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Violenza contro le donne, parla l’Associazione Orsa Minore: «Non esistono “vittime tipo”» [INTERVISTA ESCLUSIVA]

Le Dottoresse Francesca Botta e Elena Perozzi ci parlano della drammatica realtà vissuta dalle vittime di violenza e del sostegno fornito da associazioni come L'Orsa Minore

Ogni giorno nel mondo, molte donne sono vittime di violenza fisica e psicologica. Dal 1999 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha istituto la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne; la data di tale ricorrenza è stata stabilita il 25 novembre. Si tratta, in questo caso, di una data significativa perché ricorda il massacro di tre sorelle nella Repubblica Dominicana, avvenuto proprio il 25 novembre del 1960. Da quel drammatico giorno la quarta sorella, sopravvissuta, si è sempre battuta nel tentativo di mantenere vivo il ricordo delle tre donne. Per approfondire i tratti di questa drammatica realtà, che ancora nel 2020 non cessa di essere attiva, abbiamo raggiunto le Dottoresse Elena Perozzi e Francesca Botta, psicologhe e psicoterapeute dell’associazione L’Orsa Minore, impegnata nel sostegno psicologico della persona.

Dottoressa Botta, in che modo possiamo definire L’Orsa Minore?

L’Orsa Minore è un’associazione di promozione sociale che si occupa del benessere psicofisico dell’individuo e della famiglia. Il nostro intento è proprio quello di offrire un’accoglienza alle persone in riferimento alle difficoltà che possono incontrare in tutto il ciclo di vita. L‘Associazione nasce dalla volontà di alcuni psicoterapeuti, di formazione psicodinamica, psicoanalitica e familiare, che volevano creare un luogo di cura ma anche di ricerca e formazione in ambito psicologico. Un luogo che potesse diventare un punto di riferimento nel territorio. Per questo, per noi diventa molto importante effettuare un lavoro di rete con le altre realtà che operano nel territorio, come per esempio tribunali, medici di famiglia, scuole, associazioni e altri servizi attivi.

Quali sono gli ambiti in cui si sviluppa l’associazione?

L’associazione opera su tre aeree fondamentali. La prima è l’area clinica, che va dalla consulenza psicologica alla psicoterapia rivolta ai bambini, agli adolescenti e agli adulti, sia a livello individuale che familiare. La seconda area consta di interventi rivolti alla famiglia. Partiamo dal sostegno alla genitorialità e alle coppie genitoriali molto conflittuali, al lavoro di mediazione familiare e fino alla consulenza tecniche per i tribunali. La terza area è più strettamente legata al prenderci cura di alcuni disagi particolari, per questo l’abbiamo chiamata “trattamento di disagi specifici”. In quest’ambito troviamo il sostegno psicologico ai bambini affetti dal disturbo dell’attenzione ed iperattività e dai disturbi specifici dell’apprendimento; il trattamento delle dipendenze, in diverse declinazioni (cibo, sostanze, gioco, relazioni, ecc); un progetto d’intervento sull’adolescente ritirato in casa; le problematiche legate all’adozione ed infine la violenza nelle relazioni intime e domestiche.

Dottoressa Perozzi, collegandoci agli ambiti curati da L’Orsa Minore, le chiedo, in particolare: come possiamo definire la violenza sulle donne?

La violenza sulle donne è una violenza soprattutto legata ad un pregiudizio. Il pregiudizio legato al genere femminile ha radici antiche ed è legato al fatto che in qualche modo, culturalmente, il genere maschile ha una funzione sociale protesa verso l’esterno. Ciò diventa una sorta di riconoscimento da parte delle comunità. Quindi il fatto che il genere femminile, in passato, fosse concentrato sull’allevamento dei figli, impone tutta una serie di convezioni che non bilanciano la relazione nella coppia, ma che creano uno squilibrio di potere all’interno di essa. Parlo di coppia, perché da un’indagine ISTAT emerge che il 70% delle violenze sulle donne viene effettuata da un partner o da un ex partner che, nella maggior parte dei casi, non ha tollerato la scelta della compagna di concludere la relazione. Ovviamente oggi la donna non è relegata in maniera esclusiva alla casa e alla crescita dei figli, così come l’uomo non è più colui che svolge la funzione di “regolatore familiare”. Purtroppo, però, le rigide convezioni stereotipate continuano a mantenersi nel tempo. È per questo che in un periodo storico carico di contraddizioni, la violenza contro le donne può definirsi una piaga sociale.

In base alla sua esperienza, quali sono le forme in cui la violenza si manifesta?

Esistono degli articoli di legge molto chiari sul fatto che la violenza contro la donna possa prendere forme diverse. Ovviamente quelle che più si manifestano sono la violenza fisica e la violenza sessuale. Ma c’è tutta l’area della violenza psicologica, della mortificazione, dell’isolamento e della dipendenza economica, vissute come sottomissione da parte della donna e come manifestazione di controllo da parte dell’uomo. Tutto scaturisce dal fatto che l’uomo non sembra riconoscere la differenza di genere come arricchimento, e cerca di sminuire ciò che fa una donna, proprio perché è donna. Tra le forme di violenza ci sono poi gli atti persecutori e lo stalking, fino ad arrivare a forme, culturalmente meno conosciute in Italia, come le mutilazioni genitali o il matrimonio e l’aborto forzati.

