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Paolo Benvegnù: «Come in un souvenir con la neve finta che viene giù» [INTERVISTA ESCLUSIVA]

Con quattro minuti di girato casalingo, Paolo Benvegnù ha finalmente presentato il primo singolo del suo nuovo lavoro Dell’Odio e Dell’Innocenza; un video girato in casa, nel periodo della quarantena, a Perugia, sotto la neve, ad accompagnare il singolo La Nostra Vita Innocente. Il chitarrista e cantautore aveva lanciato l’ultimo lavoro a marzo, per poi vedersi costretto a sovrintenderne il percorso chiuso in casa, di fronte al progressivo peggiorare dell’emergenza sanitaria. Oggi il peggio sembra passato, e l’ex Scisma e autore di alcuni del lavori più apprezzati e premiati degli ultimi vent’anni può proseguire dove aveva interrotto. Dell’Odio Dell’Innocenza arriva a tre anni dal precedente H3+; nel frattempo c’è stato il cambio di etichetta e l’addio a Woodworm, il progetto interdisciplinare I Racconti Delle Nebbie, che l’ha portato a girare i palchi d’Italia con lo scrittore Nicholas Ciuferri, e infine questo assurdo 2020. Di presente e futuro, delle possibilità rivoluzionarie del momento storico, nel privato come nella musica, di Alessandro Bergonzoni e Nick Cave, ne ha parlato lo stesso Paolo Benvegnù. Ora finalmente pronto a suonare e raccontare il suo ultimo lavoro, dopo tre mesi in sala d’attesa.

Due settimane fa i Perturbazione, con cui tu hai collaborato in passato, furono tra i primi a lanciare un disco nell’era post-Covid. Dell’Odio dell’Innocenza fu una delle ultime uscite italiane prima della quarantena. Come ne hai vissuto il percorso?

Grandi i Perturbazione. Il disco nuovo è bellissimo peraltro. Il mio è uscito il giorno esatto del lockdown. Ti dico la verità, è già stato importante farlo. È un disco che parla dell’impossibilità, quindi quale momento migliore per farlo uscire di quando è impossibile andarlo a suonare? Poi il problema sono i conti da pagare… Ma devo dire, non ho sentito pressioni. Alla mia età è normale uscire dai radar delle classifiche, in più io sono sempre stato fuori da queste logiche. Non sono mai entrato nell’industria, sono sempre stato tangente. Ora ho realizzato un disco insieme a persone meravigliose. Poi le cose che sono successe sono molto più gravi di ciò che riguarda il mio album. Già sono contento di essere sopravvissuto.

Hai anche girato personalmente il video di La Nostra Vita Innocente, bloccato in casa: come ci hai pensato?

Io e la mia compagna l’abbiamo girato a casa nostra, col telefonino. Non c’era altra possibilità. Non cercavamo di fare nulla di artistico, ha nevicato copiosamente una sera e mi è sembrato bello immaginarsi come dentro uno di quei souvenir, quelli con la neve finta. Mai come in quel momento mi sono sentito così. Abbiamo deciso di prendere piccoli oggetti di casa, che possono non dire nulla, ma in realtà vogliono dire molto per me, e ne abbiamo fatto tesoro.

La trilogia di dischi conclusa con H3+ del 2017 sembrava andare verso il cosmico, l’assoluto; Dell’Odio Dell’Innocenza recupera quei toni universali, ma suona anche come un piccolo ritorno al privato.

C’è attinenza con il periodo precedente. L’uomo che cade sulla Terra sotto forma di pioggia, e si sorprende delle cose più triviali: l’idea è quella. Da Armstrong i miei dischi sono sempre collegati. Vorrei dire che l’avevo pensato già allora, ma non è così. Ogni tot di tempo io devo ripartire da capo. Non parlo solo professionalmente, ma proprio a livello umano. Devo imparare ancora tanto, ma in queste ripartenze qualcosa mi è rimasto. La leggerezza, riconoscere le cose al profumo. Le persone, gli umani, l’altro.

Hai presentato il disco come una raccolta di canzoni trovate in una lettera anonima e risuonate. Perché questa “storia” dietro?

Voi siete giovani, ma tra vent’anni inizierete a pensare alla vostra vita come una tra le cento miliardi di vite possibili. In una di queste ho scritto io questi pezzi, in un’altra adiacente qualcuno mi ha lasciato una busta con una raccolta di canzoni chitarra voce. I miei compagni lo hanno ascoltato e insieme abbiamo fatto questo disco. Può sembrare un escamotage, ma è veramente per farti capire che non mi sento più legato ad una una realtà specifica. Potrebbe essere successo anche questo.

La liberazione da un senso di identità.

