Suo zio l’aveva avvisata: le prime rughe saranno una grazia per il tuo percorso d’attrice. E in effetti, ora che ha 38 anni, l’attenzione verso la sua carriera inizia a farsi sentire mentre i ruoli crescono. Tra i protagonisti di una serie Netflix, candidata ai David di Donatello 2020 e ai Nastri d’Argento 2019, che in questi giorni presenterà per il secondo anno di fila, Anna Ferzetti svela una calma placida. Quella di una professionista che non scalpita ma si diverte. Quella di una donna che ha trovato una quadra tra carriera, famiglia, età e perfino gossip. Lei che nel cinema ci è nata, e che poi l’ha anche sposato, è consapevole del suo bagaglio e anche di una certa fatica, per niente scontata, che ne deriva. Accetta le nuove sfide, gioisce come i bambini e aspetta come i saggi. “Ma io fino adesso ho fatto le cose giuste?”, si è chiesta insieme a Klara, il suo personaggio in Curon. Mentre si risponde e ce lo racconta, sorride al suo ‘doppio’ e aspetta la terza stagione di Dark, di cui è una grande fan.

Intervista ad Anna Ferzetti

Curon è su Netflix. Faccio subito outing: il personaggio di Klara mi piace. La serie è andata dritta al primo posto tra le più viste in Italia. Te lo aspettavi? Da cosa è dipeso secondo te?
Non me lo aspettavo, ma me lo auguravo. Penso che sia una novità e che il pubblico sia stato incuriosito. Non è solo un teen. È una serie di formazione e noi adulti abbiamo un’evoluzione, tentiamo di capire i lati che ci appartengono, anche quelli più oscuri.

Dunque, una trasferta di circa tre mesi a Curon per le riprese della prima stagione: com’è stato tornare a casa?
Entrare in quei ritmi ti cambia anche il respiro: mi è servito vivermi quell’ambiente con i suoi cittadini e con una piccola comunità che io, abitando a Roma, non ho mai vissuto. I ragazzi del cast sono rimasti sempre lì, io invece ho fatto avanti e indietro per stare con i miei figli. Quando tornavo a Curon però, anche solo scendere dal treno a Bolzano aveva un impatto molto forte su di me. Si riattiva ogni senso lì, l’aria è diversa, è impagabile. Poi è un genere che non avevo mai fatto, con un’ambientazione così particolare. Mai come in questo caso il luogo è protagonista della serie.

Finora il tuo personaggio è l’unico che si lascia assorbire, direi quasi con sollievo, dal proprio doppio. A bruciapelo: Anna per quale delle due Klara ha parteggiato?
Ho amato molto la prima Klara perché è una donna che, come me, cerca di far quadrare le cose nella vita. Ma mi rispecchio nell’altra, che ha tirato fuori quel carattere scegliendo di non assecondare sempre tutto. La prima Klara subisce la dura autorità del marito. La seconda Klara non è il suo opposto, ma è la parte oscura di ognuno di noi, quello che vorremmo segretamente essere, spesso senza riuscirci. È a quel punto che subentra il doppio. Nella serie mi ritrovo faccia a faccia con quella parte di me. Anche nella vita capita ma è solo una sensazione, è dire tra sé e sé: “Adesso che facciamo?”. Nel periodo della quarantena credo che ognuno di noi si sia posto quella domanda scomoda: “Ma io fino adesso ho fatto le cose giuste?”.

“Tu sarai più capace di me a vivere questa vita”: la guerra tra doppi è psicologica, prima ancora che fantasy.
Sì, perché è soprannaturale che questo doppio si palesi, ma in fondo è dentro ognuno di noi. Non è né il cattivo né la parte vendicativa. È quello che vorremmo: Klara vorrebbe essere così, rispondere, reagire, ma non ce la fa. È un’esperienza davvero interessante per un attore, io mi sono fatta delle domande da personaggio ma anche da persona. Che cosa farebbero le due parti di me? Ho cercato di differenziarle anche fisicamente: una persona più sicura si pone in modo diverso, ha un altro modo di camminare e dunque volevo essere più stabile e pesante.

Il passaggio tra le due Klara è affascinante proprio perché è consapevole, remissivo e dunque inquietante.
Esatto, perché non ti aspetti quella reazione. Capisci solo a quel punto la sua sofferenza: ha scelto un uomo che ha amato e l’ha preso così, pur di averlo.

