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Sarah Falanga: «Donne, siate come Lila e Medea: abbiate coraggio!» [INTERVISTA ESCLUSIVA]

“Ho capito che ero nata attrice. Avevo solo deciso di diventarlo nella culla, tra una lacrima di troppo e una carezza di meno. Per tutta la vita ho urlato con tutta me stessa per questa lacrima, ho implorato questa carezza. Se oggi dovessi morire, sappiate che ci ho rinunciato. Ma mi ci sono voluti tanti anni, tanti errori” ha detto di sé Anna Magnani cercando di spiegare al mondo cosa significasse per lei essere un’artista. Qualche anno dopo, ma con la stessa medesima passione, sento Sarah Falanga, dall’altro capo del telefono, raccontarmi una storia che viaggia sugli stessi binari. C’è tutto: coraggio, dolore, passione, gioia e talento.

Si definisce un’attrice di teatro prima di essere qualsiasi altra cosa e difende questo ruolo, questo mestiere, come una leonessa. Ha studiato con i più grandi, da Vittorio Gassman passando per Andrea Camilleri fino ad arrivare a Massimo Ranieri. Ha viaggiato per il mondo, ha calcato palcoscenici prestigiosi. Ha un’Accademia che cura come un figlio e quando ne parla è fiera, orgogliosa. È stata regista, doppiatrice e ha preso parte a musical di enorme successo. È stata, e ancora sarà, la suocera di Lila, Maria Carracci, ne L’Amica Geniale, è stata protagonista in Gomorra con la regia di Marco D’Amore. Si batte perché le donne, tutte, vivano con dignità in ogni ambito; lavora con Amici per l’Africa, perché è stato un segno e perché “ci sono figli che sono nati e sono figli della vita. Abbiamo una responsabilità verso di loro”. Tutto questo e molto altro è Sarah Falanga.

Intervista a Sarah Falanga

 

Sarah, c’è così tanto da dire. Forse, però, inizierei dalle basi, dai tuoi primi passi.

“La mia formazione professionale parte da un aneddoto, che poi è diventato il tratto distintivo della mia personalità a Napoli. A diciassette anni feci l’esame di maturità, ero avanti rispetto ai tempi tecnici della scuola. Chiesi alla mia famiglia di assecondare queste mia follia – perché in quel momento era una follia – di andare a fare l’esame alla Silvio D’Amico. Avevo già avuto un approccio concreto con il teatro, partecipando a un laboratorio scolastico. Il San Carlo, poi, mi aveva folgorata con la Traviata, quando avevo solo quattro anni. Andai a fare questo esame a Roma; c’erano tre step, tre mesi; mi aspettavo di non avere speranze, ma sono stata ammessa al mese di prova: una volta terminato ci lasciarono andare a casa. Eravamo in ventiquattro e solo diciotto entravano. Non ho avuto quella telefonata e un po’ mi sembrava strano perché avevo ricevuto feedback positivi. Parliamo di personaggi autorevoli, mostri sacri, del calibro di Andrea Camilleri e Vittorio Gassman, austeri sì, ma avevano comunque lasciato intendere che non gli ero dispiaciuta. Contavo su quel piccolo successo. Poi ho scoperto che mia madre aveva ricevuto quella telefonata e non aveva dato il proprio consenso, ero ancora minorenne e ne avevo bisogno. Questo episodio ha stravolto il mio punto di vista; avevo un piano, volevo andare alla Silvio D’Amico, studiare e crearmi un avvenire. Volevo lavorare in una scuola di classe A. Quando scoprii cosa fosse successo era ora di pranzo e comunicai alle mie donne, a mia madre, mia nonna, che non mi sarei fermata, che sarei andata ovunque per questo mestiere. Era la mia ‘minaccia’ alla quale poi ho tenuto fede.

