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Silvia Salemi: «Hanno provato a tarparmi le ali: ora torno con Chagall» [INTERVISTA ESCLUSIVA]

È un percorso costante verso le più differenti forme espressive quello portato avanti da Silvia Salemi nel corso degli ultimi venticinque anni. Quella che, a metà anni ’90, si presentò come una piccola star della gloriosa stagione di Sanremo e del Festivalbar (ma anche di Castrocaro, che la lanciò nel 1995), è oggi un’artista e comunicatrice a tutto tondo, per la quale la musica rimane sopratutto un punto di partenza.

Dopo i fasti dei primi anni, Silvia Salemi ha iniziato a differenziare la propria attività, portando avanti una carriera così densa da sembrare la sintesi di quattro personaggi differenti. Rallentando i propri lavori musicali già nel duemila, con Gioco del Duende e Il Mutevole Abitante del Mio Solito Involucro, la musicista siciliana scoprì in sequenza la tv (lanciata addirittura da Pippo Baudo) e la radio: come conduttrice, inviata, esperta.

Nonostante la densità di impegni, il percorso di Silvia Salemi trovò persino lo spazio per una pausa personale, tra il 2007 e il 2014; poi il ritorno, sempre più concentrato sulla tv, stavolta con focus sui giovani artisti dei nuovi talent. Il successo delle sue apparizioni a Tale e Quale ha aperto le porte all’ennesima fase della sua carriera: da giurata televisiva, a ospite d’onore, fino ai debutti come scrittrice e autrice teatrale. E la musica? Non è mai passata in secondo piano, come confermato il grande ritorno del 2017 con 23, e le più saltuarie prove degli ultimi anni. A Era Digitale (2019) è seguito adesso Chagall, nuovo singolo e forse punto di partenza per un nuovo progetto ancora.

Dai riferimenti culturali all’estetica mediterranea del look, in Chagall ritroviamo i tuoi stilemi intatti. Come mai questo bisogno di tornare a cantare?

L’ultima mia produzione ufficiale risale al 2019, un anno fa, per Ora o Mai Più. Quest’anno ho rafforzato questo nuovo passaggio con un singolo in un certo senso figlio del post-lockdown, ma libero da quel contesto, dalle collocazioni storiche. Volevo raccontare qualcosa con l’ispirazione della pittura, quindi sono partita con punti fermi come il sogno, l’immagine, l’arte. Ne avevo bisogno.

Che ruolo ha avuto un periodo come quello del lockdown?

Io l’ho voluto liberare da tutto questo. La fase è quella che è, ma ho preferito che non ne fosse legato. Avrebbe potuto uscire l’anno scorso o tra due anni: la pittura, l’amore, la riconoscibilità di un sentimento, è tutto eterno, non ha una collocazione precisa. Poi fatalmente ci troviamo in questo periodo, non dei più facili. Ma anche con la bellezza e l’arte si superano questi passaggi storici.

Come vai a scegliere, se una scelta c’è, quando tornare alla musica? Perché i tuoi dischi escono più raramente rispetto alle altre attività.

Chagall è collocabile in un contesto e in un nuovo album. Io da qualche anno faccio vincere anche altre parti di me che premono per uscire, tutte diverse facce della stessa medaglia: l’esigenza di comunicare. Un’esigenza, una necessità, una voglia di stare con il pubblico. È da qui che nascono il libro, la radio, il teatro, sono tutti comunicanti emozionali per restare agganciati alla gente. Io devo essere sempre in contatto con il pubblico per raccontarmi, ma non potrei farlo ogni mese, ogni dieci giorni. Mi piace poter stare dodici mesi in radio e poi avere un periodo di silenzio. Ora posso parlare con la gente, sentire gli umori, raccontare una canzone, descrivere un’emozione. Anche la radio o raccontarsi in un libro è questo.

Vedi questo come l’inizio di un’altra fase creativa?

Per me c’è sempre una continuità in tutto quello che ho fatto. Nulla è slegato. Io sono la stessa bambina di quando avevo tre anni, solo cresciuta, e quella stessa entità ha fatto tante cose in questi anni. Ora è arrivata l’età per fare qualcos’altro, ma mi ritrovo comunque in quello che facevo in passato. I geni sono gli stessi, la pelle e le ossa sono quelle, sebbene cresciute. Ma c’è sempre una tensione romantica ed emotiva verso il futuro.

