Poter dialogare con Roberto Capucci significa immergersi in una dimensione suggestiva, fatta di bellezza, eleganza e sogni. Il suo è un racconto stilistico fuori dal tempo in cui il vestito è inteso come una vera e propria opera d’arte. Le creazioni di Capucci costituiscono un unicum nel panorama della moda. Veri e propri capolavori, alcuni di essi patrimonio dei Beni Culturali, ospitati nei musei più importanti del mondo. Sculture plastiche, ma anche tourbillons di plissé, preziosissimi taffetà, sete in sfumature originalissime.

Osare l’impossibile non è mai stato un problema per il grande Maestro d’alta moda. Roberto Capucci festeggerà il prossimo mese, il 2 dicembre, 90 splendide primavere, 70 delle quali passate a creare straordinari vestiti per l’universo femminile che resteranno nella storia del costume della moda. Lo “scultore e architetto” degli abiti, definito da Dior “il miglior creatore della moda italiana, un prodigio”, ha vestito Silvana Mangano, Marylin Monroe, Rita Levi Montalcini, Oriana Fallaci, le principesse romane, l’aristocrazia europea. I suoi abiti sono capolavori unici, come quelli di Leonardo, Michelangelo o Borromini, custoditi presso la Fondazione Roberto Capucci a Villa Manin a Codroipo in provincia di Udine.

Roberto Capucci ritratto ph. credits: Gianluca Baronchelli

L’intervista esclusiva al grande Maestro Roberto Capucci per Velvet Mag 

Come ci sente alla soglia di un compleanno così importante?

Il mio lavoro dal 1950 fino ad oggi mi ha dato una gioia infinita, creo incessantemente, ma la parte finanziaria per me non deve esistere, mi interessa solo l’aspetto artistico. Persino oggi, a quasi 90 anni, i miei disegni, le mie idee mi danno tanta felicità. A causa di questa atrocità del coronavirus non esco mai di casa, ma utilizzo il mio tempo per leggere, creare, riflettere.

Quest’estate abbiamo potuto ammirare, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, i suggestivi costumi che ha realizzato per lo spettacolo “Le creature di Prometeo. Le creature di Capucci”. Come nasce questa singolare collaborazione?

Mi ero recato a Spoleto ai tempi di Rudolf Nureyev ed ho provato una grande felicità nel poter tornare al Festival dopo tanti anni, era la prima volta che mi esibivo lì. Lavorare sulle celebri note di Beethoven eseguite dall’Orchestra del Carlo Felice di Genova, realizzando i vestiti per i quindici danzatori, è stato fantastico. Il teatro era strapieno, ho ricevuto applausi a non finire. Sono sempre discreto, cerco di non apparire mai. Sono gli abiti che devono parlare, io cosa c’entro.

Roberto Capucci disegno per lo spettacolo: “Le creature di Prometeo. Le creature di Capucci”

A soli ventisei anni Christian Dior l’ha definita “il miglior creatore della moda italiana”. Come rimase?

Mi ispiro a tutto e a niente. Da bambino disegnavo i vestiti per la mia famiglia. Ho studiato al Liceo Artistico di via di Ripetta. Successivamente ho trasposto gli studi al lavoro. Ho realizzato l’abito costruito.

A tal proposito ha dichiarato: “Non basta che un vestito sia bello, dev’essere costruito come un palazzo, poiché come un palazzo esso è la materializzazione di un’idea”.

Invece che adoperare mattoni utilizzo sete, plissé. La costruzione di un abito è un aspetto molto affascinante.

ph. credits: Claudia Primangeli

Nel 1958 ha creato la famosa “linea a scatola” per la quale ha ricevuto a Boston l’Oscar della Moda. In Italia invece la criticavano accusandola di aver imprigionato il corpo della donna in una cassa da morto. Come è nata questa singolare creazione e perché si creò questo divario così netto tra la stampa americana e quella italiana?

Ero un po’ stanco di vedere questi vestiti tutti uguali, da “sciuretta”. Azzardai questa linea costruita da quattro angoli. Dopo aver ritirato l’onorificenza negli Stati Uniti mi consegnarono anche un tributo a Milano. Lo accettai, ma ricordai, al momento della premiazione, le feroci critiche ricevute. Il mondo della moda mi ha sempre messo da parte.

Perché secondo lei?

Tutt’oggi faccio le mie piccole collezioni che presento alla clientela. Sono entrato nell’interesse dei giornalisti della storia del costume della moda. Faccio ormai parte dell’universo dell’arte, che adoro. Vivo d’arte e di musica, di un mondo che mi appartiene maggiormente. A volte leggo delle recensioni di moda ma non conosco nulla. Anni fa mi invitò la Contessa Crespi a Milano per una mostra il cui ricavato era destinato per il Fai. Mi chiamò Philippe Daverio, allora assessore alla cultura milanese, per avvisarmi che c’erano dei problemi sulla mia partecipazione. Esposi quindi a Novara anziché nella città meneghina.