Si, ma non nel concetto digitale contemporaneo. In questo momento, da qualche anno, mi sembra di non essere diverso dall’albero al vento, dall’ape che mi punge. È così. Stiamo facendo questa conversazione solo grazie a Basaglia, sennò è da un pezzo che mi avevano internato…

Magari in un’altra vita…

Mi ricordo lucidamente il periodo dell’introduzione della Legge Basaglia… a me sembrava rivoluzionaria. La società di oggi è più escludente rispetto a quella con cui sono cresciuto. Ora ci sono tutta una serie di sfumature tra il bianco e nero, che impediscono di incontrarci. Vediamo se questa pandemia ci permetterà di ritrovarci e abbracciarci. Lo diceva anche Sarcina, in un’intervista che ho letto prima. Ma io rivendico di averlo detto dall’inizio!

Questo che è successo questi mesi è di un’importanza capitale: prendi il Papa che parla con nessuno al centro di Piazza San Pietro… è la scomparsa del sacro. La Chiesa che prega la Scienza. È un momento rivoluzionario. Penso anche al senso della memoria: da bambino pensavo a come sarebbe stato se avessi potuto registrare tutto ciò che vedevo… ed è quello che ora sta succedendo. Noi siamo la nostra memoria. Ora non siamo che figuranti antropomorfi, per dirla con Umberto Galimberti, e può sembrare spaventoso. Ma fa parte dell’umanità.

Tornando al disco, il suono si è molto rallentato, asciugato. Mi pare che si vada verso l’ultimo Battiato, o Ferretti, mentre nel video inquadri ripetutamente Push The Sky Away di Nick Cave…

Per diventare uno sciamano come Cave dovrei essere più potente e più crudele. Inquadrare il suo album è in un certo senso una dichiarazione di intenti, perché lui rappresenta un uomo antico, e i suoi concerti sono un rituale antico. Ma Cave viene anche da luoghi in cui questo senso antico è vissuto e compreso. In Italia viene vissuto il nulla, quindi per me è più difficile… Ma il vero imperativo dell’album era trovare la felicità. Io sono sempre felice, ma con riserva. Invece questo periodo lo è stato davvero.

Dell’Odio Dell’Innocenza è chiaramente un disco più sereno. La trilogia precedente era forse più fredda, anche ostica nei confronti dello spettatore.

Penso che i miei altri dischi fossero dischi da studioso. Quando vuoi esporre una tesi sei rigorosissimo, anche con te stesso. In questo caso è stato diverso. Ho smesso di studiare, ma non perché non lo sono più: perché non mi serve. Non si può studiare l’infinito. Bisogna sentirlo, farne parte. Io sono distaccato. Ho accettato alla differenza di specie tra esseri umani. Davvero, ognuno ha una storia personale che lo guida in ogni aspetto dell’esistenza. Non mi sono arreso alla difficoltà di comprensione, all’impossibilità di accogliere ed essere accolto. Mi sono arreso a tutto, ho sempre perso tutto, ma continuo a pensare che sia necessario includerci, includere il resto delle cose, e lo dirò fino alla fine. Il tema dell’inclusione e la comprensione dell’altro è centrale del disco. Un disco meno da ragazzetto che studia.

Hai seguito un percorso strano: esordio in Emi con gli Scisma, e progressivo allontanamento dalla major. Il contrario di quanto aspirato da molti. Ora la Blackcandy.

È stato tutto molto solare. Da anni ci sentivamo, mi hanno invitato a Firenze tante volte, c’era amicizia e senso della cordialità. Quando da Blackcandy mi hanno chiamato io sono rimasto entusiasta. Fino al 3 marzo, prima e ultima data del tour. Io ero partito aggressivo e feroce in Emi, e avrei fatto qualunque cosa. Ma non avevo le caratteristiche per diventare un personaggio. Non è importante per me andare a Sanremo. Citando Bergonzoni non mi interessa il successo, ma far succedere.

Sono semplicemente due mestieri diversi, la popstar e il musicista.

Non ho le caratteristiche per fare cose che piacciano a tutti. Non mi piacciono le cose semplici. È molto difficile che ascolti altro da Radio3, ma non per cultura, o per fare lo snob. Ci sono cose che mi incuriosiscono e altre no. Così non mi interessa trasmettere ai miei ascoltatori cose che so già. Hanno fatto bene a non cercarmi. Questo mi obbliga a trovare delle intuizioni, e la terminologia per esprimerle.

Il cantautore uno se lo immagina chiuso in una stanza a registrare in solitudine, mentre tu tendi al collettivo. I tuoi lavori da produttore sono quasi una discografia parallela.

