Non solo e non tanto il decreto del governo del 26 aprile scorso sulla fase 2 del cornavirus. È soprattutto il protocollo tra Governo e parti sociali, sostiene il Sole24Ore a spingere nella direzione di un aumento dello smart working, il lavoro da casa. Una modalità professionale che sembra destinata ad affermarsi anche dopo l’emergenza virus.

Molti italiani hanno dovuto chiudere temporaneamente la propria attività, altri l’hanno tenuta aperta cambiando notevolmente l’organizzazione del mestiere. Molti lavoratori dipendenti, così come gli studi professionali, hanno invece avuto la possibilità di lavorare in modalità “smart”, ovvero dalla scrivania di casa, da remoto.

Secondo quanto riportato da Repubblica, questa abitudine lavorativa andrà al di là dell’emergenza dovuta alla pandemia. In pratica sia nel settore pubblico che in quello privato, nel futuro prossimo almeno una postazione su tre sarà da remoto. Vale a dire che il 30% dei lavoratori starà a casa lavorando in “smart working”.

Lavorare da remoto fa bene? Alle imprese forse sì, dato che secondo alcuni studi la produttività del dipendente non diminuisce, anzi, in alcuni casi aumenta. Non è chiaro se giovi ai lavoratori. Da casa i tempi si dilatano, non ci sono gli orari dell’ufficio, ci si disperde e si finisce con il lavorare di più per la stessa paga, magari già bassa.

Qual era la situazione pre-coronavirus, cioè fino a febbraio scorso? Uno studio di Manageritalia, riportato da Repubblica, indica che il 72% delle imprese del terziario non prendeva in considerazione lo smart working. Lo prevedeva per pochissimi casi. Durante la situazione emergenziale, al contrario, si è dovuto fare di necessità virtù. Quindi solamente il 14% delle aziende non ha adottato questa modalità.