Ecco: scegliere di accettare la parte più oscura di un uomo è la sfumatura più difficile da comprendere nel personaggio di Klara. Secondo te cos’era, amore?
È una domanda che mi sono sempre fatta. Ancora non lo so. Ci sono donne che si accontentano pur di avere quella persona accanto. È un tipo di amore, ma forse non troppo sano. Oppure è talmente forte e completo da farti accettare anche quella diversità, pur di avere l’altro? Come a dire “ti convincerò ad amarmi”. Poi, forse, capisci che è meglio allontanarsi e anche quello è amore. Klara ci ha provato per 17 anni.

Sembri felice.
Sono felicissima. È un bel ruolo e capita raramente. È femminile e completo. E poi mi piace che ognuno di noi, in Curon, non sia catalogabile. Potremmo anche essere un’attrice polacca o un attore francese, proprio perché è uscita in 190 paesi. Lì in Alto Adige la metà della popolazione parla anche tedesco.

E tu del tedesco ne sai decisamente qualcosa…
Ho studiato tedesco per vent’anni, ne abbiamo approfittato. Quando andavo a scuola da ragazza, ogni tanto parlavamo in italiano e poi magari qualcuno chiedeva “mi passi l’acqua?” in tedesco. Ancora oggi, con le mie amiche di scuola tedesca, facciamo telefonate a metà. La seconda lingua rimane tutta la vita.

Gemelli e doppi sono alcuni dei ruoli con cui un attore si può divertire di più. Spesso, ultimamente, sono legati ad un cinema e ad una serialità teen. Che reference hai utilizzato per prepararti? Cosa guardi su Netflix?
Ho visto Stranger Things. Ma ho amato guardare Dark con mia figlia, abbiamo fatto nottata e ora aspettiamo la terza stagione. E parliamo di due generazioni molto diverse, lei ha 14 anni e io 38. Anche lì parti dai ragazzi, dal teen, e poi vai a scoprire un mondo. Ho avuto riscontri positivi da molti miei coetanei che hanno visto Curon, ed era il nostro obiettivo e quello di Netflix: parlare ad un target multigenerazionale.

Tua figlia ha visto anche Curon?
Sì, a quanto pare mi ha promossa. Poi è venuta spesso sul set, quindi era curiosa di vedere com’erano diventate alcune scene.

Recentemente abbiamo visto cosa può comportare, in termini di successo e popolarità, essere protagonisti di una serie Netflix. In realtà questo riguarda soprattutto gli attori esordienti, mentre per te questo step arriva dopo circa 15 anni di carriera. Cambia comunque qualcosa?
Non è la prima volta che interpreto una madre, certo, ma qui è una madre diversa, c’è tanta roba. Ho notato subito che iniziano a seguirmi sui social molti giovani e da più parti del mondo: russi, polacchi, soprattutto dal Brasile. Cavolo, questa è una grande cosa! Era ora di esportare un po’ l’Italia. Mi ricordo quando ci hanno comunicato “Allora, Curon esce alle 9 del mattino ovunque”. Ah, alle 9 del mattino in tutti i paesi? Uao.

Quindi ti sei già ascoltata doppiata in brasiliano?
Ancora no (ride, ndr). Ho paura, ma prima o poi lo farò, sarà divertente. In compenso sul web ci sono tante pagine brasiliane con la nostra faccia.

Per te questo è stato un grande periodo e non solo per l’uscita di Curon. Doppia candidatura prima ai Nastri d’Argento 2019, poi ai David di Donatello 2020. Secondo te qual era il ‘quid’ del personaggio di Paola, in Domani è un altro giorno, che l’ha reso un ruolo da candidatura?
Ti devo dire che è inaspettato. Forse tante donne si sono identificate in una come Paola perché non veniva raccontato un cliché: né moglie né fidanzata. Veniva raccontato uno stato d’animo, un’urgenza.

Ti dico la verità, io ti avrei candidato per Camille nel 2017 (ndr: Cercando Camille, di Bindu De Stoppani, 2017). Mi sono innamorata di quel tuo ruolo.
Tu l’hai visto?!

