio, dunque. Ci sono anche altri motivi?
Esistono due altre ragioni dell’importanza della Cina per l’Europa, non simmetriche e reciproche come la prima. Anzitutto la Cina assume, nei confronti dell’Europa, per le profonde differenze culturali, il ruolo e la funzione di “specchio” alternativo con cui confrontarsi. Le grandi differenze di carattere sociale e politico, oltre che di civiltà complessiva, comportano una riflessione sugli stessi principi costitutivi e impongono all’Europa un’analisi libera e sincera su di essi. Non v’è dubbio, si mostra con alcuni esempi nella terza parte del mio libro Europa e Cina, che questo sia il compito principale che attende le due civiltà nei prossimi decenni. La seconda ragione, decisiva per il destino stesso dell’Europa, è che la Cina rappresenta il caso più eclatante di nazione-continente con il quale l’attuale Unione europea è chiamata a confrontarsi.
L’Unione europea così, com’è oggi, cosa può imparare dai cinesi?
La Cina offre all’Europa la possibilità di comprendere in modo definitivo la necessità di trasformare l’attuale Unione in una unità politica compiuta in ambiti essenziali come la politica estera, l’economia, la difesa e l’istruzione/ricerca. L’Europa di oggi, se non intende la necessità di procedere a tale unità politica, peraltro auspicata e favorita dalla Cina a differenza di altre nazioni-continente, è destinata a perdere progressivamente la sua voce, a disgregarsi e a divenire provincia periferica di nazioni più forti. Questa è la tesi di fondo del libro.
Alla luce degli effetti della pandemia del nuovo coronavirus, quale direzione possono prendere i rapporti fra l’Europa e Pechino?
Vedo due possibili strade. La prima è quella della diffidenza, del sospetto, della rivalsa e di una non nascosta competizione nei confronti del grande Paese asiatico, pur non avendo l’Europa gli strumenti adeguati e necessari per competere alla pari. Tentazioni di questo genere serpeggiano in diversi Paesi e l’eventuale adozione di questa via sarebbe sbagliata e deleteria perché finirebbe per ritorcersi contro la stessa Europa. Per competere con successo bisogna essere almeno alla pari, se non più forti. Ma poiché non è questo il caso e, negli interessi complessivi del mondo, la collaborazione è certamente da preferire alla competizione, credo sia molto più vantaggioso percorrere questa seconda via. Si tratterà allora di perseguire una sempre maggiore integrazione culturale, scientifica, tecnologica e politica per l’elaborazione di progetti globali che pongano in primo piano il rafforzamento delle istituzioni internazionali, il ripristino e la salvaguardia dell’ambiente, un maggiore equilibrio nella ricchezza e nel benessere delle nazioni, l’attuazione di una maggiore giustizia tra gli uomini e i popoli.
In che modo possono essere perseguiti questi risultati?
Non con la competizione, ma con la collaborazione, a condizione, anche in questo caso, che i partners siano sostanzialmente omogenei in visione e potenza. L’Europa si trova ad essere, per la sua tradizione di civiltà, particolarmente omogenea rispetto alla civiltà cinese; ma non lo è in potenza, a causa dell’autonomia politica degli Stati che la compongono, fonte di debolezza. Per questo, ancora una volta, è necessario e decisivo avviare un processo di integrazione politica, con cessione di sovranità da parte dei singoli Stati su alcuni capitoli essenziali, per ottenere, uniti, una potenza di gran lunga maggiore.
L’Italia sembra oggi rapidamente avvicinarsi a un bivio storico: operare per una più stretta solidarietà e cooperazione all’interno dell’Unione europea o uscirne seguendo il “modello” britannico. A suo giudizio qual è la strada migliore da intraprendere?
Dobbiamo considerare cecità o follia l’idea di poter risolvere meglio i pur gravi problemi dell’Italia separandosi dal resto d’Europa piuttosto che procedendo a una maggiore integrazione. Gli eventi collegati alle conseguenze economiche del Covid-19 stanno a dimostrarlo con evidenza. Senza la consistente solidarietà europea, costituita dagli interventi della Banca centrale e della Commissione, peraltro richiesti con forza, l’Italia non sarebbe in grado di fronteggiare da sola i gravissimi interventi necessari alla ripresa economica.
Quali sono i maggiori limiti del nostro Paese?
Esistono limiti strutturali e storici della cultura nazionale, che hanno condotto nei decenni ad accumulare decisive e caratteristiche anomalie. Il gravissimo debito pubblico, una paralizzante burocrazia, l’alto tasso di corruzione, l’endemica penetrazione mafiosa specie nel Sud, l’imponente evasione fiscale, la lentezza del sistema giudiziario, sono i risultati di una carente idea dello Stato e di una distorta anteposizione degli interessi individuali a quelli pubblici. Credo che tali anomalie difficilmente potranno essere risolte al di fuori di una sostanziale integrazione europea. Il confronto con modelli più “virtuosi” e la necessità di sottoporsi a regole derivanti dalla loro applicazione può costituire un rimedio efficace, o addirittura decisivo, a difetti che, autonomamente e al di fuori di facili retoriche, il Paese non sembra capace di correggere. Quindi, la strada da intraprendere è, a mio giudizio, quella di una crescente integrazione politica europea, verso la quale l’Italia assuma un ruolo promotore, come è già avvenuto nel secondo dopoguerra con l’avvio del lento processo di unificazione.
