Ha aspettato “il momento giusto”, e questo momento è arrivato adesso, dopo tre anni di attesa e alcuni sconvolgimenti personali e mondiali in grado di ribaltare completamente la concezione attuale della musica e dello spettacolo. È comunque tornata infine, Chiara Galiazzo, con il suo Bonsai (Come fare le cose grandi in piccolo). Il primo disco con il cognome a seguire il nome, quel nome proprio che la lanciò ad X Factor nel 2012 e che da allora la accompagnò per oltre cinque anni. Dopo il poco capito Nessun Posto è Casa Mia del 2017, l’artista fece un passo indietro, prendendo le distanze dai palchi per un anno prima di tornare con il nuovo progetto. Costruito nel corso di diversi mesi, anticipato già a partire dal 2019, l’album del ritorno arriva oggi, in un panorama completamente stravolto. Accompagnato da una serie di singoli, ultimo dei quali Non Avevano Ragione i Maya, l’album ha visto la luce andando in vendita e in streaming questo 3 luglio.

Il brano di lancio di queste settimane è Non Avevano Ragione i Maya: proprio mentre lo presentavi, si è tornato a parlare di quella famosa profezia…

La presunta nuova data dell’Apocalisse è venuta fuori mezzora dopo che uscisse singolo. Mi ha stupito, mi sono spaventata! Certo, se uno guardasse bene si renderebbe conto che i Maya stessi non parlavano di fine del mondo, quanto di un cambiamento energetico positivo… ora il 21 giugno è arrivato, qualcosa potrebbe anche essere cambiato.

È un tema ricorrente tra i singoli di questi mesi, questo muoversi e cambiare.

Mi è sempre piaciuto affrontare discorsi di questo tipo. Queste canzoni sono state scritte tutte prima che accadesse quello che è successo in questo periodo… Per me il tema ambientale, l’impatto sulla natura, il rispetto e l’amore nei confronti del pianeta come di tutte le persone che ci vivono, è sempre stato importante, segnante. Poi parlandone oggi può sembrare una previsione. Probabilmente era nell’aria. Quando si avverte di stare arrivando ad un punto di non ritorno, ce ne accorgiamo.

Hawaii, il Giappone, il Messico: com’è questo slancio internazionalista?

Non è una presa di posizione voluta, non ci ho ragionato sopra. Per me il pianeta oggi è un grande luogo interconnesso, non penso più in termini di internazionale o italiano. La gente va dove vuole, con il corpo e la mente. Io ho sempre girato tanto, l’anno scorso per esempio sono stata in Giappone, ho conosciuto la popolazione, e ciò mi ha ispirato elementi dell’album. Ma non è un argomento, io non credo alle frontiere. I nostri problemi sono quelli di tutto il mondo. Bisognerebbe ragionare di più in termini di pianeta. Più che internazionale è un disco transazionale, anche transplanetario.

Infatti a guidarne l’ascolto c’è la mappa visiva, che rappresenta le tracce del disco come luoghi spaziali…

L’ho tenuta nascosta ai fan fino all’ultimo. L’ha disegnata Elena Borghi, bravissima. Ha ritratto le canzoni in quella che è una sorta di mappa emotiva del disco, del viaggio, e del cuore di una donna. E parte tutto dal bonsai, che sarebbe metaforicamente il cuore. Le zone riportate sono però zone reali, l’Islanda degli Iceberg, dove i ghiacci si sciolgono, Honolulu… Sarà fisicamente presente in ogni album, vorrei diventasse un poster che la gente possa appendere dove voglia, che li coinvolga. Non posso concepire un disco che non coinvolga l’ascoltatore, con un pensiero dietro. Io ho quel tipo di approccio per cui una persona deve poter entrare nel mio mondo. Va bene ascoltare qualche canzone carina, ma nel caso uno voglia andare più a fondo, noi gli diamo questa opportunità.

Questo tema del viaggio e della ricerca non è anche un discorso di crescita personale?

Il mio primo album si chiamava già Un Posto nel Mondo. Siamo sempre alla ricerca di qualcosa, a cui non arriviamo mai. Ma più che qualcosa da imparare, è il miglioramento ciò che cerchiamo. Se smetti di cercarlo è la cosa più negativa di tutte.

D’altronde il precedente era Nessun Posto è Casa Mia

Quel brano non era stato capito a Sanremo, ma oggi è il preferito di tanti. È una canzone che piace moltissimo, e ne sono contenta. Analizzava un’emozione come la malinconia, che è una sensazione sfumata e difficile da captare. Ma ogni volta che qualcuno mi scrive di ascoltarla, magari in un momento di nostalgia lontano da casa, mi sento felice, vuol dire che ha avuto un senso. Mi rende orgogliosa. La musica è sempre connessa alla vita.

Bonsai ha avuto una lavorazione lunghissima, sono mesi ormai che convivi con questi brani.

Aspettavo il momento giusto, ma non arrivava. In questa estate strana ho avuto voglia di condividere finalmente queste canzoni. Il momento si è palesato soltanto ora.

È un disco veloce e compatto, non c’è quella bulimia dettata dalla ricerca del singolo.