“Linea a scatola” ph. credits Claudia Primangeli

Perché questa freddezza da parte della stampa milanese?

Ci sono tanti nomi della moda, probabilmente alcuni di loro hanno paura di un confronto. Non ho mai provato invidia per nessuno.

Le “capuccine”, le donne della nobiltà romana, l’hanno sempre adorata però.

Questo termine l’ha inventato la giornalista Irene Brin. Allora erano bei tempi, ora è rimasto solo il ricordo. Ho avuto delle amicizie meravigliose: con Donna Caracciolo, con Donna Simonetta Colonna di Cesarò che ho vestito fino alla fine dei suoi giorni. Con Simonetta ci sentivamo quotidianamente, abbiamo fatto dei viaggi meravigliosi in Siria e nello Yemen. Ho vestito la Principessa Pallavicini, che nel 1954 mi diede delle precise indicazioni.

Quali?

No al nero, che fa subito lutto, sì ai colori, alla vita stretta, agli abiti accollati e con la coda per la sera. Prima di morire la nobildonna, che mi fece ottenere una clientela importantissima tra cui la Principessa Isabelle Colonna, disse alla figlia di restituirmi tutti gli abiti che le avevo realizzato. È un mondo finito, purtroppo. Oggigiorno c’è  tanta invidia soprattutto nella moda. Tanti stilisti che si copiano. Non mi arrabbio mai, lo farò il giorno in cui non mi verranno più idee.

Attualmente come si tiene impegnato?

Sto preparando una piccola collezione dedicata alla Vergine Madre, perché quando mi reco nelle chiese vedo queste Madonne mal vestite. Ho realizzato dei disegni tanto tempo fa. Quando lavoro non mi spaventa nulla, adoro tutte le fasi dell’atto creativo. Prendo ispirazione dalla mia testa, dal mio cuore, non penso a nulla di brutto quando disegno. Mi sono reinventato realizzando i vestiti per la danza e disegnando le ceramiche.

Roma, 1957. Roberto Capucci, qui a 27 anni, nel suo atelier con l’attrice Esther Williams nel corso di una prova per la realizzazione dell’abito “Nove gonne”, in taffetas di seta

È vero che uno dei suoi abiti iconici, “Nove gonne”, in taffetà rosso, è nato dal gioco di cerchi concentrici che si sviluppa sulla superficie d’acqua lanciando un sasso?

Sì, questo vestito l’ho immaginato in campagna, buttando un sasso nello stagno. La fantasia della mente mi ha fatto uscire fuori i cerchi concentrici che poi ho riprodotto su stoffa. Lo indossò la mia mannequin Loredana per la pubblicità della Cadillac. Gli americani se ne innamorarono follemente. Una copia di questa creazione fu poi acquistata da Esther Williams. Alcuni vestiti non li vendo e fanno parte dell’archivio Roberto Capucci.

Roberto Capucci mostra  “L’Elogio della Bellezza”, all’interno della Galleria Colonna, al centro l’abito “Nove gonne”, ph. credits Massimo Listri

Lei fu il primo designer non americano a vestire Marylin Monroe. Come prese vita la collaborazione con la famosa diva americana?

Marilyn conobbe il mio lavoro grazie al suo fotografo Milton Green, amico di Loredana Pavone, la mia collaboratrice. Milton prendeva i disegni con i campioni della stoffa in atelier e li faceva vedere alla Monroe che me li ordinava, fornendomi le misure. Purtroppo non ho mai conosciuto la diva, alcuni di questi abiti sono stati battuti all’asta da Sotheby’s ma non sono riuscito a riacquistarli.

Con le attrici italiane come andò?

Venne da me Anna Magnani tramite Valentina Cortese, una mia cliente. Prendemmo appuntamento in atelier in Via Gregoriana, all’epoca avevo cinque vendeuse, figlie di ambasciatori. La Magnani guardò le ragazze, tutte elegantissime, ed esclamò: “A me questo ambiente non piace per nulla!”. Si aspettava dei ragazzi ad accoglierla. Non mi salutò e se ne andò via. La direttrice dell’ atelier mi disse che aveva ordinato cinque vestiti, ma diedi disposizione di non produrli, perché avevo capito che non sarebbe nato un bel rapporto. La famosa attrice voleva persino incrociare il suo bassotto con quello di mia sorella. Non se ne fece nulla. Non ho voluto vestire nemmeno Gina Lollobrigida e Monica Vitti, due caratteri difficili.

Silvana Mangano

Con Silvana Mangano invece ci fu un grande sodalizio.

Una donna estremamente chic. Arrivò accompagnata da Pasolini, per scegliere gli abiti di “Teorema”, era il 1968. Ho avuto una venerazione per Silvana fin dall’inizio, era magrissima. Mi raccontò che quando si era rivista in “Riso amaro” si trovò bruttissima. Da lì in poi iniziò a dimagrire, voleva essere sofisticata.

