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Antonia Liskova: «Oggi sono felice, perché l’Italia me la sono meritata» [INTERVISTA ESCLUSIVA]

«Dovresti scriverlo nell’intervista» mi blocca Antonia Liskova quando le dico che, dopotutto, siamo come il pubblico dei Lumière: ci spaventiamo ancora per il treno che corre sullo schermo. «Scrivi così: ‘Antonia mi chiede esplicitamente di inserirlo, perché rende perfettamente l’idea’». Rende l’idea di come sia facile alzarsi dalla sedia e scappare di fronte all’arrivo della novità, del cambiamento, dello straniero. Ogni promessa è debito, dunque scrivo. D’altronde lei mi convince facilmente: non molla la presa sulle questioni in cui crede, non si concede risposte comode, ma piuttosto parla di razzismo, sentimenti e femminilità: «Devo supportare le donne con una mia foto in bianco e nero, o sto solo supportando me stessa? Se la challenge su Instagram si chiama ‘Women Supporting Women’, preferisco pubblicare la foto di un’amica e di una donna che stimo».

Mentre vent’anni fa esordiva al cinema con Carlo Verdone, in simultanea sbarcava in tv con Le ragazze di Piazza di Spagna, Via Zanardi 33 e Incantesimo. Poi è arrivato il successo di Tutti pazzi per amore, il Nastro d’Argento europeo, il Globo d’Oro e la nomination ai David per il film Riparo. Oggi è madre, moglie e attrice di successo, tra i volti di punta della RAI, on-demand con l’ultimo film che la vede protagonista, I Liviatani di Riccardo Papa, e presto ancora in tv con L’allieva 3 e Nero a metà.

Ma il treno-Lumière di Antonia Liskova, nata in Slovacchia da madre slovacca e padre ceco, in realtà era un pullman diretto in Italia, con cui a 18 anni ha lasciato il suo Paese. Poche opportunità in tasca ma la caparbietà vincente di chi un’occasione deve crearsela da sé: «Perché sono molto pragmatica? Perché è così che ho risolto i problemi della mia vita. Ed è così che oggi riesco ad essere felice».

I Liviatani è on-demand. Si tratta di un’opera prima firmata da Riccardo Papa. Hai capito subito di volerne far parte o hai avuto delle riserve iniziali?

Il ruolo mi è piaciuto subito. Non ci sono moralismi, il film non vuole per forza dare un messaggio. Ma questo non vuol dire che non ci sia un messaggio, anzi. Ho adorato la scelta di raccontare una famiglia matriarcale, con questa figura che io interpreto: è come se tutti pendessero dalle sua labbra e dalle sua decisioni. La mia Amalia ha una sua forma di saggezza.

Nel film tua figlia (interpretata da Federica Sabatini, ndr) ti definisce «gelida e distaccata». Tu le rispondi: «Non sono sempre stata così». Ci si diventa?

È una risposta che inevitabilmente do anche a mia figlia di 15 anni. Ciò che siamo oggi è frutto di una vita che abbiamo scelto. Anche quando «ci capitano» le cose più brutte, in fondo possiamo scegliere come affrontarle e come elaborare il dolore. Credo che Amalia lasci intendere questo: io ho fatto la mia scelta, e questa strada mi ha resa anche cinica e distaccata. Ma talvolta bisogna fare i genitori: non posso parlare a mia figlia come se avessi anch’io vent’anni. E nel film la figlia vorrebbe diventare come la mamma ma non lo ammetterebbe neanche sotto tortura. La madre, allo stesso tempo, non le dice mai «devi fare questo» ma la mette sempre di fronte ad una scelta. Nel paradosso della situazione è un modo bello e sano d’essere genitore.

Il film ironizza su un certo «perbenismo borghese». Tu che rapporto hai con il perbenismo?

(Ride, ndr) Diciamo che è l’aspetto che preferisco de I Liviatani. Penso che viviamo in un’epoca di ipocrisia mostruosa, con un modo di comunicare che sembra tutto ma non è niente. Il film dice questo: più vuoi elevarti, più devi distruggere quello che non ritieni possa far parte della tua vita. In che modo? Eliminando gli elementi di disturbo.

E i Liviatani lo fanno in modo brutale e primitivo, sebbene siano stati simpaticamente definiti «la Famiglia Addams italiana».

…Che se vogliamo è la versione più leggera del film. Ma loro letteralmente fanno una pulizia spietata. Amalia detesta tutto ciò che è ipocrita, compreso il tentativo di pulirsi la coscienza «donando due spicci» per poi sbandierare di aver fatto beneficenza. Se lo si vuole cogliere, questo è il vero messaggio del film. In alternativa si può comunque passare una bella serata a ridere di una famiglia di matti che combina casini.

Presto ti vedremo ne L’allieva 3, dove interpreterai il nuovo Direttore dell’Istituto di Medicina Legale. In Nero a metà invece sei Dirigente della Squadra Mobile. Donne, carriera e potere istituzionale: in tv scrivono questi ruoli da almeno vent’anni, nel 2000 iniziava l’epoca di Distretto di Polizia, Valeria medico legale e La Squadra. Non è strano che proprio al cinema questi ruoli siano ancora riservati agli uomini? 

Sai che hai ragione? Per certi versi la fiction non ha camminato al passo del cinema, ma per altri è stato il cinema a tardare. Ed è ancora in ritardo. Fino a poco fa c’è stato il cliché orrendo e molto italiano del «tu sei un attore di fiction, io di cinema». Quell’epoca l’ho vissuta ed è stato molto triste: sono un attore, per me la macchina da presa è sempre la stessa. Invece proprio in tv ho fatto tantissimi ruoli da protagonista divertenti, forti, più articolati.

