Antonia Truppo: «Mentre giravo “Senza Fiato” diventavo mamma davvero» [INTERVISTA ESCLUSIVA]
Talento genuino, due David di Donatello e un amore per le produzioni minori a cui – confessa – il cinema italiano deve molto. Antonia Truppo è approdata in questi giorni sul piccolo schermo, senza smettere di sognare il grande e, con esso, il ritorno alla normalità dopo il blocco dovuto al Coronavirus. Lo ha fatto con “Senza fiato”, lavoro cinematografico del regista casertano Raffaele Verzillo. Un film uscito nelle sale tre anni fa e che oggi è disponibile on-demand. Ad essere raccontato è uno spaccato della società quanto mai attuale: uomini e donne con bagagli di ferite, preoccupazioni e precarietà che soffocano l’oggi e rendono incerto il domani. Una vicenda che si staglia nella cornice della periferia campana, ma che non ha geografia: racconta una verità conclamata, che tutti conoscono e in cui si riconoscono.
A tre anni dalla sua uscita nelle sale, “Senza Fiato” arriva on demand. Quello che viene descritto nel film è un mondo in bianco e nero, dove le ferite del passato tormentano il presente e la precarietà che tutto divora lascia poco margine alla speranza per il futuro. Pensi che sia uno specchio della società in cui viviamo?
Sì, assolutamente lo è. In questi tre anni non penso che sia cambiato molto. Non essendo un film d’epoca resta comunque molto attuale secondo me e racconta in maniera ben poco superficiale i giorni difficili che stiamo vivendo.
Nel film interpreti Anna, una donna incinta con un passato doloroso alle spalle e con accanto un uomo preoccupato perché il lavoro, proprio nel momento in cui ne avrebbe più bisogno, viene a mancargli. Mentre vedevo il film, mi è sembrata una situazione davvero aderente a quella che molte famiglie si sono ritrovate (e, presumibilmente, si ritroveranno) a vivere in questi tempi difficili. Che ruolo può avere un film come “Senza Fiato”, e il cinema in generale, in questo momento storico?
Il ruolo è quello che ha sempre avuto: quello di specchio della realtà, di metafora, un modo per evadere, o anche che per esorcizzare quei fantasmi che ognuno di noi si porta dentro. Questo, più in generale, è proprio il ruolo dell’arte. Quando un’opera compiuta riesce ad andare a segno, a parlare davvero e a raccontare profondamente qualcosa, allora la sua missione è compiuta. Da questo punto di vista quindi lo stesso “Senza Fiato” può essere uno specchio della realtà in un momento di così grande dolore e fatica. Le persone possono ritrovarvi loro stesse.
Eppure, nonostante tutto il bagaglio di dolore che porta con sé e l’incertezza nei confronti del futuro, Anna riesce ad apparire come il personaggio più positivo e aperto alla vita del gruppo. C’è speranza in lei. Pensi che la gravidanza giochi un ruolo in questo?
Io penso assolutamente che la gravidanza significhi qualcosa in questo senso. Lo dico perché è un’esperienza che ho fatto due volte e tra l’altro, nel momento delle riprese, io ero incinta davvero. E credo che si vedesse (ride). Penso che questa cosa proprio come immagine, al di là dei sentimenti che ho potuto trasmettere, costituisca un fattore in grado di intenerire. E, al tempo stesso, è qualcosa di così strettamente legato alla vita, inequivocabilmente e malgrado tutto. La vita, così come la morte, è una cosa prepotente: si vede nel corpo, nell’emotività dell’individuo. Quindi al di là di quanto una persona possa essere risolta o meno, la gravidanza è qualcosa che attraversa tutto l’essere e in qualche modo pone necessariamente una prospettiva futura.
Di te e della tua gravidanza hai ritrovato molto nel ruolo di Antonia. A questo punto vorrei chiederti, per contro, quali siano state le maggiori difficoltà che hai incontrato in questo ruolo.
