Ogni anno nell’Oceano Altantico l’uomo riversa dai 5 ai 13 milioni di tonnellate di plastica. Una presenza inquietante e inquinante che devasta il mare e l’ambiente naturale. Negli oceani esistono ormai stabilmente, da almeno 40 anni, le cosiddette “isole di plastica“: vaste zone di mare caratterizzate dalla presenza di materiali plastici. E, soprattutto, di microplastiche, le particelle infinitesimali in cui la plastica si frammenta e si scompone col passare dei decenni. Non si devono immaginare vere e proprie isole di scarti pericolosi, piuttosto masse di spazzatura, anche rada, trasportate e localizzate dai vortici oceanici in alcune aree marine in particolare.
Il progetto Hotmic
Allo studio delle microplastiche – la cui pericolosità sull’ambiente, sugli animali e sull’uomo è ancora poco nota -, è dedicato il progetto internazionale di ricerca Hotmic – Horizontal and vertical oceanic distribution, transport, and impact of microplastics. Si tratta di un’iniziativa triennale appena avviata e finanziata con 2,3 milioni di euro nell’ambito del programma europeo JPI Oceans. I paesi impegnati sono sei e per l’Italia l’unico partner è il Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale dell’Università di Pisa. A VelvetMag ne parla il professor Valter Castelvetro (il più in alto nella foto in primo piano, ndr), capo dei ricercatori italiani. Una squadra composta da Francesca Modugno, Alessio Ceccarini, Andrea Corti, Mario Cifelli e Antonella Manariti (nella foto in primo piano con Castelvetro).
Intervista a Valter Castelvetro
In cosa consiste il progetto Hotmic?
L’obiettivo è mappare la presenza delle microplastiche dalla costa Atlantica europea sino al vortice nord atlantico. Con questo progetto si faranno campagne di campionamento delle microplastiche, anche sotto i 10 micron, per valutarne entità, tipologia, distribuzione, rotte dagli estuari fino al mare aperto e dalla superficie sino ai fondali. Ma anche modalità di degradazione e di interazione con organismi biologici.
Qual è, in particolare, il contributo del team italiano?
Abbiamo sviluppato una metodologia originale. Identificheremo i diversi tipi di microplastica, polimero per polimero. Finora la tecnica più comune si limitava a fare una separazione grossolana delle microplastiche dai sedimenti, seguita da una laboriosa e inaccurata conta delle varie parti.
Perché le microplastiche sono così pericolose?
Le insidie maggiori arrivano dai frammenti di plastica più fini, come ad esempio i prodotti di degradazione di imballaggi plastici. Oppure le microsfere di polistirene che derivano da alcuni prodotti cosmetici. O le microfibre dei tessuti sintetici. Tutti materiali che più facilmente entrano nella catena alimentare degli organismi acquatici, e poi arrivano anche all’uomo. Quando raggiungono misure impercettibili, inferiori al micrometro, possono entrare nelle membrane degli apparati digestivi. Quella degli effetti che provocano è una realtà tutta da studiare”.
Come fanno a distribuirsi nei mari in quantità così ingenti?
I fiumi sono uno dei maggiori collettori di plastica verso il mare, poi ci sono le attività che si svolgono sulle coste, ciò che finisce in mare da navi e imbarcazioni, e l’economia ittica: la pesca e l’acquacoltura producono reti, gabbie, oggetti vari. Ma pensi a un fiume come l’Arno, o il Po, quando ci sono le piene. Cosa vediamo? Di tutto: rifiuti e inquinamento di ogni tipo…
Cosa sappiamo dei rifiuti riversati nei mari dall’uomo?
Per quello che riguarda la plastica c’è ancora molto da studiare. Specie, appunto, per le microplastiche. Ogni anno finiscono in mare una decina di milioni di tonnellate di plastiche. Che galleggiano, si riversano sulle coste, si depositano progressivamente sui fondali. La plastica che vediamo sulla superficie delle acque rappresenta meno dell’1% del totale finita negli oceani. Anche nel Mediterraneo, naturalmente, che essendo un mare chiuso è molto inquinato. Esistono anche nel Tirreno, ad esempio, dei mini vortici di plastiche.
Oggi l’opinione pubblica è più attenta ai problemi dell’inquinamento?
Credo di sì. Si tratta però anche di un effetto mediatico che porta con sé qualche aspetto che non condivido. Ad esempio certe insistenze su presunte misure salvifiche quali la ‘tassa sulla plastica’. Non sono le plastiche a essere ‘cattive’. Siamo noi esseri umani che buttiamo in mare rifiuti di ogni genere. Anzi, tassare indiscriminatamente la produzione di plastica può danneggiare la filiera dello smaltimento che in Italia funziona bene.
Cosa pensa della pulitura dei mari, ad esempio per le isole di plastica?
È un’azione che va fatta e arreca benefici ai cetacei. Ma si tratta di iniziative dall’impatto relativamente modesto, sebbene abbiano una vasta eco mediatica. Il problema dell’inquinamento va risolto a monte. Quindi prima che i rifiuti giungano al mare, non a valle.
Dove e come si deve agire allora?
C’è un problema crescente, in modo esponenziale: la plastica è molto efficiente ed economica, perciò è sempre più usata nei paesi poveri del mondo. Se in Occidente si comincia a prendere coscienza del problema delle microplastiche negli oceani, molti paesi poveri in via di sviluppo sono ancora allo stadio dello scaricare tutto in mare. Bisognerebbe lì investire denaro, risorse ed energie per cambiare le cose.