Io sono sempre in un gruppo. Conosco i miei limiti, per quanto provi a temperarli. Continuo a credere nell’altro. Anche questo album non è solista, siamo in quattro oltre a me. Penso di essere accogliente. Sono una gestante, quello che faccio quando produco non è dare un suono, ma aiutare figurativamente a partorire. Al massimo delle mie possibilità. Faccio questo, rassicuro, il rassicuratore è il lavoro che mi sono inventato. Voglio che tutto ciò che esca sappia cambiare la prospettiva del fruitore. Che senso ha appiattirsi sul gusto? Bisogna far succedere le cose. Entrare nel mondo dell’inaudito. Che sia impossibile per te e improbabile per l’altro. E infatti sono il produttore meno pagato di sempre, visto che la maggior parte delle mie cose le faccio gratis. Mi danno fiducia ed è una grande ricchezza. Certo quando poi si devono cambiare le gomme…

I Racconti Delle Nebbie non è un po’ la summa di tutto questo?

È uscito il disco e ora ne faremo un secondo. L’interdisciplinarietà è una cosa che mi interessa. Il matematico è un teologo. Bisogna mettere insieme intelligenze per crescere. Le cellule si fondono e ne formano una nuova trasmettendo informazioni. Bisognerebbe partire da questo assioma. Non è un discorso di sopravvivenza, è che l’universo funziona così. Detto questo, Nicholas Ciuferri sa scrivere cose che io non so scrivere. Mettermi al suo servizio è stato bello, ora siamo in quattro ma vogliamo diventare quattrocento. Gli ultimi due anni sono stati forieri di felicità.

Ora sarà difficile riportarlo sul palco.

Ormai sono un fantasma. C’è leggerezza, ma anche volontà di raggiungere il pathos della scrittura primigenia. La cosa bella dello scrivere canzoni o arte in generale, è l’intuizione che ti porta all’effetto scatenante. Proviamo a ritrovare questa cosa attraverso la rappresentazione. Che meno rappresenta, e più si riavvicina al furore primigenio. Per noi maschietti che non possiamo partorire, è la cosa più vicina al concetto di creazione. Ho una figlia di tre anni e ho visto lo scatenarsi della vita, è questo che mi ha fatto pensare all’importanza di questo afflato. Vedere questi infanti ridere e piangere senza una ragione, se non qualcosa che provano dentro senza neanche afferrarlo, è meraviglioso.

Dicesti di aver pensato all’album anche in termini di film.

Sono nato nel secolo del cinema e spesso mi rifugio in ciò che qualcuno ha immaginato. Lo ammetto, mi arrendo al mondo reale. Da Armstrong in poi tutti i miei dischi sono libri o film. Magari qualcuno da postumo raccoglierà il mio invito e ne trarrà qualcosa. In fondo scrivere canzoni è immateriale, sono pure idee. Ma nel formularle con naturalezza provo a valorizzarne alcuni aspetti visivi.

La materia di partenza è la stessa, che poi venga espressa per musica o per immagini…

Sono assolutamente d’accordo. Ma io sono pigro e povero, poi non so quale delle due è la causa dell’altra… Un’altra persona avrebbe già provato a portare avanti questo progetto. Ma è bellissimo anche non mercificarsi. Il lavoro andrebbe scambiato. Se uno è bravo con un automobile e io sono bravo con i vetri… La prossima produzione che farò con gli Oh! Eh? di Perugia, la sto barattando con un aiuto nel trasloco. Non so tirare su l’armadio. Il bassista è ben messo, conto su di lui.

Sei tra quelli che sperano di tornare live già da questa estate nonostante tutto?

Io ho delle date fissate, me l’hanno detto ieri. Penso che ce la farò. Sono un po’ stupefatto dalla volontà di tutti nell’andare live. Ma mi approccio con semplicità. Ne ho viste tante. Certo dovrò portarmi il microfono mio e sputare il meno possibile. Tra non molto si tornerà alla normalità. È una sensazione, ma tra qualche anno i ragazzini parleranno di tutto questo come della malattia dei vecchi. Si tornerà al gioioso vitalismo di prima. Eppure bisognerebbe approfondire alcuni aspetti: non siamo neanche in grado di capire il miracolo del semplice respirare. Riappropriarsi del miracolo della vita, è una grande opportunità. Tutto questo non sarà percepito più. Nel dopoguerra c’era una spinta gioiosa, sapevamo che la fame fa male, molto più della quarantena. Quando ero bambino c’erano ancora barlumi di questa spinta, oggi non più. Quella attuale non è una mancanza vera. Per questo ti dico che i più sensibili cambieranno, ma il mondo tornerà ad essere homo homini lupus.

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