Quali argomenti utilizzerebbe per tentare di convincere un sovranista italiano della necessità dell’Unione europea?
Si dice che nessuno sia più sordo di chi non vuol sentire; così forse non vi sono argomenti efficaci per convincere chi non vuol vedere il mondo in cui vive. Niente, più della crisi sanitaria che stiamo vivendo, mostra l’interdipendenza di popoli, nazioni ed economie. Senza considerare i semplici rapporti di forza, che vedono l’Italia di molto inferiore ad altre potenze con le quali è chiamata a confrontarsi. Quando più soggetti si uniscono, oltre a costituire un soggetto unitario molto più forte di ciascun componente, acquistano anche singolarmente una forza maggiore. E poiché i rapporti tra gli individui, i gruppi e le nazioni si riducono in ultima analisi a rapporti di forza, non importa la declinazione sotto la quale questa venga osservata, segue che l’Italia avrà più forza come partner di un organismo più potente, che non da sola e isolata.
Può farci un esempio concreto?
Non è difficile. Nel 1970, l’anno dell’avvio delle relazioni diplomatiche tra Italia e Cina, l’Italia aveva un Pil decisamente superiore a quello cinese. Nel 2002 la Cina scalzava l’Italia dal sesto posto come potenza mondiale, con un Pil di poco maggiore. Oggi l’Italia ha un Pil dieci volte inferiore a quello cinese e si stima che nel 2050 il Pil dell’Italia sarà di circa 20 volte inferiore. D’altra parte, sotto il profilo culturale, quale Paese al mondo, non dico l’Italia, può oggi paragonare la capacità di diffusione della propria cultura e la propria forza di attrazione, il soft power, con l’imponente sistema degli Istituti Confucio, più di 500 in tutti i continenti, di cui circa 250 in Europa? Ebbene, come potrebbe l’Italia confrontarsi con questo soggetto da sola, al di fuori di una sostanziale integrazione europea, che sia non soltanto economica, come oggi, ma anche politica? Questo non implica, tuttavia, che l’Italia debba rinunciare ai caratteri specifici della sua identità. Al contrario, esistere in una posizione e in un contesto di maggiore potenza potrà contribuire a rafforzare l’espressione di quella stessa identità, che, altrimenti, rischierebbe di indebolirsi progressivamente fino a perdersi del tutto. Il nazionalismo, in tal caso, lungi dall’essere un valore, finirebbe per essere un carcere. Mencio (filosofo cinese del IV secolo a. C., massimo esponente del confucianesimo, ndr.) prescriveva: “Trattare i propri anziani con rispetto, per estendere questo sentimento agli anziani degli altri; trattare con affetto i propri giovani, per estendere questo sentimento ai giovani degli altri“. Un caro amico cinese recentemente così ampliava questo testo: “Amare il proprio Paese, per estendere questo sentimento agli altri Paesi”.
Come cercherebbe di persuadere, invece, un europeista italiano della necessità di un confronto più attento e approfondito dei nostri Paesi con la Cina?
Posto che il confronto con la Cina, sotto il profilo economico, culturale, scientifico, politico, è un dato di fatto e una necessità, la prima conseguenza da trarre da parte di un europeista mi pare sia quella di rafforzare l’Europa, garantendole quel ruolo e quella voce nelle relazioni internazionali, che sta progressivamente perdendo. Ma tale ruolo può essere garantito, specialmente a fronte di Paesi come la Cina, soltanto modificando l’attuale assetto dell’Unione europea, trasformandolo in una vera e propria unione politica su temi essenziali. Soltanto quando l’Europa avrà raggiunto questa nuova condizione, potrà essere avviato un processo di ulteriore e più fecondo confronto con la Cina. Le ragioni che rendono possibile e necessaria un’intesa particolare con la Cina, sono principalmente tre.
La prima è una sintonia storica tra la civiltà europea e quella cinese, fondata sul riconoscimento del comune valore fondamentale dell’umanesimo, come si mostra nella prima parte del testo del mio libro. Sul riconoscimento di tale sintonia umanistica è stato fondato il primo storico incontro tra le due civiltà, all’inizio dell’età moderna, nell’opera di Matteo Ricci e dei suoi compagni, da una parte, e degli intellettuali cinesi che interagirono fecondamente con loro dall’altra. Questo congiunto umanesimo, insieme a quelli di tutte le civiltà del mondo, costituisce anche oggi una risorsa prioritaria per il mondo. La seconda ragione è la prospettiva comune, europea e cinese, riguardante il multipolarismo e l’equilibrio delle potenze sul pianeta. In questa prospettiva, la costituzione di un forte polo europeo, favorito dalla Cina, contribuirebbe alla maggiore stabilità delle relazioni internazionali. La terza ragione è la necessità di garantire la pace nel mondo, fondata sulla giustizia e sull’equilibrio nella ripartizione delle risorse disponibili. Scrive Xi Jinping (il presidente della Cina, ndr.) che la Cina ha bisogno della pace come un uomo dell’aria che respira. L’Europa, che ha sperimentato ormai settant’anni di pace interna, ha bisogno di rafforzare la propria unione sia per escludere ulteriori motivi di guerra intestina, sia per contribuire a promuovere maggiore stabilità al di fuori dei propri confini. Il caso della Libia dovrebbe essere un esempio istruttivo. In questa prospettiva, la sinergia con la Cina potrà essere decisiva.