La Dottoressa Botta ci ha parlato anche della violenza domestica: esiste una differenza tra la violenza contro le donne e la violenza domestica?

Finalmente si parla anche di violenza domestica: le due cose infatti non vanno confuse. La violenza sulle donne è una violenza di genere, nei confronti di una donna in quanto donna. Quindi, proprio dal punto di vista dell’essere e del riconoscere nella donna degli aspetti insiti che fanno sì che l’uomo possa pensare di agire con violenza su di lei. La violenza domestica è invece un tipo di violenza agita all’interno di una relazione affettiva da parte di un partner o di un ex partner, quindi può avvenire sia da parte della donna nei confronti dell’uomo che viceversa. Da un certo punto di vista, la violenza domestica può contenere la violenza contro le donne, mentre la violenza sulle donne è qualcosa che avviene a prescindere dalla relazione stessa.

Concentrandoci sulla vittima, mi viene da chiederle se esistono delle caratteristiche comuni che delineano una vittima di violenza?

Direi di no. Mentre possiamo parlare di un “maltrattante tipo”, non si può parlare di una “vittima tipo”. Se si parla ad esempio di violenza contro le donne in una relazione affettiva, bisogna partire dal presupposto che le relazioni nascono così come tutte le altre. Per questo, quando parliamo di violenza, non parliamo di “quel tipo di donna” che sceglie un uomo violento. Il “maltrattante” infatti, si palesa come tale dopo un certo periodo, solo dopo che la relazione potrebbe essere riconosciuta come bella, appagante e piacevole.

Quello che accade, ad un certo punto, è che l’aspetto psicopatologico del “maltrattante” emerge, ed in quel momento interviene la violenza. Questo succede in una fase in cui già la relazione è consolidata. Ed è proprio per questo che, quando inizia veramente la fase del maltrattamento, spesso la donna cerca di giustificare, di migliorare, di aiutare il “maltrattante”, sottovalutando i gravi aspetti che hanno modificato la relazione. Quello che spesso le vittime dicono è: “… si comporta così perché non ha lavoro, i bambini sono vivaci e lo disturbano, non riesce a dormire la notte… per questo è nervoso e si arrabbia con me… poi però si scusa e capisce di aver esagerato…”. È una fase che può durare anche anni.

Alla luce di questo, quanto le caratteristiche della vittima possono influire sulla violenza?

Possono influenzare in una fase successiva, quando la violenza subita è diventata la normalità e si è strutturata nella psiche della donna come trauma. Ciò accade quando la donna inizia a sentirsi vittima e si convince che, attraverso i suoi comportamenti inadeguati, provoca la reazione violenta dell’uomo. Potrebbe infatti convincersi di essere stata lei a sbagliare, a fare degli errori a dovere cambiare atteggiamento. È proprio questo vissuto che sbilancia la relazione, tanto che il “maltrattante” riesce a diventare una sorta di educatore che reagisce violentemente per migliorare il “comportamento inadeguato” della donna. Quindi, non si può dire che una donna più timida, introversa, può essere una vittima più favorevole.

Da un lato ci può essere l’uomo che preferisce infierire sulla donna debole, dall’altro ci può essere l’uomo che preferisce infierire sulla donna “in carriera” perché non accetta la sua autonomia. L’essere donna come elemento di genere può, e non deve, scatenare la violenza da parte dell’uomo. Non si parla di violenza solo nelle relazioni affettive, ma anche delle violenze più brutali scaturite da un vestiario, da un atteggiamento. Ma nessuna condizione dovrebbe permettere ad un essere umano di fare quello che purtroppo accade.

Dottoressa Perozzi, nel corso della sua esperienza professionale c’è un caso che l’ha colpita particolarmente?

Mi capita spesso di ricordare la frase di una donna vittima che io ho seguito per molto tempo. La signora con una certa tranquillità pronunciò una frase che nella mia testa rimase impressa per molto tempo. “Io non voglio dimenticare le cose brutte che lui ha fatto, voglio dimenticare quelle belle. Questo per me fornisce il senso della relazione affettiva che si crea tra un maltrattante e la sua vittima. Cioè passare in continuazione dalle stelle alle stalle, in una ripetizione infinita a cui non si riesce a porre fine. Quando l’uomo si rende conto di aver sbagliato infatti, prova a chiedere scusa, a rimediare (la promessa del “…non succederà più”).

Di conseguenza, si ristabilisce un equilibrio e una serenità nella relazione che possono durare per un po’ di tempo, ma poi inevitabilmente, ritorna la violenza e questa condizione può andare avanti per anni. Quando la vittima intraprende un percorso di consapevolezza per uscire dalla relazione violenta ricorda sia le parti brutte, ma anche i momenti belli e sono soprattutto quelli con i quali deve fare i conti e separarsi, perché sono quelli che l’hanno mantenuta nella relazione per tanto tempo.

