È uscito in questi giorni il videoclip di Una canzone d’amore buttata via. Da un’idea di Vasco Rossi e, ovviamente, Pepsy Romanoff. Lo scenario è quello di Piazza Maggiore a Bologna, luogo in cui per Vasco tutto è iniziato. «Ho visto la piazza e ho pensato: togliamo tutto di mezzo, puntiamo solo su Vasco Rossi. È il primo singolo di questo nuovo disco, volevo tornare alle origini in una città che parla di musica, e parla della musica di Vasco. Volevo un look filmico, perché Vasco per me è un Al Pacino che invece di starsene a New York vaga per Bologna. Se Zocca sono le radici, Bologna è l’albero. Che poi il brano è già un paradosso: scrivi una canzone d’amore e la butti via? La butti, ma intanto l’hai fatta».
Un nuovo set con Vasco: cos’è cambiato tra voi, dopo tutto il percorso fatto fin qui? «Ahimè c’è stata più confidenza». Ahimè perché lui ha sempre schivato la confidenza con Vasco, e anche questo sembrerebbe un paradosso. Per capire davvero perché, però, bisogna partire dall’inizio. Pepsy Romanoff con la musica di Vasco non ci è cresciuto. Nato nel 1977 e vicino ad un’altra scuola di cantautorato, quella napoletana e del primo vero rap italiano, dice che all’epoca Blasco «non gli è mai entrato dentro». Eppure lui, per tutti, è diventato il regista di Vasco. Ha riscritto l’epopea del mito, del live e del suo popolo, a ridosso dei 40 anni di carriera di uno che aveva iniziato voltando le spalle al pubblico a Sanremo. Parlando con Pepsy trovo la risposta che da molti anni cercavo, da fan: perché proprio lui?
Pepsy Romanoff: come inizia la storia di questo nome d’arte?
Nasce dall’incontro con Alioscia Bisceglia, cantante dei Casino Royale. Ci siamo conosciuti ad All Music, abbiamo iniziato a collaborare per Live from Running Club. Lì abbiamo ospitato artisti di grande calibro, tra cui Pharrell Williams, il mio primo concerto importante anche se con un pubblico di cinquanta persone. Quel giorno, quando Ali mi presentò a Pharrel non usò il mio nome, Giuseppe Romano, che è molto italiano. Provò a rendermi ‘internazionale’: Giuseppe, Peppe, Pep… Pepsy. E Romano diventò Romanoff, quasi legato ad un immaginario russo. Mesi dopo quel nome iniziò a piacermi, venendo dal mondo dei graffiti mi ricordava una tag.
In realtà tu sei di Torre Annunziata e tua mamma è venezuelana, giusto?
Esatto, una famiglia di migranti che da Marina di Camerota, in provincia di Salerno, vanno in Venezuela a sbarcare il lunario. Quando poi i miei genitori si sono separati, siamo tornati in Campania. Io mi sento più napoletano che salernitano; a Marina di Camerota gran parte della popolazione è venezuelana, e io quel mix lo sento dentro di me, sono un intreccio di culture.
Il grande pubblico ti conosce per la collaborazione incredibile con Vasco e, più recentemente, con Sfera Ebbasta. Ma la tua carriera è legata a molti fuoriclasse della musica. Come è iniziato tutto?
Dalla mia amicizia con Carolina Di Domenico. Il marito, Pierluigi Ferrantini, cantante dei Velvet, è diventato il mio testimone di nozze, mentre il mio socio attuale di Except, Maurizio Vassallo, era il suo manager. Che bell’incastro, eh? Quando tramite Carolina ho conosciuto Pier erano i tempi di Boyband, la superhit dei Velvet, e volevo assolutamente incontrarlo per fotografarlo: è nato un sodalizio pazzesco. Lui mi ha tirato così dentro da portarmi con lui a Sanremo, presentarmi Maurizio e introdurmi nel mondo della discografia.