Iniziai accompagnando un collega -oggi Direttore del teatro dell’Aquila- che mi chiese di fargli da spalla per entrare al Bellini. Feci quell’esame come spalla e Tato Russo, che io ancora non avevo individuato, con i capelli pittati di rosso – stava facendo L’Opera da Tre Soldi, ma io non lo sapevo – mi disse che avrei dovuto sedermi dalla parte del tavolo dove erano gli esaminatori, e io non capii, lo trovai davvero strano. Poi mi fece richiamare dalla sua segretaria per chiedermi se volessi iscrivermi al corso di teatro del Bellini. Non volevo accettare, ma poi pensai che qualcosa sarebbe successo e accettai. Senza retribuzione, iniziai il mio percorso e anche a conoscere l’arte e la creatività di Tato Russo. A lui devo molto; mi ha insegnato tanto, anche attraverso l’ostilità. Il suo scopo era quello di verificare se ci fosse, negli attori, la giusta dose di determinazione; aveva l’intento di forgiare il carattere e ci riusciva. Mi mise sotto torchio, era un continuo. Io non gliel’ho mai data vinta. Una volta venne in camerino da me, dopo l’ennesimo cazziatone, e mi chiese in dialetto ‘ancora non stai piangendo?’. Ero in dubbio, non sapevo cosa rispondere, si sarebbe arrabbiato in qualsiasi caso. Allora dissi ‘no?’, sottolineando l’interrogazione, e lui nemmeno mi guardò e sempre in dialetto decretò ‘allora puoi fare l’attrice’ e se ne andò”.

 

Tato Russo ha capitolato, insomma. Questi aneddoti raccontano di un grande coraggio; non è da tutti a diciassette anni lottare così per i propri sogni…

“Ho conservato la passione, non volevo diventare un’impiegata. Molti attori, dopo un po’, diventano esattamente questo: degli impiegati. È chiaro che ci sono delle esigenze, talvolta anche primarie, come mettere il piatto a tavola; ma fare questo mestiere comporta dei rischi. Il palcoscenico esige altro. Noi dobbiamo essere del teatro; come nell’antichità, noi dobbiamo essere quei sacerdoti che servono un momento sacrificale. Vittorio Gassman diceva sempre ‘noi siamo le puttane del palcoscenico’ e io, all’inizio, un po’ lo guardavo storto, poi ho capito. Lui intendeva che chi fa questo mestiere deve prostituirsi al proprio pubblico, corpo, anima e voce. Devi prendere una parte di te, la più intima, e la dai al pubblico”.

 

A proposito di Vittorio Gassman: è stato uno dei tuoi maestri. Forse lo hai guardato storto all’inizio, ma poi è diventato un pilastro nella tua formazione.

“Sai come l’ho conosciuto davvero? Facevo lezioni di canto, ero a via Salvator Rosa. Volevo imparare a utilizzare il diaframma, era una cosa mia. Camminando, notai che all’Augusteo c’era uno spettacolo di Vittorio e io feci ferro e fiamme per andare a comprare dei fiori. Dovevo conoscerlo. Scrissi ovviamente anche una lettera d’accompagnamento. Anche i soldi per pagare i fiori me li ritrovai per caso: la persona con cui studiavo canto non aveva da darmi il resto e così non l’avevo pagata. I fiori che avevo scelto costavano 120mila lire e io ne avevo solo 100. Chiesi così a un parcheggiatore che conoscevo di prestarmene 20. Tornando alla lettera, non avevo messo indirizzi o numeri di telefono, mi ero solo presentata e avevo scritto al maestro quanto fossi innamorata di lui. Allora, pensai che, fiori a parte, non avrei mai potuto conoscerlo. Chiamai così il fidanzato dell’epoca, voleva chiarirsi con me e allora quella sera lo chiamai e gli chiesi ‘ che stai facendo?’. Mi feci accompagnare a teatro; mi vestii bene, dovevo incontrare il maestro. Mi presentai come giornalista per la rivista “Prima Fila”. Lui non faceva salire nessuno; allora iniziai a scaldarmi finché sentii la voce della sarta che mi disse di salire. Quando entrai in camerino vidi lui e i miei fiori, era allergico a tutti i fiori, tranne che alle orchidee. In quel caso le mie. Attraverso lo specchio mi fece una sola domanda ‘Che cosa vuoi?’ e io, con fermezza, risposi ‘Vorrei un maestro’. È così che ho iniziato a studiare con lui. Era lui il mio ideale a diciannove anni, un mostro sacro, non come oggi”.

 

Oggi com’è?