Nonostante l’altro famoso cliché sul target di riferimento della tv generalista: la casalinga over 50…

Posso dirlo? Se fossi una casalinga over 50 mi arrabbierei come una iena. Posso essere una casalinga con due lauree, che ha lavorato e si occupa anche dei figli. Posso anche non lavorare ma saper comunque giudicare un prodotto. Questo modo di sottovalutare il pubblico mi ha sempre fatta avvelenare. A volte sul set ci fanno ripetere delle azioni per sottolinearle: «Magari la casalinga è distratta, sta buttando la pasta, dobbiamo ripeterlo più volte». Ma adesso il pubblico ha a disposizione infinite piattaforme per scegliere: vorrei sapere come faranno a fregarlo senza la qualità.

Ecco, per esempio Tutti pazzi per amore è stata una serie innovativa nel panorama di Rai 1. Qualità e comicità, scrittura sfrontata, la struttura del musical, romanticismo multi-generazionale. Com’è stato viverla da protagonista?

Assolutamente sì, è stato un format originale e coraggioso, venduto poi in moltissimi Paesi. Non aveva limiti tra realtà e fantasia. È stato straordinario farlo, avevo la sensazione di poter osare, non era mai troppo perché raccontavamo delle visioni. Che poi è quello che succede anche all’interno de L’Allieva: dov’è il limite della fantasia? Ora ho scritto un film con Marco Bonini. Lo abbiamo scritto prima della quarantena, non durante, come tutti gli altri (ride, ndr). Mentre lo scrivevamo dicevo a Marco che forse alcune scelte erano troppo azzardate, ma lui mi rispondeva: «Anto, tu continua, poi decidiamo se è troppo. Chi ha il diritto di porre limiti alla tua immaginazione?». Ecco, questa all’epoca fu la vera innovazione di Tutti pazzi per amore in RAI. Siamo stati così bene mentre lo giravamo.

Nel 2018 raccontavi a Vanity Fair: «Verrà letta come un grande passo avanti la serie Rai che ho girato […] Carlo e Malik è un poliziesco sui generis». Prossimamente uscirà la seconda stagione di questa serie, che nel frattempo ha finito col chiamarsi Nero a metà. Cambiare il titolo è stato comunque un grande passo avanti?   

Hanno cambiato con un titolo che sinceramente non comprendo molto. Sarà un mio limite? Eppure penso che dovrebbe essere talmente normale, non dovremmo neanche definire un attore «di colore». Le nuove generazioni sono figlie di stranieri ed emigrati arrivati in Italia tempo fa. Come me. Sono italiani. Se ci tagliamo un braccio, il sangue è rosso per tutti.

«Come me», dicevi…

Sì, come me. Io vengo da un Paese in cui abbiamo sempre avuto una percezione multietnica, soprattutto dopo la caduta del Muro. Quando ho letto la notizia del «ragazzo rumeno» (che però vive in Italia da quando ha 6 anni) classificato al primo posto al test d’ingresso della facoltà di Medicina, ho pensato: quando tra 15 anni scoprirà il vaccino contro una malattia rara, allora però titoleranno che è stato «un italiano» a fare la scoperta.

Ti sei mai sentita straniera in Italia?

Io non ho mai percepito del razzismo nei miei confronti, ma all’inizio ho pensato di dover dimostrare più di quanto faccia un italiano. L’Italia non è un Paese davvero razzista, i Paesi razzisti sono altri. Ma avevo comunque bisogno di far capire che meritavo di stare qui. Che rispettavo questo Paese, che lavoravo duro, che pagavo le tasse e mi comportavo bene. Cercavo di dimostrare gratitudine. Poi ho capito che io questo Paese lo amo e lo rispetto, spesso più di quanto faccia un italiano. Allora mi sono detta: adesso ho largamente dimostrato all’Italia di meritarmela. Il fatto di essermela conquistata, però, me la fa apprezzare di più.

Anche per tua figlia è così?

«Tu sei nata a Roma – sto cercando di spiegarle – Quindi per te Roma è scontata. Ma non darla mai per scontata». È come per ‘i soldi di papà’, se ci sono li prendi e li spendi. Ma se hai iniziato a lavorare come cameriera a 16 anni, quando ti pagano, prima di spenderli, quei soldi te li rigiri parecchie volte nelle mani.

La prima cena fuori senza preoccuparsi di centellinare i soldi prima di ordinare, è un momento che non si dimentica.

Te lo ricordi? Anche io me lo ricordo bene. Gli italiani hanno ereditato uno dei Paesi più belli del mondo, ma io me lo sono sudato. Ho lasciato il mio di Paese, ho affrontato un viaggio in pullman di 22 ore, sono arrivata senza parlare la lingua, ho iniziato a studiare e a lavorare per pagarmi quegli studi. Io sono venuta qui per lavorare, poi è arrivato un marito e dopo una figlia. Quindi ancora oggi, quando la sera giro per Roma, per me è già tutto.

Oggi sei felice?

Quello che si è appena concluso è stato uno dei momenti più felici. L’Allieva per me è stato un periodo bellissimo. Il set è stato una sorpresa, la troupe e i miei colleghi del cast sono stupendi, proprio come li vedi. Ale e Lino (Mastronardi e Guanciale, ndr) portano una grande energia, amano quel set e io l’ho amato subito insieme a loro.

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