In che direzione stai portando questi nuovi pezzi?

L’omaggio all’arte è prepotente e preponderante, mostrare alla gente che partendo dall’osservazione si può anche parlare d’altro. Tutte le cose si somigliano e sono figlie della stessa madre, la madre-emozione e il padre-cuore. La necessità di fare arte, poi che sia quella dell’artigiano, del borsaio, che crea partendo da una cosa che non esiste a qualcosa che esiste, fino ad arrivare a Raffaello. C’è tutto un fil rouge, una mente umana che dà al mondo qualcosa che prima non c’era. È un parto.

Ti eri assentata dalla musica per quasi un decennio, e hai ritrovato ora un mondo discografico completamente stravolto.

Io me n’ero già resa conto nel ’97, quando arrivò l’mp3. Tutti i miei musicisti, navigati, grandissimi turnisti, quando si affacciò la parola masterizzazione, ebbero una sollevazione popolare. Non poteva passare, non era giusto. Eppure man mano il digitale, l’elettronico, il computer, tutto si è mixato. Si capì che andavamo verso una perdita dell’innocenza, verso qualcosa di freddo. Ma le cose si possono anche mischiare, e nel melting pot, nella miscellanea dei suoni, nasce sempre qualcosa di grande. Perché c’è sempre una mente dietro, e delle mani che lo scaldano. Un producer giovane di vent’anni si emoziona con il suono di un campionatore, anche quello è genio. Che c’è di giusto o sbagliato?

L’importante è non perdere il contatto con la gente. Poi che ci arrivi con lo streaming, che ci arrivi con un cd o un libro non è importante. Noi siamo come piccioni viaggiatori, l’importante è che il messaggio arrivi. Non ne ho mai sofferto. Mi sconvolge di più un talento sfruttato per un anno, e dietro quell’artista la persona che non troverà più il suo cammino. Un ragazzo che non avrà più voglia di vedere i suoi coetanei, che si è sentito un Dio per qualche mese e non è riuscito a tornare indietro. Questi sono i veri problemi psicologici, di questo avrei più cura e attenzione.

A questo proposito, oggi la fame di contenuti è enorme. Tu sei stata uno degli ultimi talenti giovani lanciati da Sanremo, dove sei stata un volto fisso per diversi anni. Piattaforme come le Nuove Proposte hanno ancora quel peso?

Secondo me non c’è una piattaforma migliore o peggiore di un’altra. Ci sono però volontà diverse a monte. Se c’è il producer giusto e il talent giusto, X Factor, De Filippi o Nuove Proposte, va bene tutto. Ma c’è sempre una meritoria prova del nove rappresentata dal palcoscenico. In due ore di live se non c’è la qualità non c’è, altrimenti viene fuori. Da ovunque si provenga, che tu venga da Area Sanremo o da un talent, se c’è la qualità viene fuori. Io credo fermamente nella meritocrazia nella musica. Se sei un rapper chiaramente non c’entra la potenza vocale, contano i testi, la fruibilità, ci sono altre dinamiche. Ma il cantante che deve cantare, o ha il talento o non ce l’ha.

Possono aiutarti o abbandonarti quanto vogliono. Ma quando sei sul palco e dici qualcosa piuttosto che un’altra, sei inarrestabile. Come nello sport, se vinci non ce n’è. Il mio primo anno un discografico provò a tarparmi le ali. L’anno dopo proposi A Casa di Luca, e quella era troppo forte, non ce la fecero a bloccarmi.

Che era successo?

Credeva in un progetto a lui più vicino e più caro, e pensò di affossarmi. Ma le cose o ci sono o non ci sono. Ti dico con onestà, nella musica c’è posto per tutti. Come in una dispensa di alimenti, ci possono entrare anche più tipi di sali simili, poi la gente si sceglie il suo. Ma se il prodotto è più buono di un altro non è colpa sua. Tu bada ai tuoi. Il pubblico è sovrano, deve poter decidere: se vuole la qualità, o pagare meno per convenienza… il mercato dà spazio a tutti, il settore, quello che vuoi. Ognuno deve ritagliarsi il suo spazio, giusto che sia così.

