Ti travolge con la sua energia contagiosa e quell’accento toscano che, a chi scrive, fa sempre tanta simpatia. È un fiume di entusiasmo e grinta, voglia di vivere e trasmettere positività alle persone. Non è un caso che le parole che ricorrono di più durante la nostra chiacchierata telefonica siano “colori” e “vita”, parole che ben descrivono Chiara Francini, con i colori dei suoi occhi chiari che illuminano un volto sorridente incorniciato da una folta chioma castana, e tutta la vita che trasuda ed esprime.
Colori e vita che emergono prepotenti anche nel suo ultimo libro “Il cielo stellato fa le fusa”, una “commedia umana” (come lo definisce la stessa autrice), leggera e brillante, grintosa e vitale, immaginifica e sognante. La storia? Quella di otto personaggi, provenienti ognuno da un luogo e da un milieu diverso, che si trovano nella bellissima villa Peyron al Bosco di Fontelucente. Siamo nel fiesolano, in occasione di un convegno su Cibo e Cultura dal titolo «Hic porcos coctos ambulare» (Qui passeggiano i porci belli e cotti). Ad accoglierli la strepitosa governante Lauretta e il gatto Rollone Rosa.
A causa di circostanze non meglio identificate, i partecipanti si trovano rinchiusi per sei giorni nella splendida magione (“In città e in tutto il Paese è scoppiata un’altra volta. Non ci sono soluzioni alternative: bisogna barricarsi”: come non pensare alla pandemia?). Decidono così che il modo migliore per intrattenersi è quello di raccontarsi delle storie: un tema al giorno, per sei giorni e 10 narratori. Già, perché al gruppetto di cantastorie si arricchisce della presenza di Lauretta e anche del gatto, nel senso che il sesto e ultimo giorno tutti dovranno raccontare delle storie che abbiano per soggetto e narratore proprio un felino.
“Il cielo stellato fa le fusa” è una ventata di aria fresca in un momento in cui abbiamo bisogno di leggerezza, di favole che accompagnino le nostre giornate, di recuperare un po’ di quello spirito creativo e inventivo che forse abbiamo perso, travolti dalla pesantezza e drammaticità dei giorni che stiamo vivendo. E la penna vivace, vitale e vigorosa di Chiara Francini (attrice diretta al cinema da Leonardo Pieraccioni, Fausto Brizzi ma anche Spike Lee e Pietro Marcello) è una sferzata di energia e forza. Per qualche pagina ci permette di staccare la spina e trovarci con il sorriso sulle labbra mentre scorriamo le sue righe.
Chiara, la dedica del libro recita “A tutti i diversi. A tutti noi”. In che modo ti senti diversa? E perché questa dedica?
Essere diverso significa essere un essere umano, siamo tutti magnifici esemplari di diversità. Tutti abbiamo delle caratteristiche peculiari, delle ferite, dei graffi che sono nostri tratti distintivi e ci rendono assolutamente unici. La dedica è all’umanità intera, a tutti gli essere umani che devono essere consapevoli e godere dell’unicità che la vita ci ha dato. Poi ho inserito una poesia di Sandro Penna che amo moltissimo e mi piace sempre ricordare: «Felice chi è diverso essendo egli diverso. Ma guai a chi è diverso essendo egli comune.»
Sei giunta al tuo quarto romanzo. Dal 2017 ad oggi, ogni anno hai pubblicato un libro. Sei laureata in lettere, con tesi in italianistica, sei autrice oltre che affermata attrice e conduttrice. La scrittura è diventata per te un’esigenza?
È sicuramente la modalità con cui riesco ad esprimere meglio tutti i colori che ho dentro. Scrivere per me è esattamente come vivere, risponde a un’esigenza che è propria di tutti gli esseri umani e mia in particolare: la necessità di comunicare, condividere ed essere amata. La scrittura è un dialogo, mai come in questo momento è chiaro che il dialogo (inteso come condivisione, comunicazione tra più individui) è alla base della vita, della sopravvivenza. Condividere indica anche la bellezza di riconoscere come altri essere umani si ritrovino nei colori che tu metti in ciò che scrivi ed esprimi. Scrivere è un dialogo che si fa con il resto del mondo, un prendersi per la mano.
Certo, il lavoro al cinema, a teatro, alla televisione implica essere in squadra, condividere tempo, spazi, azioni con altre persone. La scrittura è un’attività solitaria. Come si conciliano in te queste due esigenze?
Credo che entrambe siano una modalità di comunicazione. Si scrive da soli ma si dialoga, e per dialogare c’è bisogno di qualcun altro: la scrittura in realtà è un grandissimo mezzo di comunicazione e dialogo. Uso spesso una metafora che rende bene l’idea: è come se il cinema e la tv fossero telefonate d’amore, mentre la scrittura e il teatro sono degli abbracci. Intendo dire che la scrittura (intesa anche nella bellezza di andare a presentare i libri) e il teatro esprimono una comunicazione più carnale, più empatica. La televisione e il cinema arrivano in modo più immediato. Sono comunque tutti mezzi che compongono questo esemplare di donna che sono!
In che modo l’attività letteraria aiuta e influenza la recitazione, e viceversa?
Quando scrivo vado molto ad orecchio. La parte più difficile di un romanzo è riprodurre i dialoghi, e in questo mi aiutano molto la musicalità, quella capacità di solfeggiare, in un certo senso, che mi deriva dall’attività attoriale. E poi il tipo di scrittura che utilizzo funziona molto per immagini, tutti i miei libri sono parole che quasi si possono vedere, che io immagino già come se fossero sullo schermo.
