Intervista a Marco Missiroli: «Quando un figlio nato libro deve essere protetto» [ESCLUSIVA]
Dai libri ai diritti cinematografici, dal metodo di scrittura alla musica: Missiroli si racconta
Vive a Milano ma nasce a Rimini nell’81. L’esordio letterario di Marco Missiroli arriva nel 2005 con Senza Coda: è subito Premio Campiello. Nel 2007 arrivano Il Buio addosso, poi Bianco e Il senso dell’elefante. L’anno del successo di massa, però, è il 2015: Atti osceni in luogo privato diventa un bestseller, e le carte per parlare ad un pubblico trasversale ce le ha tutte, dal titolo alla copertina irresistibile, riproduzione di Holy Cross (in hoc signo vinces) di Erwin Blumenfeld: quattro linee curve su uno sfondo bianco. È la santa croce o il punto più sexy dell’oscenità?
È impossibile ignorarlo tra gli scaffali di una libreria: la foto seduce ed imbarazza, il titolo si insinua ambiguo in quella sfera del non detto, dell’intimità inconfessabile che ci accomuna tutti. Indistintamente, uomini e donne. Ma forse più gli uomini, su cui il libro esercita una presa insolita e quasi pudica. La prima pagina lo consacra inevitabilmente alla popolarità: di fronte ad un piatto di cappelletti, seduto a tavola tra mamma e papà, Libero Marsell scopre in una volta sola la Francia, la rivoluzione e la fellatio: è la prima crepa della sua infanzia, è l’inizio di un romanzo di formazione in grado di parlare a tutti.
Quando, a 4 anni dal successo di Atti osceni in luogo privato, arriva Fedeltà, è la grande prova del nove. Di sicuro lo è per il suo pubblico, rimasto stregato da un bestseller talmente riuscito da temere che non possa replicarsi. L’hai già letto l’ultimo di Missiroli? nel febbraio del 2019 è una frase che si sente e si pronuncia spesso. Fedeltà entra nella cinquina finale del Premio Strega 2019, vince la sezione Giovani e presto diventerà anche una serie tv per Netflix.
Altro che prova del nove. Missiroli, nel suo ruolo di scrittore contemporaneo italiano (ma comunque tradotto in 32 paesi) ci sa stare come pochi. E forse, come non se ne vedeva da un po’. Vince prestigiosi premi letterari, scrive per il Corriere della Sera, intervista, parla di letteratura sui social ma anche di immobili, di crisi generazionale, di tradimento e di legami familiari: senza girarci intorno, interpreta la nostra epoca.
Lontano da snobismi cervellotici, Marco Missiroli usa molti strumenti per comunicare: è un intellettuale raffinato ma è anche un figlio degli anni Ottanta. Non a caso lo raggiungo su Instagram, dove proprio in queste settimane ha ideato uno scambio con gli utenti sulle migliori opere culturali del 2020. Non schiva nessuna domanda, è implacabilmente lucido e disponibile, ha il dono della parola e non solo quello della scrittura. E ancora una volta penso che sì, tra le centinaia di stelle comete che trapassano la nostra attenzione, quella di Marco Missiroli non è solo una penna imperdibile ma anche una mente magnetica, in grado di osservare tanto i rapporti umani della nostra epoca quanto l’epoca tutta, in grande. Come i grandi.
Intervista a Marco Missiroli
Da dicembre hai dato vita, sul tuo profilo Instagram, ad una piccola ma interessantissima iniziativa che seguo con piacere da lettrice. Mi sembra un buon compromesso tra cultura e social: stai ricevendo una buona risposta di pubblico? Potrebbe evolversi in altro?
Sta avendo un’insospettabile e inattesa risposta, sono travolto dai messaggi. Le persone mi aspettano, ormai sanno che pubblicherò ogni giorno verso mezzogiorno. C’è un vero scambio di stimoli, su cosa hanno letto o non letto anche loro. Ho cercato un bilancio tra un anno così nefasto e le cose buone che può aver lasciato. Non solo: ho voluto togliermi di mezzo e farlo dire agli altri. Sono molto contento perché è una piccola cosa, che però nella sua minuzia si sta allargando. Non so se lo farò ogni anno, ma mi piace dare ai social l’invenzione dell’altro, creare un effetto contagioso di stimoli culturali.
Anche la tua recente intervista ai Ferragnez per Vanity Fair potrebbe sembrare una sorprendente mediazione tra cultura e social. Un Premio Strega che interviene su un trend pop è un’incursione fuori dalle righe?