E nel mondo del videoclip a cavallo tra gli anni Novanta-Duemila, un periodo pazzesco. In quei primi anni hai incontrato chiunque: 50 Cent, Alborosie, Busta Rhymes, la moglie di Bob Marley, tutta la scena del rap italiano con Club Dogo, Fabri Fibra, Marracash, Clementino.
Più di 120 artisti in 5 anni. Dopo il programma di musica rap me ne hanno dato uno di musica rock. Era l’epoca dell’esplosione di videoclip, grafiche, cultura dell’immagine e discografia. Io lavoravo come art director in un’agenzia pubblicitaria, ho unito le cose ed è diventata una miscela forte. Mi sono messo in proprio con Maurizio Vassallo ed è nata Except.
Non posso trascurare lo snodo romantico della questione: com’è stato entrare in contatto con questi grandi nomi proprio agli esordi?
Mentre succedeva non me ne rendevo conto. È stato un ciclone intenso, veloce, ero così appassionato da lavorare senza mai fermarmi. Da fuori mi sono sempre visto “piccolo”. Quando poi mi fermo a chiacchierare, vedo la strada fatta e mi sconvolge. Sono pochi gli artisti che ancora non ho incontrato.
Hai mai sudato freddo?
Con Pharrell Williams. In quell’occasione mi sono tuffato, ho finto di avere tutto sotto controllo. Bisogna anche fare così per crescere. La verità? Alla fine puoi avere le idee migliori del mondo, ma se qualcuno non investe in te e nelle tue pazzie, non emergi.
Come ha fatto Vasco.
Il giorno in cui l’ho incontrato, dopo una puntata di Sky Arte, ho avvertito il salto.
La storia del famoso risvoltino dei pantaloni (che nel corso del loro primo incontro Romanoff gli aveva sistemato, di getto, durante le riprese di Cinque volte Vasco, per Sky Arte; ndr) ormai è leggenda per i fan. Invece quando c’è stato il vero salto?
Quando mi ha convocato in hotel a Milano e il suo manager, Floriano Fini, mi ha detto: «Peppe, vogliamo girare un video a Napoli». Ero contentissimo ma non avevo capito. Quando poi ho chiesto: «Come vogliamo farlo ‘sto videoclip? Avete un singolo da mandarmi già?», è arrivata la risposta: «Non è un singolo. Devi girare il video del concerto al San Paolo di Napoli». Mi viene ancora la pelle d’oca. Vasco tornava a Napoli e lo stadio veniva riaperto alla musica dopo 11 anni. Una capienza di 65.000 persone… E io non avevo mai fatto uno stadio, venivo al massimo dalle 3.000 persone dell’Alcatraz.
E pensa che nel 2017 ne avresti raccontate oltre 240.000 a Modena Park.
Capisci? Ma quello del San Paolo per me è stato un esordio incredibile. Ci ho messo tutto quello che potevo, mi giocavo una carta grossa. Sbagliare lì avrebbe significato non fare più niente.
Ma perché Vasco ha scelto proprio te?
Eh, a questa roba qua forse non saprò mai rispondere. Quello che mi dicono le persone più vicine a lui è che Vasco ha sempre avuto il fiuto per il talento. Mi dovrei auto-includere in questa considerazione, immagino… Io sinceramente non avrei mai rischiato di allocare una responsabilità e un budget così importante a una figura all’epoca sconosciuta come me. Insomma, con San Paolo nel 2015 Vasco tornava anche in tv dopo il crash del 2013.
In Italia esistono altri budget simili a quelli di Vasco?
Assolutamente no. Quello che si può permettere Vasco non se lo può permettere nessun altro artista. Da subito loro ragionavano alla vecchia maniera, cioè alla grande maniera. E io avevo il mito delle mega-production degli artisti internazionali, come gli U2 e i Depeche Mode. Concerti che quando li rivedi ci sono slow motion e carrelli. Pensa quando Vasco, di tutta risposta, mi ha detto: «Su Napoli voglio l’elicottero»: noi siamo andati proprio nell’iperuranio!
Una bella svolta nella tua carriera, no?