So bene che oggi si tende a ragionare canzone per canzone, ma io in questo momento non mi sento adatta a questo. Preferisco dare spazio all’approfondimento, ho persino dato spiegazioni track by track, cosa che non avevo mai fatto. Succede che in un disco lungo la decima traccia, che magari è la più importante di tutte, non ottenga l’attenzione che merita. Io volevo che avessero tutte spazio. Per questo nella grafica ogni canzone è connessa. Oggi magari c’è meno attenzione al riguardo, ma non è detto che non possa appassionare anche questo tipo di album. Dipende dalla persona. Chiaramente io posso avere voglia del singolo come di essere riflessiva. Io me la sentivo così e ho sentito di agire così.

Musicalmente come hai gestito le produzioni?

Le melodie non sono mai andate via, restano necessarie al mio lavoro. Chiaramente rispetto a Nessun Posto è Casa Mia, che era molto piano e voce, ho cercato il ritmo. Volevo spingermi oltre, e seguire una mia sensazione. Volevo renderlo più semplice all’ascolto, molto accessibile, ho cercato anche di semplificare il linguaggio. Mi sono resa conto che le cose accessibili e semplici sono le cose più difficile. Dicono di più. È la mia interpretazione, è la mia idea di me stessa nel 2020. Il mio orecchio si è abituato, anche nelle produzioni, ormai ascolto molta roba presente.

Parlando dei collaboratori coinvolti: Danti, Faini, Mahmood… come li hai cercati?

Conoscevo già tutti. Dario Faini l’ho conosciuto a X Factor, abbiamo già collaborato tante volte. Danti invece alla Sony. Sono incontri casuali o di lunga data: quando voglio fare musica, preferisco avere in studio gente che stimo e conosco. È venuto fuori quasi tra una pausa caffè e l’altra, come dovrebbe essere un disco, senza giri strani. Per prima cosa si pensa all’approccio, alla melodia e a cosa dire; poi la realizzazione è legata al momento, al mood, dove sei. Quello non la puoi controllare.

In questo album mi ci sono innestata completamente. È un album scritto interamente da me. Mi è diventato naturale. In altri casi facevo da interprete, come quando mi arrivano canzoni incredibili come Nessun Posto è Casa Mia, sono sempre ben contenta quando ricevo canzoni che spaccano. Poi questo a volte non succede, e allora si crea un buon mood, e si va a lavorare insieme. È successo così, con trecento note vocali. Da sola completamente faccio fatica, io sono incasinata, ma una canzone nasce da idee, spunti, ispirazioni. La musica va fatta insieme. C’è sempre qualcuno che avrà l’idea migliore, e tu non poi respingerla. È brutto lavorare da soli, almeno per me.

È il tuo primo disco con nome e cognome.

Da due anni registro così. Non avevo mai voluto il cognome, ma ora ho deciso di rimetterlo. Niente dietrologia. Un giorno mi sono svegliata, e ho scelto così.

Decidesti anche di allontanarti per un periodo.

Io mi allontano sempre, dopo un album, non riesco a fare un canzone dopo l’altra. Non ho quella natura. Dopo un periodo, come un viaggio, ho bisogno di rimettermi in carreggiata per poter fare quello dopo.

L’anno scorso portasti in giro il Tour Più Piccolo del Mondo nei piccoli teatri italiani. È stato il tuo ultimo tour.

È stato bellissimo avere le persone così vicine. Ho scoperto la bellezza di piccoli posti che non sapevo neanche esistessero, incredibile cosa si possa scoprire se lo cerchi. I concerti erano una specie di installazione. Siamo stati a Gualtieri, a Monte Castello di Vibio, posti stupendi. È l’approccio alla musica più vero. Cantare in televisione è una cosa, ma la verità, quella sta nei concerti. La tv serve per farti conoscere, ma non è in nessun modo sostitutiva di un live, sono dinamiche troppo diverse.

Sono sempre di più quelli che cercano questo approccio intimo all’esibizione, mentre il resto si digitalizza.

Non è una cosa che la tecnologia potrà mai sostituire. Tutto è stato sostituito, ma il concerto… se non puoi farli non puoi farli, non è che puoi mandarli su Zoom. È giusto che ci sia qualcosa di immutabile, che resti così per un motivo. Mi sembra una cosa bellissima, universale. Cantare davanti a delle persone, condividere l’energia, quella è la parte migliore di un disco, mica la promozione. Io capisco che in questo momento l’attività social sia l’unica cosa che si possa offrire, ma uno preferisce i concerti. Quest’estate qualcosa farò, vedremo.

Avrai il via libera a suonare?

Io sono abituata alle dimensioni piccole, non faccio gli stadi. Mille persone vanno bene. Se riuscirò a sottostare a tutte le norme, è giusto farlo, se non la si vive come una forzatura. Anche per far lavorare le persone. A me piace, il mio progetto non è cambiato. Non posso esibirmi davanti a ventimila persone in piazza, bisogna accettare la realtà, ma non è detto che non possa dare un minimo di gioia e far ripartire il settore in una dimensione più piccola. Spero che la situazione non sia perpetua, non immaginerei un mondo senza concerti sold out. Ma non faccio previsioni. Di certo non scriverò più canzoni a tema apocalisse…