Il 2 giugno è stata la giornata mondiale dedicata ai disturbi alimentari. Oggi in Italia oltre 3 milioni di persone soffrono di Disturbi del Comportamento Alimentare. Adolescenti, ma spesso anche bambini e donne in menopausa; questi sono i dati aggiornati del Ministero della Sanità. Volendo accendere i riflettori su questa importante, quanto drammatica, tematica sociale abbiamo raggiunto Nadia Accetti. Arista a tutto tondo, recita e dipinge, ha dato luce all’associazione Donna Donna Onlus, partendo da una sua personale esperienza. Nadia Accetti ci accoglie con un sorriso e una gioia di vivere percepibili anche attraverso la cornetta del telefono. La fondatrice di Donna Donna Onlus ci racconta la natura della sua associazione, rivelandone caratteristiche e obiettivi.

Nadia, come e quando nasce l’associazione Donna Donna Onlus?

Nasce 10 anni fa, dopo la mia guarigione e il mio percorso di uscita dal tunnel dei disturbi alimentari. Nasce dalla mia esperienza, dal mio dolore ma è un inno alla vita, perché rappresenta la mia rinascita. Io ho sofferto 10 anni, passando dall’anoressia alla bulimia, al binge eating (BED: disturbo da alimentazione discontrollata). Il mio peso è oscillato dai 40 kg ai 120 kg. Purtroppo ho subito una violenza a 16 anni e da lì è iniziato il mio cadere in queste sabbie mobili. Una volta libera, il percorso di guarigione è passato attraverso il dolore. Ho scoperto che la vita è stupenda ma è anche piena di insidie. E quindi Donna Donna nasce così, dalla mia voglia di dare quello che ho ricevuto, unita alla voglia di comunicare, testimoniare e condividere la mia gioia di vivere. All’inizio era solo un mio percorso artistico, io nasco come artista e so comunicare attraverso quello. Uscita dal mio tunnel, insieme alle mie amiche abbiamo prodotto un piccolo cortometraggio dove il nome Donna Donna era un soggetto artistico. Tanto è vero che Donna Donna è ironico: è una donna donna, una donna che si accetta. Donna due volte, donna che si ama e che si guarda allo specchio senza paura. Nasce dunque come un progetto artistico, ma per una serie di coincidenze che io oggi chiamo ‘Dio-incidenze’ questo lavoro è stato presentato nelle scuole e alla Camera dei deputati. Piano piano mi chiamavano a testimoniare e le persone che incontravo si aprivano. Quindi posso dire che Donna Donna nasce dalla mia storia, ma ancora di più dalla storia di persone che attraverso il mio lavoro artistico si aprivano.

Nadia, possiamo dire che lei è un simbolo di chi è caduto ma è riuscito a rialzarsi? In che modo è avvenuta la sua rinascita?

Sì, assolutamente! Credo la mia rinascita sia arrivata quando ho iniziato ad uscire dal tunnel. La mia svolta è avvenuta con la fede. Io ho toccato il fondo, ho tentato due volte il suicidio, sono stata praticamente l’esempio delle cose da non fare. Purtroppo, la mia storia per quanto brutta, è da manuale. Con questo voglio dire che siamo tantissime, non è un’eccezione, e ribadisco purtroppo. Mi è capitato di asciugare tante lacrime, storie di suicidio, di dolore, di isolamento. Io ho trovato la mia strada nella fede, ma non è stato “Alzati e cammina”, avevo provato altre cose prima del ritiro spirituale ma non c’ero riuscita. Ho scoperto che la vera trappola è che quando soffri hai l’illusione del controllo, di farcela da solo e lì è complicato intervenire, perché se tu non vuoi l’aiuto, nessuno può dartelo. Nel mio caso io ho toccato il fondo, dopo anni mi sono riavvicinata alla fede cristiana e da lì ho iniziato un percorso di risalita. Un percorso terapeutico durato circa cinque anni e fatto di salite e anche a volte di ricadute. Ho dovuto imparare a guardare la vita con occhi diversi, a perdonare e soprattutto a perdonarmi. Ho iniziato a rivivere quando ho urlato il mio sì alla vita. Uno dei segnali della mia rinascita è stato iniziare a sentire nuovamente il sapore dei cibi e per la prima volta dissi a mia madre: “Mamma, ma la Nutella sa di nocciola!”.

Quali sono gli obiettivi principali di questa associazione da lei fondata?

La sfida di Donna Donna è prevenire attraverso l’informazione e la comunicazione. La fotografia e l’arte sono gli strumenti che abbiamo scelto. Prevenire è vincere e non si tratta di uno slogan, ma è così. Poi è chiaro che un’associazione non può e non si deve sostituire ad un Ministero o al Sistema Sanitario. Perché il Sistema Sanitario esiste, funziona e gli strumenti ci sono. Il vero ostacolo è che spesso si chiede aiuto quando ci si è fatto tanto male, nel peso e nell’anima. In quel caso il Sistema Sanitario cerca di intervenire, ma si creano le liste d’attesa e intanto si sta male. Ed è in quelle circostanze che può capitare l’insorgere di situazioni spiacevoli, mal gestite. L’associazione cerca di agire con l’intento di proteggere da queste ipotetiche situazioni, cercando di diventare un ‘cuscinetto’ nell’attesa. La nostra peculiarità è inoltre data dal fatto che noi giriamo sempre tutta l’Italia e collaboriamo con i professionisti del settore. Per me è importante creare la rete con associazioni e professionisti del luogo: medici, psicologi, psichiatri, nutrizionisti ma anche con associazioni come la mia. È bene chiedere aiuto nel luogo in cui una persona si trova. Noi cerchiamo di portare ovunque la gioia di vivere nonostante tutto e tutti. Accendere la luce nel buio.