“Oggi mi ferisce che spesso il nostro essere mestieranti venga assorbito nell’accezione negativa; noi siamo artigiani, costruiamo i personaggi, goccia per goccia; bisogna contestualizzarlo al proprio essere. Penso che in questo momento storico si sia perso di vista questo concetto. Chi fa la soubrette, la showgirl, non può varcare la soglia sacra palcoscenico ed essere ritenuta un’attrice artigiana. Gli attori hanno dei mezzi di comunicazione specifici, il seno abbondante non fa parte di questi requisiti; o meglio, studiando, passerebbe in secondo piano. Ho molto apprezzato, ad esempio, il percorso formativo e il cambiamento di Kim Rossi Stuart; da sex symbol ha trovato un’importante profondità. Chi fa il cantante pop in tv non può arrivare di fronte a una telecamera in una produzione impegnata o sul palcoscenico e ritenersi un attore. Questo no. La categoria degli artisti sta svanendo. La differenza qualitativa deve essere valutata in ogni ambito. Così come esiste l’albo degli avvocati, dove esistere quello degli attori. È diventato troppo semplice dire ‘io sono un attore’ senza avere minimamente qualità tecniche.

 

Studio e meritocrazia: non è facile.

“Hai presente Ludovica e Gaia – Lila bambina e Lila adolescente (L’Amica Geniale) -? Sono giovanissime, ma hanno studiato giorno e notte con Saverio – Costanzo, n.d.r. -. Si sono preparate prima e durante il girato, sempre. Si dovrebbero fare degli esami di ammissione all’albo, lo sostengo a gran voce. Non basta aver fatto la comparsa per definirsi un attore. C’è chi fa un primo lavoro e poi magari, di tanto in tanto, fa l’attore per diletto e finisce in tv e si ritiene anche tale. Bisogna dare valore e dignità a questo mestiere. Dobbiamo ricordare al pubblico che si può anche fischiare. Il pubblico non fischia più. Ma voglio ricordare, che in tempi diversi, Pavarotti fu fischiato, Claudio Villa fu fischiato. Io ho un’accademia, la Magna Graecia, e ho dei criteri di selezione ferrei, si parte da lì. Ho avuto ragazzi che hanno inviato provini tramite Zoom (molto prima che si verificasse l’emergenza sanitaria) o che volessero sostenere delle prove via Skype: ma ti sembra possibile? La prima domanda che rivolgo di solito è ‘come mai vuoi fare l’attore?’ ricevo risposte del tipo ‘perché mi piace’, non devo aggiungere altro. Alle donne a volte chiedo se conoscano Anna Magnani e mi rispondono ‘e chi è?’, agli uomini, invece, chiedo se abbiano un ricordo in particolare legato a Vittorio Gassman e mi sento dire ‘ma non si chiama Alessandro?’. Capisci cosa intendo? Alessandro è bravissimo, per carità, ma come fai a dimenticare o a non aver mai ascoltato Vittorio leggere la Commedia dantesca?! Un mostro di tecnica. A proposito di tecnica, io mi sono violentata il diaframma; fare l’attore di parola, riuscire a farsi capire, richiede enormi sacrifici. Ho studiato lirica, mi sono pagata da sola le lezioni facendo degli sforzi davvero importanti. Ho lavorato per un’impresa di pulizie ai Parioli, perché poi alla Silvio D’Amico mi ci sono iscritta e diplomata. Serve determinazione; giorno dopo giorno, devi capire qual è il tuo posto e quando cominci a pensare che non ci stai più bene, devi lasciare tutto e andare via. Devi fare questo mestiere solo se ancora senti il fuoco”.

 

Mi sembra chiaro che la determinazione, la tenacia di cui parli non ti abbiano mai abbandonata. Altrimenti non potresti portare avanti con tanta energia e passione, oltre agli impegni teatrali e televisivi, la tua Accademia Magna Graecia di Paestum. Dopo una formazione tosta come quella che hai avuto, immagino che a un certo punto sia subentrata l’esigenza di dare, di insegnare a tua volta.

 

