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Luisa Carcavale fotografa il mondo durante il Covid: “The Lockdown people” [INTERVISTA]

Un mese e mezzo di lavoro, a partire da fine marzo, in cui Luisa Carcavale il telefono ha deciso di spegnerlo spesso. Non una foto che anticipasse il ‘work in progress’ del suo nuovo progetto fotografico, fino al primo scatto con cui ha presentato al pubblico “The Lockdown people”. Affermata professionista del ritratto, che annovera nel suo curriculum alcuni dei volti più importanti di case discografiche e produzioni cinematografiche, stavolta Luisa racconta semplicemente “quelli del lockdown”. Si tratta di ‘normal people’ – architetti, musicisti, scrittori, artigiani – che nell’intimità delle loro abitazioni hanno vissuto un blocco storico e globale.

(Cate, scrittrice – Nevada)

Entrando nelle loro case attraverso una videochiamata e uscendone con due foto – un loro ritratto e quello di un angolo che rappresentasse la loro essenza, che spesso coincide proprio con l’assenza degli affetti e delle passioni durante il lockdown – lo sguardo itinerante di Luisa Carcavale ha superato i limiti geografici grazie ad un suggestivo passaparola tra sconosciuti. Ecco allora un’elegante e folcloristica carrellata di ritratti da ogni parte del mondo, come memoria artistica della pandemia mondiale di Covid-19: da Atlanta ad Ostia, da Milano a Nairobi, e ancora Mississipi, India, Istanbul, Messico, Roma e Tokyo, Madrid, Napoli e Seattle, Pechino, Parigi e Monaco.

Così mentre a Léonoire, che vive a Parigi, manca proprio quello scorcio di città che vede ogni giorno dalla sua finestra, Norbert, Philip e Manu trascorrono il tempo facendo puzzle nella loro baita sul Monte Baker, nello Stato di Washington. E mentre Yuu a Tokyo suona il pianoforte, Jorge suona la sua chitarra nel suo appartamento a Mexico City e Malina, su una classica terrazza romana, si prende gioco della solitudine condividendo un tè insieme al suo peluche.

(Susy, impiegata – Ostia)

“Mi sono immersa in questo progetto e ho dimenticato tutto il resto”, ci ha raccontato Luisa Carcavale. Cosa ne uscirà fuori? Forse una mostra o magari un libro fotografico, “semmai qualcuno avrà voglia di sentir parlare ancora del lockdown”, ironizza lei. Io credo di sì. Perché se il lockdown ci ha insegnato a re-stare a casa, è difficile sottrarsi al tacito fascino che si prova guardando “The Lockdown people”. La Carcavale ci autorizza ad entrare nelle case degli altri, con la delicatezza di una composizione sempre impeccabile, a scoprire quello che in fondo ognuno di noi si chiede da mesi: se è in quella pianta, in quello scorcio di stanza illuminato dal sole o nella solitudine più dolorosa che anche gli altri hanno trovato il segreto per viaggiare restando fermi.

(Em, interior designer – Timau, Mt. Kenya)

Luisa Carcavale racconta “The Lockdown people”

La resa estetica degli scatti è notevole: come hai ottenuto questi risultati nonostante le difficoltà di lavorare in lockdown?

Grazie, dovrò vedere ora come sarà la resa definitiva su stampa! Innanzi tutto non volevo si vedessero i pixel dati dal segnale debole della connessione. Io ci tengo tantissimo all’estetica delle foto, è proprio una mia cifra, che siano scattate in studio o da un cellulare. Non mi interessava il reportage puro della quarantena, attraverso una webcam. Tenevo molto, invece, ad avere degli scatti come se io fossi lì presente, insieme ai soggetti rappresentati. Generalmente ci siamo mossi con due dispositivi: loro ne tenevano uno in mano per far sì che io li dirigessi da remoto, e l’altro con l’inquadratura della foto, fino ad ottenere lo scatto che volevo io. Per le immagini in India, ad esempio, mancava il secondo dispositivo e abbiamo dovuto rifare lo scatto parecchie volte. Non è proprio la foto che volevo, ma non è stato facile comunicare in modo chiaro, e loro sono stati fin troppo carini.

(Norbert, Philiph e Manu – Stilista e scrittore scientifico con il loro figlio – Mt Baker, WA)

Hai fotografato persone da tutto il mondo: come hai messo in piedi questa rete così ampia? 

Sono partita dagli amici in Italia, nel dettaglio da Milano, che era il focolaio del Covid. Poi mi sono mossa su Roma fino a raggiungere Napoli, e devo ringraziare la mia amica Ilaria per questo. Nonostante stesse vivendo un momento fortemente drammatico, per aver perso il papà a causa del Covid, si è concessa e ha preso parte al progetto. Era la prima volta che la fotografavo e ho amato questa parentesi di condivisione, era tutto così vulnerabile e non è stato facile. Poi mi sono spostata in Europa e in Norvegia, dove ho chiesto ad un mio amico di fare una foto, e poi a un altro suo amico, fino a creare una ‘catena di sconosciuti’ che mi hanno aperto la porta diventando amici.

(Malina, regista – Roma)

Un meraviglioso passaparola, insomma. Hai percepito il cambiamento delle varie fasi del Covid durante questo percorso?

All’inizio i ritratti avevano un mood più drammatico, come quelli a Milano. Poi nella fase 2 ho notato proprio un’evoluzione delle espressioni, non erano più così cupe e malinconiche. È stato bello il modo in cui le persone, nel momento dello scatto, diventavano tutto: assistenti, scenografi, truccatori. Io facevo arredare un po’ casa, sceglievo gli angoli più giusti per lo scatto, volevo un’estetica pulita, così da dare un’idea di stile complessivo nel progetto. Ho provato sempre a mantenere uno stile neutro, volevo cogliere comunque dei momenti di quotidianità, ma insomma… Se una maglietta non era in palette li facevo cambiare! (ride, ndr).

Luisa Carcavale, un viaggio fotografico durante il lockdown

(Ilaria, illustratrice – Napoli)

Quante persone hanno preso parte effettivamente al progetto, in questa ‘catena di sconosciuti’?

Tantissime. Purtroppo non sono riuscita a scattare molte di queste persone, perché non mi interessava tanto la quantità, quanto raccontare più Paesi possibili. Perù, Lima, Colombia, Bogotà: ho cercato di avere circa una persona per Paese. Nel Sud America c’è stata una voglia di partecipazione incredibile, anche in Messico.

Immagino sia stato difficile selezionare tra più persone. Il tuo criterio da fotografa ti ha spinto a privilegiare il soggetto o l’abitazione?

Il soggetto. Pensa che inizialmente non sapevo neanche dove abitassero. E poi le case non sono tutte bellissime, molti ambienti sono simili, quasi si ripetono. Molte di queste persone sono designer, artigiani, architetti: sono partita da lì e poi ho esteso le possibilità. Credo che qualsiasi casa, pulita e sistemata, possa sembrare bella. Io ho cercato di valorizzarle. Per esempio la casa delle Filippine è grande circa 15 mq e ha un giardino decadente, oppure in India c’era solo una stanza. Soprattutto nelle zone più esotiche è difficile non trovare una casa che non abbia un suo fascino. Poi sta a me cercare l’angolo giusto.

(Léonoire, produttrice artistica – Parigi)

“The Lockdown people”, di Luisa Carcavale

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