Don Joe, “Spaccato”: “Volevamo fare musica, non riempirci le tasche” [INTERVISTA ESCLUSIVA]
Don Joe, alias Luigi Florio, disc-jokey e produttore discografico italiano che ha collaborato con artisti del calibro di Max Pezzali, Marracash, Fabri Fibra e molti altri, ci ha concesso un’intervista esclusiva in cui ci racconta i suoi progetti futuri, con una spinta sempre rivolta in avanti. Il suo nuovo singolo, Spaccato, collaborazione con Madame e Dani Faiv, è ciò da cui abbiamo deciso di partire nell’excursus di una lunga carriera che nasce nel 1993, in una cameretta piena di musicassette.
Spaccato: avete spiegato che il senso del titolo è quello di spaccare, di mettercela tutta, però la parola ha anche un’accezione negativa. Ti è mai capitato di sentirti così? Diviso a metà? O semplicemente “a terra”?
Sì, il titolo si riferisce a un momento in cui siamo un po’ tutti rotti, il senso è anche quello. L’idea è quella di ripartire magari da dove ci aveva lasciato questo momento negativo. Passare da una “rottura” per arrivare a fare una roba gigante. È ciò che chiamo Rap motivazionale, ci sono diversi brani che ho prodotto che hanno questa particolarità qua, anche dell’era dei Club Dogo, come Brucia Ancora o Spaccotutto. In realtà la chiave di lettura giusta è quella iniziale, fare qualcosa che lasci il segno e dare prova della propria arte.
Qualche aneddoto sulla creazione della canzone? Chi è che volete spingere a dare tutto, ora come ora?
Una parte del brano è stata fatta prima della quarantena (la registrazione delle voci, ecc), poi tutta la post-produzione è stata fatta dopo, in questo periodo, ed è stato chiuso a distanza. Anche con chi ha mixato, Andrea Suriani che abita a Bologna: purtroppo non sono riuscito ad andare in studio da lui. Mi sarebbe piaciuto tantissimo, ha mixato e masterizzato l’ultimo album di Marracash, Persona, e ha fatto anche tante cose con Machete. È un artista, lo abbiamo coinvolto su questo progetto e siamo molto contenti del risultato anche grazie a lui.
Non sarà stato facile lavorare a distanza.
La registrazione delle voci è stata fatta in studio con me e Madame presenti. Poi ci convinceva il ritornello, ma le strofe erano un po’ incerte. Spaccato doveva essere destinato ad un singolo per le uscite di Madame, ma poi è stato un po’ abbandonato. Ma continuavo a pensarci e così l’ho ripreso in mano. Madame durante il periodo preCovid ha conosciuto Dani Faiv (io lo conoscevo già), gli ha fatto sentire il brano che gli è piaciuto ed è stato coinvolto.
Quindi si potrebbe dire che hai salvato la canzone.
In un certo senso sì, perché era rimasta un po’ fuori dalle scelte attuali di Madame. Succede, magari hai l’intuito sul ritornello ma poi non ti viene in mente altro da scriverci. Siamo stati bravi perché lo abbiamo recuperato, alla fine il produttore lavora anche su questo, non solo sulla base ma su tutti i livelli. Che poi è ciò che preferisco fare. È un lavoro che ho sempre fatto anche coi Dogo, sui ritornelli ho sempre lavorato a più orecchie e fatto un discorso di unione di idee. Il produttore poi fa quello, nonostante il lavoro da beatmaker, da ragazzino l’ho fatto anche io ovviamente.
Cosa consiglieresti allora ad un giovane beatmaker nel percorso per sviluppare un proprio senso critico?
Consiglierei di diventare un ottimo beatmaker innanzitutto, sviluppare un proprio stile e personalità, che poi ti avvantaggerà dopo. Ho lavorato molto su me stesso per non assomigliare troppo ad altri, anche se uno può ispirarsi. Oggi chiaramente è difficile trovare l’originalità, adesso basta mettere il tag. Io ho il mio tag, ma molti produttori, se non lo hanno, è difficile che li riconosci. Poi bisogna farsi un bagaglio musicale ovviamente, l’hip hop ha una cultura sua che parte da lontanissimo, dal jazz, dal funk, dal soul e adesso è un’altra cosa. È sempre bene conoscere la musica. Poi lavorare negli studi e con gente aiuta molto nell’esperienza chiaramente.
Hai collaborato con Shaggy per Algoritmo di Willie Peyote. Sarà stata un’emozione incredibile.
Shaggy è stata una collaborazione nata a distanza; dovevamo fare il video in Jamaica, ma poi non siamo partiti per il Covid. Grazie alla Virgin il brano è finito nelle mani di Shaggy, gli era piaciuta la strumentale swing molto pop e ha accettato, includendola anche nel suo album di uscita. Per me è il padre di molte cose, se ci ricordiamo ad esempio Boombastic che è stato un successo mondiale. È stato uno dei miei miti di quel periodo lì, la Golden Age degli anni ‘90.
Marracash, Max Pezzali, Willie Peyote: hai collaborato praticamente con tutti. C’è un featuring che invece è il sogno irrealizzato, anche magari con chi non c’è più?