“All’epoca, con l’Accademia, debuttai in una stalla. E non con un’opera di Edoardo De Filippo come tutti si aspettavano, ma con García Lorca. E la gente entrava gratis. Lo spazio scenico era devastato. Ma voglio dirti che facevamo quattro repliche al giorno e dal più colto al meno alfabetizzato, quasi tutti uscivano commossi. Questo perché il teatro è questo: emozione. Prima di arrivare all’Accademia assorbii il colpo della morte di Gassman e andai a studiare, a imparare a New York, mi dovevo allontanare. Una volta tornata, mi scritturarono per musical per cui ero anche ben pagata: I promessi sposi e Il ritratto di Dorian Gray di Tato Russo, per esempio. Mi sono ritrovata quindi a fare il musical. Al sesto anno di replica di Dorian, decisi di non firmare più il contratto, non avevo più stimoli. Allora tornai a Paestum, al Tempio, dove da bambina andavo a giocare. Lì avevamo la casa del mare. Mi trasferii il giorno del mio compleanno e portai il mio progetto al comune. Volevo che i giovani facessero corsi di formazione proprio. Ho avuto degli amici che mi hanno aiutata con gli insegnamenti: Lina Wertmüller, Tonino Accolla, Luca Biagini, Laura Zaccaria e molti altri. Questa scuola è partita dal teatro classico come scienza precisa; perché nei classici c’è la verità. Il mio desiderio era fare Medea nel Tempio di Nettuno, fin da bambina. Dopo circa quarant’anni il sogno è diventato realtà. Voglio sottolineare che abbiamo presentato sempre testi anomali per le abitudini del pubblico, ma tutti si sono adeguati e li hanno capiti. Riprendendo il discorso inerente alla selezione, ho quindici ragazzi ogni tre anni. Non è un mestiere per tutti; ho anche scoraggiato qualcuno a rimanere.

@Ph: Renzo Raviello

Bisogna avere un talento per fare questo lavoro. Ho sempre fatto lavorare i ragazzi che ho formato, ho formato tre compagnie. La mia esigenza primaria era, ed è, tornare alle origini sempre; mettici che poi a portare avanti questa impresa era una donna e pure con i capelli neri e vaporosi e la faccia bianca…! Mi sono battuta e continuo a farlo perché venga recepito il messaggio, voglio combattere contro ogni forma di ignoranza. Forse il mio metodo è vincente: sono tre anni che fatico a contenere il pubblico, ne abbiamo sempre di più. Aggiungo anche che faccio tutto questo per me stessa, prima che per gli altri. Sono generosa, ma questo serve a me. Ho fatto delle scelte, così come ho scelto di essere parte attiva di Centrafrica”.

 

Un’iniziativa lodevole. Me la racconti?

“Ho sempre fatto volontariato nella mia vita. Ma questa iniziativa è arrivata in un momento particolare. È arrivata quando mi è stata negata la presenza dell’uomo che mi ha dato la vita e io ero a Lecce con Ferzan – Ozpetek, n.d.r.-; a mezzogiorno è morto e io la sera sono andata in scena. Va così, una cosa straziante. Ho creduto nel segno che lui mi volesse lì, che non dovessi allontanarmi. Tre giorni dopo, ho incontrato l’Associazione. Ferzan aveva deciso che l’incasso di quella sera sarebbe stato devoluto alla onlus. Amici per il Centrafrica è davvero una famiglia di volontari. Tutti noi che ne facciamo parte abbiamo un obiettivo comune. Ci aiutiamo tra noi e facciamo rete. C’è uno scambio emotivo e professionale. Poi ognuno di noi può andare lì a toccare con mano le storie di madri e bambini in difficoltà. Fare parte di questo mi ha fatto stare bene. Sto facendo qualcosa per la vita. Ci sono figli che sono nati e sono figli della vita. Abbiamo una responsabilità verso di loro. Anche inconsapevolmente abbiamo deturpato le loro ricchezze. Abbiamo il dovere di dare loro quello che abbiamo, la penso così”.

 

Giunte quasi al termine di questa chiacchierata una cosa mi sembra chiara: sei una persona sicura, che impegna le proprie energie al massimo. Quell’impegno che di certo ha notato chi ha visto L’Amica Geniale. Com’è stato prendere parte a una produzione del genere?

