Nonostante sia originario di Catanzaro, guai a chi gli tocca la sua amata Bologna! Raimondo Galeano (Catanzaro, 1948) vive sotto alle Due Torri da settant’anni, ma la sua fortunata carriera artistica l’ha portato ad esporre in paesi molto più lontani come il Sud Africa e gli Stati Uniti, per esempio. Il suo approccio poco convenzionale alla pittura è stato talmente apprezzato dalla critica internazionale da riservargli anche un ruolo da protagonista alla 57ima Biennale d’Arte di Venezia. Galeano ama essere definito “pittore della luce”, perché i suoi quadri e le sue sculture sono impregnati di polveri che, nell’oscurità, “esplodono” di luce rivelando affascinanti forme tridimensionali.

Il suo esordio nel mondo dell’arte avvenne negli anni ’70 a Roma, laddove l’artista ebbe l’opportunità di assistere alcuni tra i più importanti esponenti della cosiddetta Pop Art Italiana: Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli, Mimmo Rotella ed altri ancora. Senza l’aiuto di nessuno, decise di studiare e approfondire le conoscenze in materia di storia dell’arte, per poi cimentarsi anche nella pratica. Tuttavia, il giovane Galeano si era già reso conto che nell’arte era già stato inventato molto, pertanto era necessario trovare una strada originale, oltre che personale. A quel punto l’intuizione…

Raimondo Galeano, Navigatori del Cosmo 57ima Biennale di Venezia, cm 550 x 330, luce su tela, 2017

Intervista a Raimondo Galeano

Maestro Galeano, dopo aver lavorato a stretto contatto con gli “artisti di Piazza del Popolo” cosa successe?

Casualmente un giorno mi imbattei in un’immagine che ritraeva un bambino di fronte ad un tramonto con la scritta: “Lui guarda al tramonto, ma i colori non esistono. Isaac Newton”. Questa frase mi incuriosì a tal punto da “avventurarmi” nella lettura di vari trattati scientifici, concentrandomi in particolare su quelli del matematico inglese. Come tutti sappiamo, Newton ha studiato la rifrazione della luce solare giungendo alla conclusione che i colori non esistono, perché racchiusi nella luce; per intenderci, quando un oggetto viene investito da un raggio di sole, ne assorbe una parte e ne restituisce un’altra che viene elaborata dal cervello sotto forma di colore; quindi, è la luce che contiene il colore.

Pertanto, è come dire che il colore non esiste. E questo è anche il principio fondamentale che sta alla base della tua arte. Una volta preso atto di ciò, come hai pensato di tradurlo nelle tue opere?

Esatto, mi sono reso conto che il colore non è altro che una sensazione che elabora il nostro cervello quando i nostri occhi si scontrano con la luce. A quel punto ho scoperto un pigmento luminoso che allora veniva usato per illuminare le lancette degli orologi al buio. Un amico orologiaio me ne fornì una piccola dose, raccomandandosi di usarlo con attenzione in quanto nocivo alla salute. Una volta tornato in studio stentai a crederci: avevo la luce in un barattolo! Finalmente ero pronto a varcare le soglie del mondo dell’arte da protagonista e non soltanto da spettatore.

Raimondo Galeano, Epossidico blu, 60 x 125 cm, 1993
In cosa sono consistiti i tuoi primi esperimenti?

Ho dato vita alla serie degli Epossidici, delle opere in cui ho mescolato o applicato il lumen – questo è il nome del materiale luminoso – alle tempere, al cemento e al legno per capire come avrebbero reagito insieme. I quadri rappresentavano perlopiù delle galassie e dei segni come linguaggio di una civiltà che immaginavo lanciare dei messaggi a noi terrestri tramite la luce, la quale, come sappiamo, viaggia nel cosmo a 300.000 kilometri al secondo.

Qui però, se non mi sbaglio, il colore era ancora presente…

Sì, in questa fase ero ancora molto legato al colore, d’altro canto per un pittore non è semplice sbarazzarsene in fretta. In sostanza, volevo liberarmi dal colore salvando il gesto pittorico, ma senza dedicarmi alla solita pittura.

Raimondo Galeano, Achille, luce su tela, 70 x 100 cm, 2016
Poi intorno agli anni 2000 sei finalmente “approdato” allo stile che ancora oggi ti contraddistingue e per il quale sei conosciuto in tutto il mondo. I tuoi quadri presentano due possibili “letture”: di giorno appaiono bianchi, mentre al buio rivelano soggetti che vivono di luce propria.

È proprio così. Di giorno l’effetto è molto simile a quello del negativo fotografico, mentre al buio si crea la condizione ideale per osservare i soggetti luminosi che imprimo sulla tela. Di fatto gli oggetti o i soggetti rappresentati nei miei quadri di giorno esistono anche se non si vedono, esattamente come la Via Lattea o le stelle, per esempio, che possiamo vedere soltanto al buio. Quindi è come se le mie opere seguissero le dinamiche del cosmo.

Quando parli di “luce”, cosa intendi esattamente?

Oggi il materiale che utilizzo è molto più facile da reperire rispetto a un tempo. Si tratta di pigmenti di luce polverizzati che mischio a collanti e resine, in modo tale da ottenere una vernice luminosa che può essere applicata sulla tela.

Da sinistra: la curatrice Annalisa Bianco, il Premio Nobel per la fisica Shuji Nakamura e Raimondo Galeano
Invece, la serie più ricca di opere alla quale ti sei dedicato a partire dagli anni 2000 fino ai giorni nostri si intitola Navigatori del Cosmo. Perché?

La luce viaggia velocissima nel cosmo e con lei i soggetti che raffiguro nelle mie opere; così facendo si va a creare inevitabilmente un dialogo cosmico. Pertanto, è come se io dessi la possibilità a qualcosa o a qualcuno di esistere anche in una dimensione extra-terrestre.

Un altro aspetto importante del tuo modo di concepire l’arte è rappresentato anche dalla componente performativa. Con le tue opere si può infatti “giocare” con delle piccole pile per potenziarne la luce o addirittura per lasciare l’impronta del proprio corpo, è vero?

Sì, perché le mie opere non sono mai finite, cambiano continuamente anche grazie all’interazione con lo spettatore, al quale chiedo di diventare parte integrante del quadro. Infatti gli spettatori sono liberi di disegnare o scrivere con una pila messaggi da consegnare all’eternità, poi, dopo qualche minuto, tutto torna alla normalità (cioè a quello che avevo disegnato). Amo questo aspetto del mio lavoro, perché mi offre la possibilità di creare opere non soltanto da ammirare, ma letteralmente da “vivere”.

Il pubblico interagisce con un’opera di Raimondo Galeano. Villa Bernasconi, 2016
Quanto ha influito il Covid-19 sulla tua attività lavorativa? hai progetti per il futuro?

Il coronavirus ha certamente complicato il normale svolgimento del mio lavoro: il mercato ne ha risentito così come le mostre, poiché i musei sono chiusi da mesi. Tuttavia, sto continuando a produrre in vista di una personale alla Galleria Il Ponte Contemporanea di Roma che si terrà non appena sarà possibile accogliere nuovamente il pubblico che, per altro, mi manca alla follia. E poi tanti altri progetti da realizzarsi mi auspico in primavera.

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