Io adoro le incursioni in quello che è il tessuto pop e dei grandi numeri, come sono Ferragni e Fedez. Che poi hanno una loro autenticità riguardo a ciò che sono e ciò che fanno, perché in quel caso coincide l’essere e il fare. Hanno tutto il mio rispetto e la mia curiosità: quando io divento curioso, poi faccio le cose che mi piacciono davvero. Mi succede nell’intervistare i grandi della letteratura come i grandi in qualsiasi territorio diverso dal mio. Mi incuriosisce soprattutto la compenetrazione sulla popolazione: i ragazzi davvero sono contagiati positivamente da questa coppia, e questo per me è motivo di grandissimo interesse d’indagine. Spero di farne altre di incursioni di questo tipo.
Ho letto per la prima volta Atti osceni in luogo privato nel 2015, è stata una lettura intimissima e devastante. Ma soprattutto, da quel momento ho iniziato a regalarlo a chiunque. Quello che mi sorprende ogni volta è la potenza che il libro esercita sui lettori uomini, che credo vada oltre l’immedesimazione con la storia di formazione di un personaggio maschile, Libero Marsell. Anche tu hai notato questo effetto, e da cosa ritieni che possa dipendere?
Credo dipenda dal fatto che Atti osceni in luogo privato sia basato sulla tenerezza degli uomini, sulla fragilità e l’incertezza maschile. Non sui tratti alfa del maschio, ma su quelli femminili che rendono poi l’uomo aperto al mondo. Una dote molto più profonda rispetto a quelle del classico stereotipo. È un libro a suo modo furbo, e con furbo intendo che fa leva, senza volerlo, sui connotati della letteratura, della sessualità e perfino di Parigi.
Però è nato in 23 giorni, per cui non c’è niente di premeditato, e forse questo lo rende autentico. È venuto dal frutto del mio vacillare con le donne nel primo periodo, quindi vibra di quell’incertezza. Lo vedo nei maschi che lo leggono, è vero, ma lo vedo anche nelle donne che capiscono di più i maschi di questa specie, che secondo me sono anche la maggior parte. Spero che il libro detenga sempre un codice maschile inesplorato, portandolo alla luce.
C’è un passaggio in Atti osceni in luogo privato, ti cito: «Pianse di colpo, e piansi anch’io. Non per nostalgia, non per desiderio, ma perché le cose finiscono». Questo per me resta negli anni un passaggio immenso e anche il fulcro del libro. Nel frattempo, di acqua sotto i ponti per te ne è passata, a partire da Fedeltà e dal fatto che sei diventato padre. Come interpreti oggi quel «perché le cose finiscono»?
In verità quello è davvero il cuore di Atti osceni in luogo privato, perché quella frase lì, quando l’ho scritta, è venuta senza tanta premeditazione ma ha riassunto esattamente la consapevolezza che un ragazzino o un essere umano, diventando poi adulto, conquista. Non c’è sempre una causalità, non c’è sempre una spiegazione per cui le cose finiscono. Le relazioni, i lutti, le vite, alla fine finiscono e basta e tu devi accettarlo. Per cui è davvero un cuore pulsante del libro, ed è forse l’unico punto in cui, scrivendolo, mi sono trovato a dire: sì, questo libro va per la strada giusta. Perché non lo so mai fin quando non l’ho finito, e invece lì l’ho saputo quasi nel mezzo. È una rarità per me che sono sempre molto vacillante nel mezzo del cammin della scrittura.
A proposito del mezzo del cammin della scrittura: leggendo tutti i tuoi libri si ha spesso l’impressione di avere tra le mani un materiale fortemente autobiografico. In particolare Senza Coda potrebbe sembrare un fare i conti con la tua infanzia. Allo stesso modo Atti osceni in luogo privato rappresenterebbe il romanzo della tua formazione e Fedeltà quello della vita adulta. Eppure, andando ad unire i puntini, i conti non sempre tornano. Il padre di Pietro (Senza coda) sicuramente non è il padre di Libero (Atti osceni in luogo privato). Ricorrono poi certe figure di riferimento quasi genitoriali, come Nino per Pietro o Anna per Carlo in Fedeltà. Dove si colloca davvero la componente (o forse l’urgenza) autobiografica di Marco-scrittore?
Ci sono dei temi che ritornano. Uno è l’assenza del padre, l’abbandono paterno. L’altro è la tentazione di evasione da un mondo anche sentimentalmente stretto. Dunque una paternità mancata da ritrovare e l’evasione da certi acquari esistenziali che ti stringono e ti mettono in cattività. Solitamente i miei personaggi vengono messi al mondo da donne che sembrano laterali ma che fanno il romanzo. In tutti i miei libri le figure femminili sono maieutiche, mettono e rimettono il personaggio maschile in vita.