Nella mia e in quella della mia società. Il film-concerto quell’anno è stato campione di incassi al cinema nella sua categoria, e record di tutti i music film degli anni precedenti. I fan hanno apprezzato il cambio di direzione. Vasco rimase colpito dai momenti che avevo catturato…
Io me lo ricordo questo cambio: il tuo arrivo nel racconto di Vasco che, da reportage, si trasformava in racconto del mito. Una svolta allo scoccare dei suoi 63 anni. Qual era la vostra intenzione iniziale?
Io l’ho fatto spontaneamente. Non sono mai stato fan di Vasco, conoscevo poco il suo repertorio. Mio padre lo ascoltava, e anche per questo mi stavano sul cazzo le sue canzoni. Venivo da Napoli centrale, ero un figlio della scuola di Pino Daniele e Almamegretta. Vasco non mi entrava dentro. Dopo anni, qualcuno mi ha detto che è stato questo il segreto della quadra tra me e lui. Da non-fan ho rischiato di ‘pestare i piedi’ alla sua tradizione dei live, ho proposto quello che ritenevo migliore e lui mi ha lasciato grande libertà. Non lo so, io oggi non sono amico di Vasco. Ma qualcosa tra noi ha funzionato.
Tu hai applicato la cultura visiva del rock internazionale al repertorio di Vasco.
Esatto. Venivo da un altro mondo cantautoriale, ma la mia cultura delle immagini era cresciuta con icone del rock come Nirvana, Doors, Rolling Stones e Depeche Mode. Ho ripreso quella roba e ho pensato: Vasco è un personaggio che posso raccontare allo stesso modo. È un personaggio epico e va trattato come tale. Conoscendo il suo repertorio e il suo pubblico, ho capito che ha una forza talmente trasversale da andare oltre la canzone. Quando ti scrive «la vita è un brivido che vola via, è tutto un equilibrio sopra la follia» va oltre qualsiasi tipo di arrangiamento e costruzione. È una sensazione che arriva dritta alla gente.
Però dopo il primo vostro successo c’è stato un anno di buco nella collaborazione.
Sì, nel 2016 lui ha tenuto il regista degli show degli anni precedenti. Mi sono goduto lo spettacolo, sono andato a vedere il concerto a Roma, ero suo ospite. Ho sentito un certo languore, l’Olimpico è uno stadio importante.
E poi perché ti ha richiamato?
Non lo so. Davvero. Il 28 dicembre del 2016 sono stato richiamato: io non lo sapevo, ma l’operazione Modena iniziava già a montare. Floriano, il manager, mi disse: «Peppe, sentiamoci il 6 gennaio perché ti devo parlare di una cosa grossa». Che ne potevo sapere che sarei finito a fare Modena Park?
Eppure sei stato tu a raccontare Modena Park, nonostante la pausa del 2016.
Eppure sono stato io. Forse il progetto del 2015 era rimasto come un segno? Che poi il 2017 è anche l’anno in cui mi sono sposato, a settembre, dopo il luglio di Modena Park. Ne sono uscito con le gambe spezzate. Dopo Modena ho iniziato ad avere mal di testa lancinanti, dormivo male, avevo in mente i flash di quei mesi. Per tornare alla normalità c’è voluto tempo. Quella roba là è come una finale di coppa del mondo.
In quell’occasione il pubblico si aspettava e forse pretendeva un docufilm enorme. A Modena Park noi fan non riuscivamo neanche a vederci tra di noi, non capivamo dove iniziava e dove finiva il parterre: aspettavamo il tuo reportage. In un’intervista hai detto che avete perfino superato il livello dei Rolling Stones o degli U2. In che senso?
Nella difficoltà di Modena c’è stato il suo record. 240 mila persone dovevano vedere, sentire e immaginare una storia commemorativa di quarant’anni di carriera. Una bella responsabilità. Quindi oltre a gestire la regia, ho preparato tutte le video-scenografie, un lavoro di direzione creativa della parte visuale. Ho dovuto immaginare 40 quadri diversi per tutte le canzoni in scaletta, ho lavorato con un team pazzesco. Except aveva circa cento persone di crew tra cameramen, assistenti, montatori, producer e redattori.