A tal proposito: se il tuo libro diventasse un film, da chi ti piacerebbe fosse diretto?
Ah, bella domanda! D’istinto, a cuore ti direi Paul Thomas Anderson, il regista di “Magnolia”. Quel film ha toccato corde della mia sensibilità che neanche io credevo qualcuno avrebbe potuto stuzzicare e carezzare così. Di sicuro, ragionandoci un po’, mi verrà in mente anche il nome di un regista italiano, ma così a bruciapelo mi viene in mente Anderson!
Ho letto che in qualche modo questo libro ti è stato commissionato dalla tua agente letteraria americana. È vero?
È andata proprio così! Mi ha chiamato Vicki Satlow, la mia agente letteraria americana, e mi ha detto, col suo forte accento inglese “Tu devi scrivere il Decameron”. All’inizio sono rimasta sorpresa, poi ho capito che era un’idea giusta perché mi dava l’opportunità di dar agio (come si dice in toscano) a questa grande curiosità e passione che ho per la vita. Le storie che ho inserito sono vicende che hanno attratto la mia attenzione, alcune fanno parte di eventi storici realmente accaduti, altre sono inventate. Questa sfida mi dava la grande possibilità di esprimere al meglio la mia capacità di connettere, che credo sia la grande caratteristica che ho, forse il mio più grande pregio: alla fine quello che volevo, era scrivere una commedia umana che facesse vedere questo frittatone che siamo.
Infatti, il ‘cielo stellato’ che nomino nel titolo è una ricetta tipica ti Campi Bisenzio che ricorda un po’ una frittata. Ma rimanda anche a una citazione di Kant (“Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse- Il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me”). “Fa le fusa” si riferisce al fatto che un gatto è la voce narrante, ma allo stesso tempo indica un tremore, un godimento. La copertina del libro è un’immagine che rimanda a un famoso quadro di Hieronymus Bosch e fa vedere un gattone accanto al quale ci sono persone che vivono e muoiono, soffrono e ridono, mangiano o dormono. Sulla schiena del gatto troviamo un angelo buono accanto a uno cattivo. Ecco, tutto questo è commedia umana, quella che poi, in maniera unica è inarrivabile, ci ha raccontato il Boccaccio nel suo “Decameron”.
Uno dei protagonisti del libro è Rollone il Vichingo da tutti detto Rolando Rosa, un gatto che parla e diventa quasi maestro di cerimonie. I può dire che funga da osservatore esterno che guarda con obiettività e ironia quello che gli accade intorno, registrando le bizzarrie degli esseri umani?
È esattamente così. Mi faceva impazzire l’idea che questo gatto guardasse con ironia e sarcasmo, con filosofia e umanità gli esseri umani. Adoravo l’idea di inserire questo gatto filosofo un po’ stoico, colto e saggio ma anche profondamente carnale, dotato di un’ironia monicelliana e di tutte le qualità di libertà, mistero e seduzione che hanno i gatti.
Un altro personaggio descritto con grazia, ironia, affetto e divertimento è quello di Lauretta, la governante di Villa Peyton. In questo caso da chi ti sei lasciata ispirare?
Lauretta è di Campi Bisenzio come me e, a livello fisico, mi ricorda la bidella che lavorava nella mia scuola. È una donna che racchiude saggezza. Un grande bagaglio di esperienza, di motti ricchi di cultura popolare. È un personaggio come ne ho conosciuti tanti, mi ricorda un po’ mia nonna, un po’ mia mamma, e credo sia un exemplum che ritroviamo in ogni parte d’Italia.
Nei tuoi precedenti libri, “Non parlare con la bocca piena” del 2017, “Mia madre non lo deve sapere” del 2018 e “Un anno felice” del 2019, i temi trattati erano quelli della famiglia, del rapporto genitori-figli e dell’amore. “Il cielo stellato fa le fusa” parla di vita, e nel libro che stavi scrivendo (e che in futuro vedrà la luce) che temi tratti invece?
È una storia radicata in due periodi storici molto importanti per l’Italia: è una vicenda familiare non propriamente genitoriale ma anche una storia d’amore. Non ho proprio idea di quando riuscirò a finirlo, ma posso dirti che adesso la mia più grande speranza è che questo libro sia un bel romanzo di Natale e possa portare quella speranza che è il pane e il companatico di cui abbiamo bisogno. Mi piacerebbe che le persone leggessero una novella al giorno, vorrei che fosse il regalo di Natale che faccio agli italiani.
In questi mesi sei riuscita a girare anche due film: “Altri padri” di Mario Sesti, e “Addio al nubilato” di Francesco Apolloni. Ci vuoi dire qualcosa in più?
Sono state bellissime esperienze entrambe, sono due film molto diversi. “Altri padri” parla della fine di una storia d’amore all’interno di una famiglia in cui ci sono dei figli, e di quali siano le ripercussioni anche sulla figura materna e paterna. Un tema di grandissima attualità, e a me piace molto parlare di quelli che sono i tratti della società odierna.
“Addio al nubilato”, invece, è una commedia al femminile al cui centro c’è il sentimento d’amore supremo dell’amicizia. Soprattutto tra quattro donne che si conoscono dall’infanzia: in un frangente particolare fanno una sorta di excursus del loro passato su cui si confrontano. Credo che l’amicizia femminile sia uno degli arcobaleni più beli che si possano vedere, e partecipare a questo film mi ha dato grande gioia!