Ora in me si sta affacciando un altro tema, più violento e più cattivo, che è la violazione. Probabilmente è frutto dei nostri tempi e di esplorazioni che sto portando alla conclusione. La violazione di quando un’epoca entra violentemente dentro di noi e ci impone i suoi dogmi, o di quando noi violiamo un altro essere umano secondo i nostri dogmi. Questa è una nuova forma di narrazione che mi sta prendendo molto.
A proposito di questo, sto rileggendo Fedeltà in questi giorni e fatico a non lasciarmi impressionare dall’idea di una coppia salda e innamorata che però scopre il tradimento. Da dove è nata l’esigenza di scrivere questa storia in un momento, come hai raccontato, per te sentimentalmente felice? È stato complicato portarla nella tua vita?
È quando si è stabili e felici che si va a rovistare meglio negli abissi, secondo me. Fedeltà andava rovistato e scritto in un momento in cui ero solido sentimentalmente, altrimenti avrebbe generato una psicosi. È un libro che mi ha prosciugato, in tutti i modi. Per rendere quel calor bianco con un libro apparentemente freddo, con un riverbero che brucia nel lettore dopo e nello scrittore prima, meritavo un lavoro tecnico, certosino ma anche sentimentale. E poi dovevo rispondere a una domanda importante: se davvero siamo fedeli a noi stessi, come riusciamo ad esserlo? Allora l’unico modo era ritrovare il tono quotidiano che abita questi grandi dolori. E un tono quotidiano in letteratura racconta le piccole cose, non i colpi di scena.
Doveva esser un libro sulle scene figlie e non sulle scene madri, sui raccordi della vita e non sulle grandi scene della vita. È un libro che mi è costato molto coraggio e anche molto bilanciamento: qual è davvero la realtà, cosa accade nella vita delle persone? Fedeltà voleva fotografare anche l’epoca tremenda in cui viviamo; mi è costato moltissimo ma è stata una delle cose che mi ha liberato di più. È in qualche modo la seconda parte di Atti osceni in luogo privato: se Atti osceni è l’incanto, Fedeltà va a chiudere la parte disincantata dell’amore.
E torniamo infatti a quella violenza che stai finendo di esplorare. «La gente si lascia perché a un certo punto decide di provare qualcun altro» scrivevi già ne Il senso dell’elefante, mentre «l’amore massimo è difendere l’amore per una sola persona». I figli dell’ultima generazione vengono spesso liquidati sentendosi rispondere che ogni epoca pensa di essere la più tremenda: tu invece lo hai appena detto, lo sostieni davvero: l’epoca tremenda in cui viviamo. Perché è così tremenda e quale aspetto senti di voler indagare?
Mi interessa l’insospettabilità. Siamo in un’epoca in cui, apparentemente, c’è modernità e libertà. Ma l’insospettabile è insito in qualsiasi cosa. Per esempio viviamo una guerra silenziosa, e non solo per il Covid, che riguarda tutti, ma semplicemente perché abbiamo i mutui da pagare. È diventata una piaga totale, perché non abbiamo un potere d’acquisto che ci tuteli né le pensioni. Abbiamo un sistema lavorativo con degli stipendi che non ci garantiscono la vita delle vecchie generazioni. Compriamo case per cui siamo in debito tutta la vita. Gli immobili sono per me una grande cartina tornasole, si ripresentano in ogni mio romanzo come un’ossessione. Per Libero, per Carlo e Margherita, gli immobili diventano dei veri fulcri esistenziali ed emotivi. Anche i social network sono diventati qualcosa di potenzialmente attribuibile al male: perdiamo l’autenticità del silenzio e guadagniamo narcisismo e violenza a tutti i costi.
In alcune occasioni hai definito la tua scrittura certosina e perfino metodica: questo ritratto di scrittore è cambiato negli anni? La ritualità si piega all’esperienza?
No, si è assolutamente acuito. Più invecchio e più divento certosino e metodico. Ogni volta che inizio un libro lavoro con una regolarità quasi impressionante. La mattina per 3 o 4 ore di scrittura, poi rilettura il pomeriggio e a volte anche la sera, per poi ricominciare la mattina seguente. Questo accade perché la scrittura è un burrone faticoso, è talmente spaventosa che se non ho una metodologia e una continuità che mi portano a una sorta di inerzia intelligente, non riesco ad arrivare alla fine. O ci arrivo in modo finto. Ecco, il metodo mi porta ad una naturalezza, sebbene io mi renda conto che possa sembrare paradossale. Potrebbe sembrare che il metodo si opponga alla spontaneità perché ti costringe ogni giorno all’automatismo. In verità mi porta ad una fluidità di scrittura molto importante e preziosa.
