“Le malattie sono la sconfitta della medicina. La prevenzione è una parola dimenticata nel Servizio sanitario nazionale perché dà fastidio al mercato della medicina”. Silvio Garattini non ha peli sulla lingua. Scienziato e farmacologo di fama internazionale, fondatore presidente dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano, non la manda a dire. Chiarità di pensiero, equilibrio e al tempo stesso il parlar schietto lo contraddistinguono anche in questa intervista che ha concesso a VelvetMag. Frequenti i suoi interventi sui media in questi dodici mesi di Covid. Con lui abbiamo ripercorso il tema della pandemia, in cui siamo ancora immersi, anche e soprattutto alla luce del suo ultimo libro, da poco pubblicato, Il futuro della nostra salute – il Servizio Sanitario Nazionale che dobbiamo sognare (Edizioni San Paolo).
Con la sospensione di AstraZeneca in questi giorni è esploso il tema della sicurezza dei vaccini contro il Coronavirus, che messaggio vuole mandare ai cittadini?
Il ritiro del vaccino dal commercio è un atto dovuto. Non deve essere visto come un fattore di allarme. In Italia ogni giorno muoiono circa 1800 persone per le più diverse ragioni. Il fatto che vi siano casi sospetti non deve farci pensare che ci sia necessariamente un rapporto di causa-effetto col vaccino. Avere dubbi è giusto. Vaccinarsi, però, è meglio che non vaccinarsi. In Italia abbiamo avuto finora oltre 100mila vittime del Covid, senza i vaccini. Manca, inoltre, una voce adeguata e competente a livello governativo che sia in grado di dare spiegazioni alla popolazione che comprensibilmente ora ha paura. Si accavallano molte voci ma la comunicazione su questi temi, di per sé complessa, andrebbe affidata a persone competenti in grado di spiegare bene.
Dopo un anno di pandemia cosa abbiamo imparato?
Il valore della prevenzione, innanzitutto. Una parola dimenticata nel Servizio Sanitario Nazionale, perché dà fastidio al mercato della medicina. Molte malattie sono causate da stili di vita sbagliati. Il 70% dei tumori sono evitabili. Serve una rivoluzione culturale che dia priorità alla prevenzione: le malattie sono la sconfitta della medicina. Dobbiamo inoltre cambiare il Servizio Sanitario Nazionale: destatalizzarlo, slegarlo dalla burocrazia e dalla politica, renderlo agile, duttile. Fare in modo che alla fine assomigli a una fondazione senza scopo di lucro, per una società delle persone.
Lei sottolinea l’importanza della medicina del territorio e parla di un’Italia “ospedalocentrica”, perché?
È un’altra lezione di quest’anno di Covid. Prevenzione e medicina del territorio evitano l’ospedalizzazione. Un medico di base non può occuparsi da solo della salute di 1500 pazienti. Dovremmo creare cooperative, centri salute, sistemi, li chiami come vuole, che consentano a 5-6 medici insieme di tenere aperto un ambulatorio costantemente, dove agirebbero anche infermieri e psicologici. Tutto questo farebbe da filtro per diluire il ricorso delle persone ai pronto soccorso e agli ospedali. Si dovrebbe anche incrementare la telemedicina, gestibile a distanza, in modo da diminuire il ricorso dei pazienti agli stessi ambulatori. Tutto ciò va contro la nostra struttura ospedalocentrica che è funzionale al mercato della medicina.
Nel suo libro invita a riflettere sul fatto che “bisogna sognare per ottenere grandi risultati”. Qual è il suo sogno, professore?
Il mio sogno è che si cominci a discutere di questi problemi, che si pensi alle possibili soluzioni per conservare il Servizio Sanitario Nazionale e renderlo sostenibile. Solo gli anziani oggi si ricordano di cosa c’era prima, 50 anni fa: la mutua. Un sistema dove, in pratica, chi aveva possibilità economiche era in grado di far fronte ai problemi di salute, gli altri no. Dobbiamo preparare un’evoluzione culturale, a cominciare dalla scuola, dove la scienza ha ancora poco spazio. Manca un’educazione alla salute che dobbiamo cominciare dai più piccoli.