Ambasciatrice della moda italiana, stilista affermata in tutto il mondo. I suoi abiti sofisticati sono realizzati in maniera artigianale, con tessuti di qualità pregiata su disegni e modelli esclusivi. L’amore per l’arte, per la lirica, per la cultura del gusto e per la ricercatezza sono gli elementi fondamentali dello stile della celebre maison milanese. Raffaella Curiel, detta Lella, soprannominata “l’intellettuale della moda italiana”, non ha mai smesso di stupire il suo fedele pubblico. È stata la prima designer della storia italiana a concepire il connubio tra arte e moda.

Il 2020 ha segnato per la celebre stilista italiana ben sessant’anni di attività. Una storia tutta al femminile, che parte da lontano, sul finire dell’Ottocento, quando Ortensia Curiel apre una sartoria a Trieste. Il secondo atto avviene poi a Milano, nel 1945, anno in cui Gigliola Curiel, nipote di Ortensia e madre di Lella, inaugura il primo atelier nella città meneghina. Si affianca poi ad essa Raffaella Curiel e cresce un impero fatto di stoffa e di sogni, di un’eleganza atemporale, a cui negli anni Novanta approda la nuova generazione: Gigliola Curiel, figlia di Lella.

Sono felice quando faccio ciò che mi piace: disegnare come una bambina. In fondo, non sono mai cresciuta. Così penso, fare la moda è un eterno giocare con le bambole”, dichiara Raffaella Curiel. E quel suo giocare così raffinato l’ha portata ad essere interprete fedele dei gusti ricercati delle signore dell’alta borghesia milanese, che fin dagli anni Cinquanta, sfoggiano mirabili creazioni firmate Curiel ogni anno alla prima del Teatro alla Scala. Proprio in questi giorni Raffaella Curiel porta a Napoli, al Museo della Moda, Fondazione Mondragone, una selezione di creazioni eseguite dal 1983 al 2016, intitolate “Raffaella Curiel: Viaggio nell’Arte – A Journey into Art“. Il progetto espositivo a cura di Donatella Dentice di Accadia, con allestimento di Michele Iodice, sarà visitabile on line sul sito del museo fino al 12 marzo 2021.

Velvet Mag incontra Raffaella Curiel per un’intervista esclusiva

 

Un’esposizione che celebra le sue creazioni influenzate fin da sempre dall’arte. Quanto è stato importante per lei questo connubio nel corso della carriera?

Ho fatto un’infinità di omaggi durante il mio percorso artistico. Contaminazioni con Vermeeer, Picasso, Monet, Manet, Dante Gabriel Rossetti, Maltegna, i Futuristi. Ricordi indelebili dentro di me.

Quali sono le creazioni più particolari da poter ammirare tramite la mostra virtuale?

Ci sono abiti in chiffon, velluto, seta, crêpe, jersey e organza. Una creazione nera in seta, tributo del 1983 a Lucio Del Pezzo. Frida Kahlo è omaggiata con un abito che reinterpreta il mondo visionario e onirico della pittrice messicana. Claude Monet rivive attraverso tre capolavori che richiamano la passione dell’artista per i giardini e per i fiori. Ci sono abiti della collezione “Omaggio ai Tudor” del 2015, creata in occasione del novantesimo compleanno della Regina Elisabetta II, e “Omaggio all’Africa” del 1998 con due modelli che si rifanno ai colori della savana. Ho donato, inoltre, al Museo della Moda l’abito “Panier”. La creazione si ispira alle sottostrutture usate dalle donne del passato per sostenere le gonne.

È stata la prima stilista italiana a concepire il connubio tra arte e moda. Prima di lei avevano osato Yves Saint Laurent con la serie di abiti dedicati a Mondrian e Balenciaga. Come presero vita queste ispirazioni?

Dal 1981 al 1982 ho interpretato il futurismo di Giacomo Balla e di Fortunato Depero anche attraverso un foulard, volevo ideare qualcosa che fosse riconoscibile per il mio marchio. Negli anni Ottanta avevo 37 anni, mi confrontai anche con Van Gogh.

Cosa ha provato quando l’hanno definita l’intellettuale della moda italiana?

Non mi sono sentita particolarmente intelligente o colta per aver ricevuto questo appellativo. Nel corso della mia carriera ho sempre e solo seguito il mio istinto, la cultura e la curiosità.

Sua mamma Gigliola, a cui poi lei ha dedicato il nome di sua figlia, è stata una figura cardine nella sua vita.

Era una grande maestra, una personalità nel mondo della moda. Una donna irripetibile, alla Marlene Dietrich, oggi non ce ne sono più purtroppo. Il suo più grande insegnamento è stato quello della modestia, dell’umiltà.

Lei è sempre molto attiva anche nel sociale, non è vero?

Mia madre ha lavorato con il cancro senza mai fermarsi o lamentarsi fino alla fine dei suoi giorni. Quando morì scoprì che manteneva una scuola a Parma per aiutare le persone sordomute. Vedendo questo mi sono sentita in dovere di fare qualcosa. Chi era socialista all’epoca, negli anni Ottanta, era davvero motivato a fare del bene per la Società.

Nel 2016 decide di cedere il suo marchio al colosso cinese Red Stone, come cambiano da quel momento in poi i suoi impegni lavorativi?