Infatti ti sei avvicinata molto ai talent musicali.

Il mio anno da Presidente di Giuria a Castrocaro, nel 2015, c’erano Malgioglio e Max Tortora, quindi insomma, gente già fatta. Devo dire che mi sono divertita molto proprio perché sapevo cosa vivessero dall’altra parte. Conoscevo l’importanza del dare voti, ma sapevo perfettamente anche cosa succedeva nella testa, nella gola e nell’animo dei ragazzi sul palco. Grandissimo divertimento, ho visto un’umanità non da poco. Ti smuove pensare che vent’anni fa ti trovavi nello stesso punto. Io iniziai proprio lì, nel 1995. C’è un cambio di prospettiva. Tu devi essere umano, sapere cosa patiscono. Non lavoriamo in miniera o in oncologia, ma ci sono dei patemi artistici che è giusto vivere nella gavetta, e che mettono una bella strizza. Quindi bisogna averne rispetto.

È decisivo che in questi ruoli ci sia qualcuno che faccia effettivamente musica.

Look e immagini può giudicarli chiunque, una modella, un conduttore, è una questione di gusto. Ma per i fatti tecnici è giusto che a valutare ci sia gente con conoscenza, altrimenti è mischiare patate con le mele. Ci deve essere l’oggettività nella tecnica. Il ragazzo che viene e suona la chitarra o il pianoforte e si scrive le canzoni, io lo vedo che ha studiato, si è preparato, ha scritto. C’è più percorso. Dietro questi musicisti ci sono dei bambini che anziché stare con i gli amichetti a giocare alla playstation hanno sottratto tempo per imparare uno strumento, e io devo tenerne atto. Poi se devo guardare i vestiti, il look, ci sta, è fatica e ricerca, ma le logiche di insieme toccano a chi fa quel mestiere. Chi giudica andatura, o pettinatura, o rossetto, pur rispettabili, mantiene un giudizio limitato. Nessuno è superiore all’altro, però si spera che chi parla di musica ne capisca un po’ di più.

Solo un anno fa avevi iniziato a sperimentare con il teatro, e ora la situazione è quella che è…

Quest’estate provammo a rifarlo con i Teatri in Pietra, ma non ci stavano neanche loro con i numeri. La gente doveva stare distanziata. Devi fare il discorso finanziario, pensai ai produttori che devono far quadrare i conti. Non si vive solo di emozione. Non giudico chi ha deciso distare fermi un giro. Vedo ancora una lunghissima pausa sanitaria. Forse non è così grave per riportarci a casa, ma i dpcm si prolungano, e finché va così stiamo fermi. Io non faccio un live dallo scorso dicembre, un concerto di Natale… insieme ai miei colleghi, più tutti gli operatori e i lavoratori dello spettacolo, mi domando come faremo. Nessuno ha welfare, nessuno ha pensioni, è una piaga. Io la musica ho ricominciato a farla anche in quest’ottica, quando fai un prodotto chiami ingegneri, producer, tecnici, il lato positivo è questo. Ma i live non ci sono.

Ci sarà un ritorno a quel tipo di attività?

Sto scrivendo un prodotto assieme a un regista e conduttore italiano, una monografia importante, con una grande voce. Ma al momento è tutto da preparare, non prima di marzo. Ci auguriamo di stare meglio tutti, non soltanto io. Anche il disco si farà, ma per il momento son impegnata con Radio 2 e con un programma nuovo a gennaio. Faccio l’esperta musicale, anche se è un brutto termine… Faccio gustare dei piatti, diciamo così. Ogni sera faccio una selezione, racconto un brano, come nasce, come va in classifica, come arriva al pubblico. L’altro giorno ho scelto Aretha Franklin e Respect, il brano che l’ha lanciata: la prima voce femminile al mondo, insuperabile, nave scuola per chiunque voglia fare questo mestiere. E lì avrei potuto parlare ore. Ma ho dovuto tagliare…

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