L’ho visto. E proprio in questi giorni ho scoperto con amarezza che il film non ha neppure una sua voce su Wikipedia. Perché?
Un piccolo film, girato in 25 giorni con una produzione svizzera e con attori protagonisti meno noti al grande pubblico. Per me è stata una cosa grande, la mia prima volta da protagonista, non avevo mai girato tutti i giorni di fila. Venivo fuori da un momento difficile della mia vita, avevo appena perso mio papà. Pochi mesi dopo mi è arrivato quel provino e io credo molto nei segnali della vita. Ho rielaborato il lutto del rapporto padre-figlia. Ma quello di Camille è anche un ruolo buffo, diverso: ho osato. Mi diverte non essere me stessa.

Allora speriamo che con i riflettori puntati sulla tua carriera ci sia anche una riscoperta della tua Camille. A proposito di questo: il successo e il riconoscimento stanno arrivando ora per te, che invece in questo mondo sei nata e cresciuta.
Vengo da una famiglia di cineasti, sono cresciuta con un attore (ndr: Gabriele Ferzetti, il papà di Anna) e quando hai un cognome importate non va sempre tutto dritto. Ci sono lati positivi, ci cresci, ci nasci, hai la possibilità di vivere questo ambiente da sempre. Ma allo stesso tempo tutto quello che mi sta capitando me lo sono guadagnato. Poi, certo, le cose si dicono… Ma io sono orgogliosa di quello che sto facendo. C’ho i miei tempi (ride, ndr), però mio zio è stato un grande agente e mi diceva: “Tu inizierei ad essere davvero interessante quando arriveranno le rughe”. Lì per lì non capivo, ma aveva ragione.

Anzi, forse adesso i ruoli femminili migliori sono proprio quelli con le rughe.
Guarda, mi sento ottimista. Noi attrici ci siamo un po’ incaponite su questo, e forse si inizia a capire che c’è tutto un mondo femminile da raccontare. Che non si ferma solo alla moglie apprensiva, alla moglie corrosa o all’amante sexy. Ci può essere un’amante non sexy, combattuta e tormentata. Siamo un contenitore di roba interessante, noi donne. Senza togliere nulla al maschile. Magari in una meravigliosa convivenza.

A proposito di meravigliose convivenze: quella con tuo marito, Pierfrancesco Favino, fa parte della tua vita. Ammetto di aver conosciuto prima Anna Ferzetti attrice e poi Anna Ferzetti moglie. Ma una nota romantica è doverosa: è stata una bella immagine quella arrivata ai David quest’anno. Due artisti che viaggiano insieme con obiettivi paralleli, e che condividono la stessa emozione, durante il lockdown.
Abbiamo vissuto la stessa felicità, anche se uno di noi non ha vinto. Ma dire che io fossi felice per lui, è poco. Perché quando condividi lo stesso obiettivo sai quanto si investe nel lavoro, quanto si dedica ad un film, quanto è faticoso stare per mesi interi fuori. Lui sapeva quanto era importante per me, io sapevo quanto lo era per lui. Per me era la prima volta, ero come una bambina. Cerchiamo di non parlare troppo di lavoro, noi due, perché è un mestiere già abbastanza totalizzante. Ma ci sosteniamo a vicenda.

Quindi si può fare, un equilibrio si trova.
Assolutamente, avere due età e due percorsi diversi ci aiuta. Il bello è vedere quello che l’altro non ha ancora capito e spiegarglielo.

Quando hai esordito alla conduzione con il “Prima Festival” ti raccontavi impaurita per questa nuova esperienza. Direi che è andata bene, visto che ora presenterai per il secondo anno di fila i Nastri d’Argento.
Quando mi hanno chiesto di condurre il Prima Festival ero in un momento di incoscienza ed ho accettato (ride, ndr). Io amo il palco, ma poi quando sono dietro le quinte e sto per entrare in scena mi chiedo “perché, perché, perché?”. Però era una sfida nuova, dunque perché no? Poi è capitata la conduzione dei Nastri 2019, dove potevo essere me stessa. Forse è stato un successo, perché quest’anno mi hanno proposto di nuovo di presentarli. Stavolta sarà una conduzione diversa, sarò io da sola con gli artisti premiati: una doppia sfida. Vogliamo ricominciare bene, parlando dei film e facendo capire che comunità c’è dietro un lavoro del genere.

Sei ancora spaventata o giocherai in casa stavolta?
Sarò sempre spaventata (ride, ndr). È una sfida in diretta, con dei tempi televisivi che sto imparando. È una macchina impressionante quella della conduzione televisiva, chi fa davvero questo mestiere lo sa meglio di me. Insomma, sono una timidona ma mi butto. Sempre.