Uno dei sogni realizzati è stato Cos’è l’amore con Franchino (Franco126 nda) e Ketama, dato che sono un fan di Califano, anche come uomo, da sempre. È stato molto più rock and roll lui di molti altri. L’ho realizzato grazie al suo management, che mi ha fatto avere le sue voci quando già non era più presente. Era un sogno non solo mio ma anche di Frank, che ha preso il suo nome proprio da Califano. Con Salmo ho lavorato anni fa per un disco di Jake La Furia, ma mi piacerebbe farlo ora anche per lo status che abbiamo oggi. Con artisti che non ci sono più? Magari Tupac.
Progetti futuri? Puoi anticiparci qualcosa?
Per il momento sto occupando il tempo facendo queste one shot come Algoritmo e Spaccato che finiranno sicuramente tutti insieme in una playlist. Dopodiché magari l’anno prossimo mi dedicherò a un progetto del genere, per ora vorrei chiudere un cerchio e poi aprire qualcosa di nuovo. Non mi voglio annoiare, voglio collaborare coi giovani, poi magari penserò ad un altro progetto solista.
Hai collaborato spesso con esordienti come Maneskin e Anastasio: chi pensi sia, nel panorama attuale, un astro nascente che andrà lontano? Su chi scommetti?
Nel mio management e nel mio team ci sono diversi nomi come M.E.R.L.O.T., un ragazzo di Bologna molto interessante, WEMME Flow che ha una caratteristica che lo rende completamente diverso da molti altri e che mi ha colpito. Poi Giovane Feddini, che fa rap tradizionale e che scrive molto bene. Tempo al tempo, è tutto molto sperimentale. Facciamo un grande lavoro di scouting ormai da anni per portare le nuove leve a un livello successivo, senza esagerare e avere aspettative giganti. Siamo comunque un’etichetta indipendente che lavora con le major, ma in un altro modo. Vedremo, tanti arriveranno e molti se ne andranno, è ciclica questa roba qua. Magari vedi artisti che fanno l’indie in un certo modo e poi passa la fantasia. C’è stata un’esplosione, come con Coez, e si è cercato artisti simili per fare business, ma era una grande bolla. È difficile resistere e rimanere ciò che si è o affermarsi come grandi artista, Coez ad esempio lo è. Nel sottobosco ce ne sono migliaia che provano a uscire, le major ne vedono pochissimi, io tantissimi. Tanti bravi ce ne sono, ma molto emulano e purtroppo non va bene.
Nel tuo libro “Il Tocco di Mida” hai detto che l’hip-hop è come una valanga creata da un sassolino. Qual’è stato per te il sassolino che ti ha spinto a partire nel 1993 e qual è quello che invece ti fa continuare a produrre ancora oggi?
Ero un sassolino anch’io quando ho cominciato. In famiglia mio fratello ballava la break dance da ragazzino, ascoltavamo le sue musicassette con quel tipo di musica, alla fine degli anni ’80. Grazie a lui mi sono appassionato, ho preso il campionatore… Ero comunque un ragazzino chiuso in cameretta che faceva musica come hobby. Ciò che mi ha spinto è stato veramente la passione per la musica. Oggi è difficile da trovare, i ragazzi ora sono completamente stereotipati, con Instagram stanno fuori di testa. Magari vedono gente americana che fa un milione di dollari in un mese, ma non capiscono che non è così facile. Noi volevamo fare musica, non riempirci le tasche, poi è diventato un lavoro, come spesso succede anche con altri lavori. Hai sempre una scelta, nessuno ti punta l’arma e ti obbliga a fare ciò che non vuoi fare. Se vuoi fare il beatmaker o il produttore, lo puoi fare, poi però devi riconoscere i tuoi limiti: se sei un appassionato di musica e poi però non la ascolti, allora perché lo fai? Puoi fare tante cose nella musica, non solo una; non per forza devi fare il produttore nella vita. Io mi ritengo fortunatissimo, ma non era scontato. Mano a mano la cosa si è fatta grande e ho continuato a fare il produttore; quindi ho riconosciuto che dovevo abbandonare delle cose, nonostante non mi facesse schifo andare a lavorare. Il lavoro che facevo al tempo (ho lavorato in un call center dell’Ikea e in una stazione centrale a Milano in un free shop), anche se lo facevo con piacere, l’ho lasciato perché sapevo che la musica mi stava dando di più.
La classifica è piena di rapper, che dominano la top 10. Come mai pensi le cose si siano ribaltate così tanto rispetto ad anni fa?
Meno male, mi viene da dire, per la cultura in generale dell’urban. Anche gli artisti indie sono più vicini all’urban ora e non hanno solo chitarra e voce. Vuol dire che siamo competitivi più di quanto non lo fossimo prima: parlo di classifiche mondiali, anche ThaSupreme è entrato nella top mondiale, per esempio. Finalmente abbiamo un suono nuovo; la classica musica leggera italiana, che c’era sempre, anche quando ero ragazzino io, era presente in maniera esclusiva. Quindi meno male che adesso c’è anche altro e c’è una svolta musicale al momento. Prima era impensabile, ora sta accadendo e anzi i numeri si sono ribaltati. Le cose si stanno espandendo; quando feci ad esempio l’esperimento di Ora o mai più avevo mischiato anche il pop. C’erano anche big come Emma, Negramaro, che però appunto hanno deciso di intervenire su delle produzioni urban.