Un colossal.
E pensa che l’indotto Modena, a livello di lavoratori, conta circa 1500/2000 persone sull’evento. Stiamo parlando di una roba gigante. La difficoltà fu che dal concerto doveva uscire il film per il cinema, la diretta tv, la diretta nei cinema via satellite e la visione sugli schermi sul main palco e sui vari delay piazzati nel parco. Ogni operatore doveva servire quattro fronti diversi, mi servivano più camere possibili.
Ma tu, alla fine, dov’eri durante il concerto?
Io ho deciso di chiamare un regista in seconda unità, come nel cinema, che gestiva la diretta del mezzo regia. Dato che avevo un rapporto con Vasco confidenziale, ho preferito fare la prima camera sul cantante e seguirlo con la macchina a spalla. L’arrivo insieme a Vasco in elicottero mi ha tolto in fiato. Così come la camminata prima di arrivare sul palco. Vedere lui che si gira, mi guarda in camera e mi dice: «Oh, cazzo, vado».
Quindi eri emozionato?
Sono uno emotivo sempre. Quasi mi dà fastidio raccontarlo oggi, mi sale su qualcosa… Non ci devo pensare. Se ci penso mi vedo in terza persona. All’epoca di Modena ho fatto un grande lavoro su me stesso, di respirazione, allenamento e alimentazione, sono stato seguito da un medico. Mi sono preparato mentalmente, era inaffrontabile. La mattina e la sera andavo in bicicletta, volevo rimanere in una soglia di normalità. Tutto Modena era incentrato su dove e come si sarebbe visto l’evento. E poi ho realizzato un mio sogno: girare una parte del concerto in pellicola, personalmente, su Sally. Mentre filmavo piangevo. A un certo punto non mettevo a fuoco bene.
Perché piangevi?
Eh, perché poi mi sono rivisto da fuori. Pensi a quando e come ci sei arrivato fin lì, alla storia dei tuoi genitori, mentre Vasco canta ‘sta roba che dopo anni, quando sei un quarantenne, capisci fino in fondo.
Alla fine Vasco ti è entrato dentro.
Alla fine è entrato. A volte, quando la sera torno a casa in moto, mi capita di pensarlo. Comunque vada, alla fine questo personaggio nella mia vita ci è entrato e mi ha cambiato qualcosa. Ho lavorato con tanti artisti, con cui paradossalmente ho più confidenza. Ma quello con Vasco è un legame diverso. È ovvio che devo pensare qualcosa di diverso per Sfera Ebbasta, Battiato e Ezio Bosso, perché sono mondi diversi. Ma ti voglio dire una cosa importante: la gente mi identifica tanto con Vasco, a cui devo l’80% di quello che ho fatto. È l’artista italiano vivente più incredibile, anche perché una vita come la sua non ce l’ha avuta mai nessuno in Italia.
Però per me è importante l’altra faccia della medaglia. Il rapporto con Guè Pequeno, il lavoro degli ultimi anni con Sfera Ebbasta, il film sulla vita di Tintoretto con Melania Mazzucco, un Premio Strega, il mondo di Cechov in cui sono entrato con Vinicio Marchioni, per Zio Vanja. Ci sono una serie di altre tappe, un mondo che prendo e porto ovunque con me, anche nelle cose che faccio con Vasco.
Ma sempre attento a schivare un legame troppo confidenziale. Che in fondo però c’è. Di cosa hai paura davvero?
Vasco è un pezzo di storia. La storia l’ha già fatta, e una parte di storia l’ha fatta fare anche a me. C’è un po’ di riverenza quindi, e anche l’idea che, per fare un lavoro impeccabile, io debba mantenere un minimo distacco. In questo periodo si è creato un rapporto più unico che raro, e ancora oggi mi chiedo perché questa persona ha scelto me per fare questo pezzo di percorso?