Tra le indimenticabili creazioni di Roberto Capucci figura anche lo scenografico abito-scultura “Oceano”, esposto al padiglione italiano dell’Expo di Lisbona nel 1992. Quanto tessuto è servito per realizzarlo?

Ben 172 metri di plissé, un record! Mi ordinò il vestito il Ministero degli Esteri per l’Expo. La creazione doveva ricordare il mare. Volevano trattenerlo a Lisbona ma l’Italia non glielo concesse. Alla fine me lo restituirono. Una copia l’ha acquistata una mia cliente. Il marito quando l’ha vista ha affermato: “Sei così bella che ti risposerei!”.

Roberto Capucci abito “Oceano”

Una giovanissima Oriana Fallaci le scrisse l’articolo più importante della sua carriera, il primo. Come avvenne il vostro incontro?

Si occupò di me a Firenze in occasione della mia prima sfilata nel 1951, presso la residenza del marchese Giovanni Battista Giorgini. Successivamente diventammo grandi amici con Oriana. La rivista l’Europeo la mandò poi a seguirmi a Parigi, dove all’epoca avevo un atelier. Fece un altro articolo, dal tono ironico, dichiarando: “Roberto Capucci il traditore con le forbici”.

Che esperienza è stata quella de La Ville Lumière?

Bellissima, avevo solo personale francese. La première, che aveva lavorato da Dior, aveva un carattere terribile, si rivolgeva alla Duchessa di Windsor dicendole: “Madame s’il vous plaît, ne touchez pas“.

Perché poi è tornato in Italia?

Mia madre, che adoravo, aveva avuto in custodia la figlia di soli due mesi nata dall’unione di mio fratello con Catherine Spaak. Chiusi l’atelier di Rue Cambon per starle vicino. A quei tempi abitavo al Ritz.

Come nasce il grande amore per il plissé?

Adoro la natura. Le croste degli alberi mi affascinano. Il plissé me le ricorda, è un tessuto che posso muovere, produce ombre e luci. L’ho utilizzato persino per i quindici costumi realizzati per il Prometeo. Amo anche la seta, il mikado, perché si possono torturare, sgualcire tra le mani. Ho fatto plissettare persino un cappotto lungo di lana grossa che ho realizzato per una mostra sull’artigianato a Firenze dalla Principessa Corsini.

Nelle creazioni firmate Roberto Capucci predomina sempre la tinta unita e mai le fantasie, come mai?

Le tinte unite rendono i tessuti architettonici. Quelle a fantasia vanno rispettate, non si possono tagliare i fiori. È un fatto un po’ di egoismo.

Nel 1980 ha deciso di uscire dalla Camera della Moda: si è mai pentito di questa scelta?

No, mi sono dimesso perché bisognava fare due collezioni all’anno. Se realizzo dei vestiti che mi costano ore di lavoro come faccio a rispettare queste tempistiche? Voglio lavorare in libertà, a Berlino ho presentato delle creazioni che mi hanno richiesto due anni di fatica.

Proprio l’epidemia del Covid-19 ha messo in luce quanto siano stati troppo serrati i tempi di presentazioni delle collezioni.

Bisogna dare allo stilista la forza e la possibilità di lavorare come vuole e di non essere soggetto a rigidi calendari.

È rimasta indimenticabile la meravigliosa esposizione “L’elogio della bellezza”, presentata a Palazzo Colonna nel 2000. Cosa ricorda di questa esperienza?

Sembrava che la Galleria Colonna, allestita con i miei sessantacinque abiti, fosse piena di persone pronte ad andare ad un gran ballo. I Principi Colonna mi invitarono ad esporre, organizzammo poi un ricevimento in giardino. Nella mia carriera ho ottenuto cose eccezionali, senza aver mai chiesto nulla. Ho avuto delle soddisfazioni straordinarie, ma ho anche lavorato con onestà e con amore.

Roberto Capucci mostra “L’Elogio della Bellezza” presso la Galleria Colonna, Sala dell’Apoteosi di Martino V, ph. credits Massimo Listri

Recentemente lo stilista marchigiano Vittorio Camaiani le ha dedicato la collezione primavera/estate 2020 intitolata: “Camaiani nelle stanze di Capucci”. Che consiglio si sente di dare ai designers di oggi?

Di fare dei vestiti portabili, belli, con un allure di alta moda, che siano puliti ed eleganti. Se si desidera fare delle creazioni di haute couture bisogna essere super creativi e particolarissimi. Dividere sempre la parte vendita dalla parte folle.

Per concludere: cosa rende una donna elegante?

È questione di personalità e di carattere. Non c’entra il fisico, la magrezza e l’età. Ci sono clienti che comprano solo per avere l’etichetta Capucci. È importante trovare invece delle forme e dei colori che donino. La Principessa Pallavacini, ad esempio, non era bella ma aveva un carisma meraviglioso. Ciò che rende una donna indimenticabile.

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