Ho trovato grande difficoltà nell’affrontare alcune scene più emotive. Mi viene ad esempio in mente la scena in cui nel film incontro l’uomo che è causa delle mie ferite più profonde, in quanto è colui che ha operato una violenza nei miei confronti. Mi ricordo che in quel momento mi sono sentita molto in difficoltà. Come attrice sapevo dove cercare quella verità per mettere in scena l’incontro con un trauma. Però come donna incinta sentivo che volevo sottrarmi da quel momento perché un attore quando recita scene così forti va alla ricerca dei propri mostri. Il non potermi sottrarre mi ha fatto riflettere sulla responsabilità della mamma che stavo diventando: quella di trasmettere questo tipo di emozioni al bambino che stava crescendo in me. È stato un momento che non mi aspettavo. Infatti nella gravidanza successiva ho evitato di trovarmi in questo tipo di situazione, sono sincera. Mi dispiaceva.
Ti abbiamo vista lavorare per grandi produzioni; film che, in diversi casi, ti hanno portata anche a ricevere importanti riconoscimenti personali. “Senza Fiato” è invece un progetto indipendente. Cosa ti ha spinto ad abbracciarlo?
Io ho sempre abbracciato tutto ciò che mi piace, e continuo tuttora a farlo. Il fatto che i progetti siano più piccoli di altri non è un problema per me. È lo stesso discorso che faccio per i ruoli. Spesso mi ritrovo a preferire ruoli che non sono di primo piano, ma in cui intravedo un potenziale, una presenza determinante, rispetto a quelli più lunghi ma ordinari. In generale penso che senza quest’attenzione alle (e delle) produzioni minori, un certo cinema in Italia non ci sarebbe neppure.
Nello scrivere “Senza Fiato”, il regista Raffaele Verzillo si è apertamente ispirato a “Nebraska” di Alexander Payne. Tu invece? Hai qualche modello di riferimento per la tua professione?
Ma guarda, ti direi di no. A me piacciono tante cose diverse, ma non solo non ho modello in generale, ma neanche mio personale, di riferimento con me stessa. Quando mi viene affidata una storia, un personaggio, cerco di incontrarlo da qualche parte, più o meno dentro o fuori di me.
Ti abbiamo vista in queste ultime settimane anche in “7 ore per farti innamorare”, commedia che, a causa del Coronavirus, è stata distribuita su Sky On Demand anziché andare in sala. Qualche mese fa hai lavorato per “Ultras”, film che è stato pensato per la distribuzione su Netflix. E negli ultimi giorni sei approdata con “Senza Fiato” su Prime Video, a tre anni di distanza dall’uscita nelle sale. Pensi in qualche modo che la distribuzione on demand possa essere il futuro del cinema? O secondo te le sale avranno sempre un ruolo insostituibile?
Ovviamente questa strana situazione ha reso indispensabile un tipo di cinema parallelo, altrimenti non ci sarebbe stato assolutamente nulla. E quindi in questo senso meno male per noi, ma anche e soprattutto per i fruitori. Sicuramente il destino delle sale io non lo conosco e tutti noi ci interroghiamo in generale su quanto questa possa essere oggettivamente un’ondata senza ritorno. Però è chiaro che esiste e dobbiamo relazionarci con questo. Forse in un momento di passaggio come quello che stiamo vivendo è molto difficile intercettare il futuro. Dobbiamo aspettare per vedere quello che accadrà. Probabilmente a un certo punto le persone si stuferanno anche di stare da sole a vedere un film, o comunque sarà un’alternativa valida ma non l’unica. E le sale torneranno di moda come il vintage.
Hai progetti in cantiere per il futuro? Dove ti vedremo?
Sì, sto per finire un film che è rimasto sospeso. Si tratta di un film di Mario Martone con Toni Servillo incentrato sulla figura di Eduardo Scarpetta. Si chiama “Qui rido io”. Ho saputo proprio negli scorsi giorni che le riprese dovrebbero ricominciare a metà luglio. Piano piano si va delineando una ripresa del cinema, a partire dalle cose che si sono interrotte. Chiaramente speriamo che sia una ripartenza dell’intero settore. Noi siamo rimasti tutti come se si fosse spenta la luce e noi fossimo al buio senza particolari aiuti.