Nadia, negli anni la sua associazione ha intrapreso diverse iniziative. Certamente ciascuna ha lasciato in lei un segno. Qual è il più intenso?

Noi abbiamo dieci anni di mostre e calendari. Più di mille donne, di mille occhi, di mille sguardi e di mille insicurezze che io porto tutte nel cuore. Abbiamo scelto la fotografia come mezzo, perché fotografia vuol dire “disegnare con la luce” ed è un termine che mi affascina tantissimo: al di là del processo chimico, non sono io l’artista che ti fa bella ma è proprio la tua luce che ti rende bella. Come lavori del cuore c’è sicuramente la mostra fotografica itinerante che porta in giro tutti questi scatti di 10 di associazione. Questa mostra ha portato anche l’adesione di un lavoro inter-religioso, io collaboro con i fratelli ebrei e musulmani ed è straordinario vedere come alla fine (al di là che la malattia ovviamente non conosce bandiera) è nei valori, nella spiritualità e nell’amore il punto d’unione. E poi c’è un altro lavoro che mi porto nel cuore, Tusa ti sorride, realizzato nel mio paese di origine in Sicilia. Un intero paese anche in nome di una tragedia che aveva colpito la comunità, ci ha messo la faccia ed è nata una mostra calendario con centinaia di volti sorridenti. Sapere che c’è un paese intero che è lì e ti sorride, restituisce quel senso di comunità e accettazione che desidero da sempre con la mia associazione e che considero l’unica via di salvezza. In questa piccola comunità di paese ho colto la capacità di trasformare un male in occasione; è così che la vita vince, la morte non ha l’ultima parola.

Lei è il volto e l’anima dell’associazione Donna Donna Onlus. Il volto perché nasce da una sua esperienza personale e l’anima perché ne è la fondatrice. Si è mai sentita carica di una forte responsabilità in questo senso?

Io mi sento tutti i giorni carica di una forte responsabilità, sia perché si tratta di una piccola realtà che si basa sul puro volontariato di tutti; e poi perché comunque si ha a che fare con la vita degli altri. Hai la responsabilità del fatto che una parola può essere preziosa, può aiutare. Il carico è sempre più grande. Non nego che in questi anni ho pensato tante volte anche di mollare, se non fosse altro per alcune questioni pratiche, considerando che viviamo solo di donazioni. Tante volte mi sono detta “che lo faccio a fare?”. Però non potrei non farlo, perché quando io sono rinata ho capito che non dovevo tacere su quello che ho ricevuto, sarebbe stato come sputare su un piatto su cui hai mangiato. Come dice anche il Talmud: “Chi salva una vita, salva il mondo intero”, perché quell’uno ero io! Io mi sento una sopravvissuta ed ho voluto fare un gesto per chi invece come me non ce l’ha fatta.

Nella lettera dedicata a tutti i visitatori del sito di Donna Donna Onlus, lei scrive di aver ritrovato ad un certo punto il senso dei sensi. È un’espressione interessante. Vuole spiegarcela?

Un po’ si riferisce ai cinque sensi, nel mio caso il gusto ma anche lo sguardo. E poi si riferisce al senso della vita. Grazie alla mia rinascita ho ripreso la strada del senso della vita, perché quando ti ammali, quella fame è in realtà fame di vita. Madre Teresa diceva: “La fame d’amore è più difficile da sfamare della fame di pane”. Io avevo fame di dignità, non pensavo di essere degna di nulla, perché mi sentivo morire dentro piano piano. Ma quando sono uscita dal tunnel ho iniziato a capire che questo mondo ha bisogno di me; che ognuno di noi è un piccolo tassello di un grande arazzo. Io grazie alla malattia e alla morte, ho dato un senso alla vita o meglio alla nascita, al motivo per cui sono venuta al mondo.

Leggo che il suo motto è SOLO SORRISI: ha incontrato ostacoli nell’affermazione di questo suo ideale, confrontandosi con le realtà difficili che la sua associazione cerca di sostenere?

Solo sorrisi non vuol dire essere esentati dai dolori, ma ricordare che nonostante tutto ci si può sempre rialzare. Quindi ben vengano i pianti, le urla, ben venga anche esprimere la propria rabbia, la collera. Bisogna esprimere tutto ciò che si ha dentro e non reprimerlo, perché uno dei problemi grossi è che non esprimendo le proprie emozioni e i propri dolori si rischia di cadere nelle dipendenze. Esprimere tutto, sempre e comunque, ma cercando di non arrivare alla disperazione ma alla capacità di rialzarsi e all’accettazione, “Toglietemi tutto, ma non i miei sorrisi”. Cercare di avere sempre la forza di attraversare un buio fatto di pericoli, difficoltà ma con la certezza che alla fine c’è la luce.

Prima di salutarci, Nadia, le chiedo: c’è un suo messaggio personale che vuole lanciare alle donne, ma anche agli uomini?

Uno sguardo e un sorriso possono cambiare la giornata, se non la vita di ognuno di noi. È importante capire quanto uno sguardo possa essere prezioso in quanto prima forma di accoglienza. La parola autostima ti riporta a te stesso, ma in realtà la stima di sé, passa attraverso lo sguardo dell’altro. Se ti guardo con amore e ti accetto ti libero pure della volontà di poterti esprime ed è in questo caso che noi diventiamo responsabili dell’altro. Dobbiamo essere guardati con affetto, amore e rispetto ma lo dobbiamo anche fare.