Esclusiva VelvetPrimo piano

Paolo Crepet: “Dopo il coronavirus? Meno strafottenza e più umiltà” [INTERVISTA ESCLUSIVA]

Un enigma ancora da decifrare. Un orizzonte che comincia a schiarirsi ma le cui pesanti nubi nere non si sono dissolte. Potremmo definire anche così gli effetti del coronavirus in questo scorcio di metà maggio 2020. La cosiddetta “fase 2” dell’emergenza. Il momento in cui l’Italia, come altri Paesi d’Europa e del mondo, prova a ripartire. Fra desiderio di “normalità”, il dolore per molti di aver perso familiari e amici, titubanze se non vere e proprie paure, interrogativi angosciosi sul proprio futuro lavorativo, economico e sociale. Ne abbiamo parlato con Paolo Crepet, psichiatra, scrittore, sociologo e noto volto televisivo.

Professor Crepet, si riparte. Quali sono gli atteggiamenti psicologici prevalenti fra gli italiani?

Si tratta di sentimenti ambivalenti. Adesso è il momento in cui si reagisce dopo la quarantena. Può esserci in molti una certa dose di paura, ad esempio. Tutto dipenderà dai contagi di coronavirus. Torneranno a salire o finalmente si annulleranno? Questo, direi, è l’elemento discriminante.

Siamo stati in qualche modo “reclusi”, quasi abituandoci alla quarantena: quale sarà il “prezzo” emotivo per riacquistare la libertà?

È vero che i reclusi, quando ritornano alla libertà così tanto sognata, non di rado trovano difficoltà nel riadattarvisi. Non esageriamo però. In quei casi si parla di carcerazioni che durano anni. Noi veniamo da soltanto un paio di mesi di “blocco” della nostra vita. Il paragone con la reclusione dei carcerati ci porta fuori strada. È vero comunque che la pandemia ci ha colto di sorpresa. È qualcosa di inedito, di inatteso nelle nostre vite. Ora però cominciamo a venirne fuori: la reazione in larga parte è soggettiva.

Nella nostra società c’è il culto della salute fisica, quale spazio avrà d’ora in poi la cura della salute mentale?

Per chi ha scelto, in questa quarantena che abbiamo vissuto, una via più meditativa e riflessiva della vita, in modo da coltivare una salute non solo fisica, la ricerca della salute mentale avrà spazio. Certo, non assistiamo a degli esempi edificanti. I bambini, nel progetto di una scuola da casa che si prolunga a dismisura, non vengono trattati bene dalle istituzioni. Per un pedagogista è un fatto deprecabile.

Ci porteremo dietro immagini come il corteo di camion militari con le bare delle vittime del virus trasferite fuori Bergamo. Tutto questo cambierà il nostro modo di pensare la vita e la morte?

Sono secoli che abbiamo abbandonato una cultura in cui anche la morte aveva il suo spazio naturale. No, non credo che questa immagine possa aiutarci a recuperare un senso più vero di tutto questo. Naturalmente per chi ha perso uno o più familiari, o amici, o persone conosciute, a causa del virus, quell’immagine è terribile. Lo è per tutti. Ma abbiamo avuto altre immagini devastanti che ci portiamo dentro: Piazza Tienanmen a Pechino, il crollo delle Torri Gemelle a New York l’11 settembre, ad esempio. Eppure non è cambiata di molto la nostra concezione della morte.

Quali insegnamenti possiamo trarre dalla tragedia della pandemia?

Io spero che ci sia più umiltà. Più umiltà per pensare il mondo. Il virus è piombato addosso alla nostra società dove c’è troppa strafottenza, in cui eravamo convinti di essere dei vincenti, ritenendo ormai possibile vivere tranquillamente una vita lunghissima, fino a cent’anni e oltre.

Sul futuro prossimo degli italiani è ottimista?

Non c’è da essere ottimisti o pessimisti. Dobbiamo avere cautela, ripartire con consapevolezza ma stando attenti a cosa farà il governo, a come evolverà la nostra società. Pensiamo ad esempio allo smart working, o alla app di contact tracing dei contagi. Sono in gioco aspetti centrali della nostra esistenza.

Domenico Coviello

Attualità, Politica ed Esteri

Professionista dal 2002 è Laureato in Scienze Politiche alla “Cesare Alfieri” di Firenze. Come giornalista è “nato” a fine anni ’90 nella redazione web de La Nazione, Il Giorno e Il Resto del Carlino, guidata da Marco Pratellesi. A Milano ha lavorato due anni all’incubatore del Grupp Cir - De Benedetti all’epoca della new economy. Poi per dieci anni di nuovo a Firenze a City, la free press cartacea del Gruppo Rizzoli. Un passaggio alla Gazzetta dello Sport a Roma, e al desk del Corriere Fiorentino, il dorso toscano del Corriere della Sera, poi di nuovo sul sito di web news FirenzePost. Ha collaborato a Vanity Fair. Infine la scelta di rimettersi a studiare e aggiornarsi grazie al Master in Digital Journalism del Clas, il Centro Alti Studi della Pontificia Università Lateranense di Roma. Ha scritto La Storia di Asti e la Storia di Pisa per Typimedia Editore.

Pulsante per tornare all'inizio