Creativo. Visionario. Sperimentatore. Sempre proiettato verso il futuro.
Pier Cortese è tornato. Dopo dodici anni trascorsi tra collaborazioni con altri artisti (da Simone Cristicchi a Roberto Angelini, da Niccolò Fabi a Claudio Gnut), produzione di dischi per vari colleghi (uno su tutti Fabrizio Moro), composizione di brani per vari interpreti, il cantautore romano de “Il clown”, “Souvenir”, “Dimmi come passi le notti” ha ritrovato il suo estro e il suo stile.
E’ uscito dall’apnea, come dice lui stesso, e si prepara a pubblicare il suo nuovo album. Quando? Probabilmente in autunno. Nel frattempo ci regala due singoli potenti e intensi, l’onirico “Tu non mi manchi” e il recente “E’ per te”, pubblicato lo scorso 25 marzo.
Intervista esclusiva a Pier Cortese
Dal titolo della tua più recente canzone, sembrerebbe tu ti rivolga a una persona specifica. In realtà ascoltando il brano si capisce che il “te” cui fai riferimento è un tu più universale…
Assolutamente. Ho lasciato spazio all’universo in questo caso. Questo brano è una specie di ristoro musicale come si direbbe oggi, una dedica alla parte più fragile del mondo, un inno che vuole dare importanza soprattutto al mondo dell’infanzia. Quando parlo, ad esempio, della fatiscenza delle scuole mi riferisco a questa energia implosa, gestita faticosamente dalle generazioni più giovani, che subiscono tantissimo il peso di questo periodo.
Che significato ha il coro di bambini che impreziosisce il brano?
Quella parte rappresenta la speranza nel futuro, una sorta di consegna generazionale di fiducia, di empatia, di desiderio di un futuro migliore per tutta la parte più fragile della popolazione, per le nuove generazioni. L’auspicio è che facciano meglio di quanto abbiamo fatto noi, che vedano il mondo in modo migliore.
Dal punto di vista delle sonorità, si conferma il fatto che sei un autore pop nell’intimo. Lucio Dalla e Lucio Battisti rimangono i tuoi punti di riferimento fissi, ma c’è sempre anche una gran voglia di giocare con i suoni, di contaminare. Cosa rappresenta per te la sperimentazione?
La sperimentazione è cercare di andare a scovare delle zone nuove e scattare delle fotografie nuove. Quando si fa musica, ci si sente spesso a proprio agio con il già sentito, che crea una specie di comfort zone, una sicurezza che risiede sia nell’orecchiabilità delle parole che nell’arrangiamento e nella produzione. Io cerco di andare a scattare istantanee diverse.
Il mio riferimento a Battisti e Dalla non consiste solo nella bellezza della loro discografia. Io seguo anche la loro attitudine, e per questo mi chiedo sempre cosa farebbe Battisti se fosse vivo oggi. In realtà mi è molto chiaro perché lo ha dimostrato con la sua vita e le sue opere. Quello che faccio è esplorare nuovi territori con la speranza che le foto nuove che propongo al pubblico possano essere interessanti non solo per me.
Il video della canzone è diretto da te insieme a Walter Monzi. Da dove è nata l’idea di porti in consolle e di vedere altre immagini particolari che si sovrappongono a te mentre sperimenti suoni nuovi?
Volevo dare la percezione di ciò che potrebbe succedere dal vivo, quando potremo rifare i concerti. Le immagini servono come supporto ai suoni, spesso sono o il prolungamento del suono, o una metafora, una suggestione che vuole collegarsi a quello che sto dicendo o suonando. Il video nasce con il desiderio di dare il sapore di quello che potrebbe succedere nel contesto live.
A tal proposito: come vedi il futuro della musica dal vivo? Secondo te riusciremo a goderci di nuovo i concerti come facevamo prima?
Ho la sensazione che questa apocalisse non debba essere un qualcosa che passa senza lasciare un segno. Non possiamo e non dobbiamo tornare allo stesso punto in cui ci trovavamo prima, spero davvero che la maggior parte di noi abbia lavorato in senso evolutivo per capire e superare ciò che stiamo vivendo. La speranza di ritrovarsi con un abbraccio, un contatto, in un concerto credo proprio che ci sia.
Spero sarà possibile non dico tornare alla normalità o al punto di prima, bensì arrivare a un’altra possibilità, che dovremo sfruttare molto meglio di quanto abbiamo fatto, sia come ascoltatori e utenti che come abitanti di questo pianeta.
L’altro singolo che hai lanciato a gennaio si intitola “Tu non mi manchi”. Da dove è nata la scintilla per questa canzone?
Questo brano è figlio di un lungo periodo di silenzio in cui mi sono messo in discussione umanamente e artisticamente. Sono stati dodici anni lunghissimi e difficili, quelli trascorsi dall’ultimo album che ho pubblicato come solista (“Nonostante tutto continuiamo a giocare a calcetto” del 2009, ndr): mi sono sentito come in apnea in quel periodo. Mi sembrava che tutto andasse bene, che tutto fosse normale ma, come dice la canzone, la mia era un po’ una quotidianità sospesa.