Ogni lettore ha le sue, ma facendo una breve “carrellata” sui tuoi romanzi, quali sono le “scene” (come le definisci tu, e non è un caso) che ti hanno richiesto più carico emotivo?
Se dovessi fare una carrellata delle scene che mi sono costate più emotività nei libri, dove ho rischiato l’osso del collo, sono, per quanto riguarda Senza coda quando i due bambini sotto il tavolo vedono il padre che picchia la madre. Per quanto riguarda Il buio addosso quando lei abbandona la torre campanaria e va… In Bianco l’impiccagione. Per Il senso dell’elefante penso alla scena finale ma anche a quando lui entra nell’appartamento e prova le ciabatte del medico di nascosto. In Atti osceni in luogo privato la scena di Libero Marsell con Marie, quando lei si leva l’asciugamano e gli fa veder le tette. In Fedeltà la passeggiata di Carlo a Rimini, quando arriva da Milano in treno, raggiunge la ferramenta di Sofia e torna a piedi verso il mare.
Hai parlato spesso degli scrittori e dei film che hanno segnato la tua vita. Nei tuoi libri però ci sono anche molte citazioni musicali: al di là di queste, io leggendoti ti associo ad una certa musica fatta di immagini e potenza evocativa. I vicoli sporchi e nostalgici di Pino Daniele, il Disperato erotico stomp di Dalla, il romanticismo graffiato di Stadio e Carboni. Che ruolo ha la musica nella tua vita? Chi ti accompagna nella tua metodica fase creativa?
La musica ha un ruolo fondamentale, ma ammetto che sono molto, molto ignorante. Vado a istinto, però ho alcuni punti fermi e Lucio Dalla è uno di questi. Anna e Marco è la canzone con cui ho scritto Il senso dell’elefante. Poi ho Carboni, mi fa impazzire. Mi mancano molte fondamentali, come Guccini, De André e Vasco. Ma ho delle eccezioni che tornano sempre, come i The National, colonna sonora con cui ho scritto Fedeltà. Ascolto anche molta musica classica. Band of Horses è una band americana che mi piace moltissimo. Sono anche pop, mi piace Cremonini. Battiato c’è sempre. Posso innamorarmi di certe melodie, non sono affidabile sulla musica ma sono molto affidabile sulle atmosfere della musica.
Nei prossimi mesi uscirà la serie tv tratta da Fedeltà su Netflix, che lanciando la notizia aveva dichiarato: «Missiroli non ha voluto essere coinvolto, fidandosi di Angelo Barbagallo e di Bibi film». Allo stesso tempo c’è stato anche il lancio de La vita bugiarda degli adulti, di cui invece Elena Ferrante sta in qualche modo, di nuovo, seguendo la fase di scrittura. Al di là della fiducia che riponi in produttori, sceneggiatori e regista, come mai hai scelto di prendere le distanze da questo tuo figlio?
Perché non sarei mai riuscito a fare quel figlio lì. E quindi sono molto curioso e felice che facciano un’altra cosa rispetto al mio Fedeltà, o che rimangano in parte davvero fedeli al libro per poi spostarsi dove l’esigenza della serie richiederà. Diverso invece per Atti osceni in luogo privato. È qualcosa che può essere frainteso e trasformato perfino in una sorta di pornografia. Deve essere protetto. Quando un figlio nato libro può essere interpretato va benissimo, ma quando può essere frainteso no. Così in Atti Osceni ho anche, in parte, il controllo e partecipo alla scrittura.
Per diversi anni hai lasciato intendere di non esser pronto a cedere i diritti per una trasposizione cinematografica di Atti osceni in luogo privato. Poi cosa è successo e cosa possiamo aspettarci?
Con Atti osceni sono rimasto in trincea per molto tempo. Hanno tentato di acquisirne i diritti diverse case di produzione, ma poi non è mai andata. Invece durante il lockdown ho scritto il soggetto, che è la cosa più difficile. L’ho scritto insieme ad Adriano Valerio, regista e sceneggiatore che vive da tanti anni a Parigi. E stavolta una forma la abbiamo trovata. Questo mi ha permesso di dirmi: sì, Marco, lo puoi dare anche al cinema e tirarlo fuori dalla trincea.