Nel quotidiano tutto è rimasto invariato. Sono molto soddisfatta di vedere la nostra storia al di là dell’Oceano. La moda è un’espressione d’arte minore. La storia del costume è arte, ricerca, creatività, è assistere alle mostre, vedere qualcosa da poter amare. Io adoro quello che faccio. Mi sono sempre messa in discussione durante la mia vita. Ho aperto il mio showroom a Milano in mezzo ai tetti della città.

Tra i suoi abiti più iconici troviamo i famosi “curellini”, i tubini un po’ drappeggiati.

Li ha creati mia madre, io credo molto a ciò che diceva lei. “Vestivamo alla Curiel”,  “Un Curiel si riconosce sempre”. Il saper fare e la creatività italiana sono qualcosa di unico al mondo.

Lei è tra le poche testimoni dei tempi d’oro dell’alta moda italiana. Se guarda le passerelle di oggi cosa vede?

In mezzo alla giungla della moda ci sono delle cose positive. La moda rappresenta pienamente la Società. Oggi il mondo è in confusione e quindi, di riflesso, anche la moda lo è. Questa ricerca di fare a tutti i costi qualcosa di diverso è finita da tempo. Ciò che si è cercato di ripetere durante questi anni, ad esempio, il pop di Elio Fiorucci, in realtà è solo una copia mal riuscita. Quando si vedono delle calze smagliate vendute a 140,00 euro capisci di aver raggiunto la follia pura.

L’eleganza per la Signora Raffaella Curiel cosa rappresenta?

È il conoscere a fondo se stessi. Non si può essere costretti dalla moda a vestirsi seguendo certe tendenze, ma bisogna imparare a sapersi vedere per ciò che si è realmente e capire ciò che è giusto per noi stessi. Mettersi davanti allo specchio e guardarsi in maniera reale. Quando una donna si sente sicura è già elegante, deve essere equilibrata con un pizzico di fantasia. Non bisogna essere dei pecoroni e omologarsi al gregge, ma bisogna saper tirar fuori la propria personalità. Avere un proprio stile, equilibrio, in definitiva volersi bene.

In questa edizione purtroppo senza pubblico della prima al Teatro alla Scala ha vestito l’attrice Maria Chiara Centorami. Che tipo di creazione ha ideato?

Un abito di organza bianca ricamato con diamanti e piume di cigno degradé, omaggio al mondo dei balletti di Tchaikovsky. Ho avuto una grande soddisfazione ad essere presente in un anno così particolare, insieme ad Armani, Valentino, Dolce & Gabbana. In fondo sono una sartina di Milano.

È un po’ troppo riduttiva ora, non le pare? Tutte le signore più eleganti di Milano da anni si affidano alla Curiel per la prima del Teatro alla Scala.

Cerco di dare lo smalto e l’onore che l’Istituzione sinfonica più bella del mondo merita. Mia madre produceva persino cinquanta abiti a stagione per la prima.

 

Lei ha il merito di essere stata la stilista che ha insegnato alla “sciura” di non vestirsi di rosso Valentino al Teatro alla Scala, ma al massimo di rubino, in modo tale da non stridere con le poltrone di velluto.

Il rubino ormai è una tradizione milanese. Certamente ad una prima teatrale non ci si veste di viola. Questa usanza risale fin ai secoli scorsi perché durante la Quaresima non si faceva teatro, periodo dell’anno in cui i paramenti liturgici hanno proprio il viola come colore. Una tradizione che viene rispettata anche ai giorni nostri.

Il 2020 ha segnato i sessant’anni di attività di Raffaella Curiel. Come li festeggerà?

Non c’è bisogno di fare show, super sfilate. Quello che deve parlare è il vestito, quello che deve essere è l’abito. Perché dovrei festeggiare sessant’anni di storia? Io sono un po’ della vecchia guardia, come Armani, Missoni, persone belle, umili. Nel mondo della moda finché sei in cima ti osannano, dopo non sei più nessuno. C’è molta ipocrisia nel nostro settore. I grandi nomi come Giorgio Armani, Yves Saint Laurent non si sono mai prestati a certi compromessi. Fare moda è un lavoro come un altro. Ferrè non si è mai buttato in mezzo alla mischia, in fondo che bisogno aveva?

Hanno sempre colpito molto i suoi occhi intensi, il suo sguardo un po’ “felino”.

Sono una persona fiera di me stessa, sono sempre stata coerente e trasparente nel corso della vita. Ho una felicità immensa quando tocco i tessuti, non penso ad altro. Ogni volta è come la prima. Non ho mai pensato all’interesse personale nell’atto creativo. In questa piccola mostra di Napoli ci sono degli abiti ispirati a Vermeer e a Klimt che non ho più. Dagli anni Ottanta ho sempre venduto almeno centoventi capi all’anno. Allora si faceva un lavoro molto più tranquillo, non c’era questa ansia del commercio. Noi abbiamo creato il vero Made in Italy, insieme a Versace, Armani, Krizia, Missoni. Ci volevamo tutti bene. Non c’era quell’invidia di oggi.

Quale sarà il futuro della moda passata la brutta parentesi del covid-19?

Si ritornerà ai vecchi ritmi. Spero davvero che questa grave malattia abbia insegnato qualcosa agli esseri umani. C’è sempre un rebound durante la storia dell’umanità, fatta di corsi e ricorsi. Ci sarà sicuramente una ricostruzione un po’ di tutto, ma soprattutto, me lo auguro, tornerà finalmente la voglia di divertirsi e di viaggiare.