Anche nel videoclip, che ho diretto sempre con Walter Monzu, mi si vede sott’acqua, a fare con lentezza e difficoltà tutti i gesti che caratterizzano la vita di ogni giorno. Avevo come la sensazione di vivere normalmente ma senza un centro, senza essere in asse. Ho lavorato molto su me stesso, e questa canzone esprime questo, con un’idea di rinascita, di silenzio che poi diventa un respiro profondo. Ho scritto la canzone nel momento in cui sono uscito da questa apnea.
Quando uscirà l’album?
L’album uscirà quando forse potremo ricominciare a suonare dal vivo, a ottobre credo. Nel frattempo, tra la fine di maggio e gli inizi giugno, uscirà un altro singolo e a settembre un quarto brano.
In che modo i primi due singoli sono rappresentativi di tutto il disco?
Questi due brani sono un compromesso di lettura abbastanza fedele del tentativo di non farmi sfuggire il concetto di canzone e neanche di sperimentazione. Ho cercato di stare in una specie di luogo dove le due cose si accompagnano senza che l’una sia troppo ingombrate per l’altra. Sono un bilanciamento giusto per quello che è stato il mio percorso.
Considera che questo disco è pronto da tanti anni, ma per molto tempo ho pensato che non fosse buono, non andasse bene. Nel mio periodo precedente avevo una sorta di depressione artistica, non avo fiducia nelle cose che ascoltavo, avevo un senso critico molto profondo. Ho imparato ad amare quelle stesse cose col tempo, e mentre imparavo sentivo che cambiava qualcosa dentro di me.
Tutto questo è stato frutto anche di un lavoro artigianale: ogni giorno aggiungevo un elemento rispetto a quello che era il commento, il riassunto della mia giornata o rispetto a come mi sentivo. È stato un lavoro lungo sia psicologicamente che praticamente, ho trascorso tanti mesi fuori casa per prendere spunti e cercare ispirazioni.
In un’intervista di qualche tempo fa hai dichiarato: “Le collaborazioni sono linfa vitale artistica e io ne sono dipendente”. In effetti negli anni hai collaborato con Roberto Angelini, Niccolò Fabi, Fabrizio Moro, Simone Cristicchi solo per fare alcuni nomi. C’è una collaborazione che sogni e non sei ancora riuscito a realizzare?
Ce ne sono diverse, ad esempio mi piace come si muove Cosmo, dentro la musica e dentro la canzone: mi piacerebbe un giorno riuscire a trovare il modo di fare qualcosa insieme. Adesso sto producendo il disco di un cantautore che si chiama Emanuele Colandrea e, oltre a lavorare per lui, ho avuto il piacere di ascoltare la sua musica.
Credo che in questo momento ci siano tanti artisti in giro che hanno delle grandi idee e producono delle cose belle. Sono molto aperto alle collaborazioni, portano elementi e paradossi che servono a creare quell’elemento ricercato di cui parlavamo, sono altre vite che aggiungono alla tua dei valori che non avresti immaginato o visto o visitato.
Hai realizzato anche alcune colonne sonore, tanto che nel 2017 hai vinto il Premio Flaiano per le musiche del cortometraggio “Corpo” di Davide Colaiocco. Che tipo di soddisfazione ti dà questo tipo di lavoro rispetto al comporre canzoni per te, o suonare dal vivo, o comporre per altri?
Quando scrivo canzoni è come se componessi colonne sonore, affronto i brani come una schiera di immagini cui dare un suono. Questo è il mio approccio alla musica, la canzone diventa tale per caso, non parto dal voler scrivere una pezzo, soprattutto in questo periodo.
Mi piace creare un mondo sonoro al cui interno finiscono varie cose, a volte anche una canzone. Realizzare i videoclip è come fare una colonna sonora al contrario, si tratta di generare immagini su una musica, anziché creare una musica su delle immagini. Le cose tornano sempre, ma dentro io parto già con un meccanismo di questo tipo. Quando faccio colonne sonore vere e proprie, mi trovo molto a mio agio. Già da piccolo davo suono alle immagini, anche durante i viaggi in auto con i miei passavo il tempo a immaginare piccole colonne sonore su spazi o tempi vuoti.
Se mio padre metteva la freccia, ad esempio, immaginavo sequenze di percussioni tribali ogni volta diverse e fantasticavo sui luoghi. Tutto iniziava con la freccia della macchina che poi diventava la freccia di un indiano perché nel mezzo c’era stata una sequenza percussiva che seguiva l’indicatore dell’auto.
Questo tipo di deformazione mi è rimasta anche da grande, è come una sorta di difesa per affrontare alcune situazioni in cui non mi va di stare.
Photocredits: Magda Pederecka