La vittima riesce sempre a guarire?

In qualsiasi tipo di violenza entriamo nel mondo del trauma. Faccio l’esempio del terremoto; se quando si dorme arriva una violenta scossa di terremoto, è lì che interviene un trauma, inteso come shock. La persona a volte ci mette molto tempo a recuperare quello che è accaduto e questo recupero può dipendere anche dalla personalità di chi ha subito il trauma. Il trauma è qualcosa che va curato ed elaborato, e per far questo, un percorso di psicoterapia diventa fondamentale. Se da un lato si può affermare che è solo una questione di genere, ideologica e culturale, quello che subisce poi la vittima (il trauma), è qualcosa che rimane dentro; si stampa sulla pelle e sull’anima, un marchio che necessita di essere ascoltato.

Sempre più spesso, accade che la fuga della donna o lo svelamento della violenza subita, avviene quando si rende conto della sofferenza dei figli. Perché i figli subiscono quella che viene chiamata “violenza assistita” per quello che loro possono vedere e percepire nella violenza fra i genitori. Questi figli potrebbero anche non subire nessun tipo di violenza diretta su se stessi da parte di un genitore; ma psicologicamente assistere a una violenza in famiglia, soprattutto se ripetuta nel tempo, rappresenta un trauma importante al pari di quello che interviene quando si subisce una violenza diretta sui se stessi.

Dottoressa Botta, torno da lei. Le chiedo, in merito al trattamento del trauma rispetto alle vittime della violenza, in che modo l’associazione L’Orsa Minore agisce, in tal senso?

L’associazione, intanto, si propone con una valenza clinica, ossia come luogo di sostegno e cura in relazione alla violenza. L’optimum sarebbe che chi opera violenza si rendesse conto delle proprie difficoltà personali e relazionali e chiedesse aiuto; questa eventualità rappresenta purtroppo una percentuale bassissima. La maggior parte di queste persone hanno grandi difficoltà ad entrare in contatto con le proprie parti fragili o in difetto. Tendono, invece, a proiettare nell’altro la causa dei loro “scoppi di ira”. Di conseguenza, è soprattutto chi è vittima della violenza che a un certo punto riesce, con molta difficoltà, a chiedere aiuto.

L’associazione offre dei percorsi di psicoterapia per le persone vittime di violenza al fine di elaborare il trauma e ritornare ad essere soggetto della propria vita. In parallelo con questo lavoro è fondamentale attuare un intervento di rete per cui collaboriamo con forze dell’ordine, avvocati e associazioni del settore. Esistono casi in cui c’è bisogno dei centri Antiviolenza; lì le vittime di violenza possono trovare alloggio e protezione per se stesse e nel caso anche per i figli. Un altro ambito importantissimo dove l’associazione opera, è quello della prevenzione alla violenza nelle relazione intime. Per far questo abbiamo partecipato a dei progetti per esempio presso le scuole.

Dottoressa Perozzi, in conclusione le chiedo, oltre al livello professionale, assolutamente fondamentale, come è possibile aiutare le vittime di violenza da amico, parente, conoscente?

I parenti e gli amici sono assolutamente fondamentali, sono il primo anello di questa rete che si spera sia presente attorno alle donne vittime. Il problema è che spesso si dà per scontato che dall’altra parte ci sia una persona consapevole che vuole essere aiutata. Il più delle volte la vittima nega di avere un problema per vergogna o per il meccanismo della sottomissione psicologica di cui abbiamo parlato in precedenza. Essere troppo diretti può far sentire l’altro come in difetto, sbagliato, con il rischio di ottenere il risultato opposto, la chiusura piuttosto che l’apertura.

La questione importante è far sentire la propria presenza nonostante tutto. Essere molto delicati nell’avvicinarsi ad un ambito così intimo e aiutare la persona vittima di violenza a rendersi consapevole che esiste sempre un’alternativa per uscirne. Noi, in quanto terapeuti, siamo forti nel pensare che nelle nostre stanze di terapia non esistono ideologie, aspetti culturali e pregiudizi. Si incontra la persona con la sua storia particolare ed insieme facciamo un viaggio per superare il trauma e dare un senso soggettivo a quello che la persona ha vissuto.

Francesca Perrone

  • Cultura, Ambiente & PetsMessinese trasferita a Roma per gli studi prima in Scienze della Comunicazione Sociale presso l'Università Pontificia Salesiana, con una tesi su "Coco Chanel e la rivoluzione negli abiti femminili", poi per la specializzazione in Media, Comunicazione Digitale e Giornalismo alla Sapienza. Collabora con l'Agenzia ErregiMedia, curando rassegne stampa nel settore dei rally e dell'automobilismo. La sue passioni più grandi sono la scrittura, la moda e la cultura.
    Responsabile dei blog di VelvetMAG: VelvetPets (www.velvetpets.it) sulle curiosità del mondo animale e di BIOPIANETA (www.biopianeta.it) sui temi della tutela dell'ambiente e della sostenibilità.

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