“Intanto ti dico che rimane l’incognita più grande: chi è Elena Ferrante? Nemmeno noi lo sappiamo. Abbiamo incontrato la Ferrante solo attraverso le parole di Saverio Costanzo. Sai, verso di lui nutrivo qualche dubbio, un po’ per il cognome che porta -Costanzo, figlio di Maurizio, n.d.r.-. Invece adesso posso confermarti che credo che lui sia l’unico regista italiano che avrebbe potuto girare questa serie. Lui è sottile, delicato, ha una sensibilità di maternità verso il lavoro che sta facendo. Non è un regista solo bravo, Saverio è sensazione pura. È un empatico. Sul set ci sono sempre quattro persone che fanno le veci di Elena Ferrante e che parlano fitto con Saverio. C’è un grande lavoro di squadra. È chiaro che Saverio, avendo un budget importante a disposizione, è stato bravo a contornarsi di professionalità altissime, in ogni reparto. Anche il ruolo più piccolo è fatto da un attore, di uno che davvero lo fa per mestiere. Lui ha creato i “nomi”, gente sconosciuta, ma validissima, che è diventata qualcuno. Le selezioni sono state fatte dalla ottima Laura Muccino, una casting elegante e semplice, che sa metterti a tuo agio. Una che riesce a tirare fuori il massimo che puoi dare. Ha avuto un ruolo importante: doveva lavorare sulle somiglianze delle famiglie. Come Lila bambina e Lila adolescente, o come il mio personaggio, Maria Carracci, con i miei “figli”. Loro dovevano somigliare a me e io a loro. Non era facile. Giurerei che è stato adottato il metodo Strasberg si vede, Saverio vuole la verità, anche nello sguardo più piccolo; la sua telecamera coglie anche lo sguardo più piccolo e lo trasforma in un momento irripetibile. Sai, lui saluta tutti quando va via, anche l’ultima comparsa chiamandola per nome, questo significa che ha una visione di insieme, che nessuno è finito lì per caso. I vestiti sono stati cuciti su di noi, anche il dettaglio del bottone sulle calze ha una sua funzionalità, nulla è lasciato al caso. C’è un lavoro certosino”.

 

Siamo tutti in attesa della terza stagione, cosa ci sai dire?

“Ben poco. Il coronavirus ha messo tutto in pausa. Ci sentiamo sempre con la produzione e siamo pronti a dare il massimo, ma non c’è una data. La terza stagione avrebbe dovuto essere tramessa nel gennaio/febbraio 2021, ma ora chissà”.

 

Saremo pazienti, allora. Prima di salutarci, però, mi piacerebbe che tu inviassi un messaggio alle nostre lettrici. Sei una donna forte e di successo, se una ragazza volesse intraprendere il tuo percorso, cosa le diresti?

“Mi viene in mente il coraggio. Ma voglio anche dirti che la prima parola che mi ha insegnato mia nonna, nata nel 1902, è dignità. Dobbiamo essere lucide e intelligenti, sempre anche se un bambino cresce dentro di noi, anche se ci prestiamo ad ascoltare un uomo, dobbiamo essere così: lucide e intelligenti. Soprattutto in questo lavoro. Se voglio fare l’attrice devo fare la donna: servono rispetto, dignità e professionalità. Penso che ci si debba prostituire solo nel senso in cui lo intendeva Gassman, e basta. Essere donne è difficile, veniamo messe costantemente alla prova per questo. Viviamo ancora in una falsa libertà, ed è importante anche che l’emancipazione avvenga sempre tenendo presente l’identità della donna senza snaturarla. Un processo difficile, lo so. Io non credo nell’uguaglianza, ma credo e sostengo una fantastica diversità. Siamo ancora in una fase in cui dobbiamo gestire e combattere la violenza, di qualsiasi genere essa sia. Io sono una che la violenza l’ha vista, l’ho vissuta. Io, come Medea, avevo il mio Giasone e non solo sul palcoscenico. L’amore viene scambiato per sottomissione e no! No, non va bene. Donne, siate come Lila: affrontate la violenza, crescete, abbiate coraggio e proteggete la vostra dignità”.

Viviana Gaudino

Nata e cresciuta a Napoli, dopo aver conseguito la laurea triennale in Lettere Moderne alla Federico II, si è trasferita a Roma dove ha studiato Editoria e Scrittura alla Sapienza e terminato il percorso con lode. La grande passione per i libri e la letteratura l'hanno spinta a portare avanti il progetto di entrare nel mondo dell’editoria e della comunicazione: ha infatti partecipato al master "Il lavoro editoriale", promosso dalla Scuola del libro di Roma, e a numerosi workshop improntati sulla stesura e la correzione di testi. Dopo svariate esperienze come Redattrice (Edipress - agenzia di stampa del Corriere dello Sport - TuttoSport - Italo - Auto.it - Classified - Il Tempo -, LaCooltura, Snap Italy, NapoliSport), Editor, supporto Ufficio Stampa e Social Media Manager, è approdata nella redazione interna Velvet Mag.

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