Quanto conta alzare la voce oggi dinanzi alle crepe di una società che fatica a rimarginarle? Se ne parla e se ne discute da decenni. Ma dovevano riempirsi le pagine delle testate giornalistiche, i talk show televisivi per avere una degna attenzione. E purtroppo abbiamo aspettato troppo tempo, tutti noi, per alzare la voce contro chi fa della violenza fisica, psicologica, morale una sua espressione e arriva, a volte, a un delitto vero e proprio. Con la rappresentazione teatrale Alza la voce – uno spettacolo prodotto da TSA e Stefano Francioni Produzioni – nata dalla penna di Paola Michelini e dal regista Paolo Civati, si riflettere sugli stereotipi legati al genere femminile, attraverso i personaggi di due donne: Stella e Pizza.
Alza la voce prende spunto da un fatto realmente accaduto, un orso chiuso da anni all’interno di una teca in un centro commerciale in Cina, e che utilizza la metafora per riflettere quei luoghi comuni che da tempo denigrano la donna. Il confronto ironico e surreale che procede per analogie, per sfumature visive, sonore ed emotive, è messo in scena da Paola e Giulia Michelini. Le due attrici saliranno sul palcoscenico con Alza la voce il 6 maggio alle ore 20:00 al Teatro Stabile d’Abruzzo. Naturalmente è la prima data di un tour che si spera potrà andare avanti nel corso dell’estate. Con l’evento atteso e voluto dal direttore artistico Giorgio Pasotti, si tornerà al contatto diretto con il pubblico, anche se con un numero di posti ridotti e la rigida osservazione di tutte le norme anti contagio da Covid.
Paola Michelini a VelvetMag ci parla di Alza la voce
Dopo più di un anno di silenzio e luci spente, insieme a tua sorella Giulia Michelini e tutti coloro che fanno parte dello staff vedrete riaprirsi il sipario. Con quale spirito affronterai, affronterete, questo – si spera – nuovo inizio?
Stiamo cercando il più possibile di essere positivi, con la speranza che si possa tornare il più presto possibile alla normalità. Il pubblico contingentato è tutto diverso, al di là delle spese, è una questione di sentimento in sala: un conto è quando è piena, un conto è quando non lo è e ci riempiono le prime file per far sentire proprio quel calore. Adesso invece si dovrà mantenere una grossa distanza tra tutti gli spettatori. E la paura, sì, è quella che si perda un po’ di quell’energia che serve al teatro, che riesce a tenere unito il pubblico condividendo insieme l’esperienza teatrale. Vedremo!
Il mondo dello spettacolo, dell’arte ci ha fatto compagnia in questo particole e delicato periodo storico. Ha unito centinaia di persone nonostante le distanze ed è stato quasi come sorreggersi su una spalla nei momenti più critici e colmi di solitudine. Quindi ti chiedo che ruolo ha avuto l’intrattenimento secondo te, nel periodo del lockdown? Tra le tante micro realtà piegate dalla diffusione epidemiologica, lo spettacolo ha ricevuto un nobile riconoscimento?
L’intrattenimento non è un qualcosa che semplicemente intrattiene, ma è una realtà che può nutrire l’anima, o educare. Può avere un valore molto più complesso e più ampio. Ridurlo, purtroppo, e trattarlo così dandolo per scontato, è triste ed offensivo.
Ad oggi si ha un profilo più chiaro di quello che stiamo affrontando, sappiamo con chi abbiamo a che fare e come comportarci per evitare il rischio di contagio. Ed è per questo che credo sia giusto anche alzare un po’ la voce per risollevare le realtà lavorative piegate dall’epidemia. E mi collego esattamente a questa azione, anche se il tema è ben lontano, per poter introdurre lo spettacolo teatrale che avrà la sua prima nazionale il 6 maggio all’Aquila. Questo spettacolo è dedicato a quale categoria di persone che dovrebbero avere il coraggio di alzare la voce?
Guarda, non direi “avere il coraggio di alzare la voce”, perché purtroppo a volte non è così semplice. Non è solo una questione di coraggio. Però posso dire che sicuramente è uno spettacolo legato soprattutto al femminile. Noi siamo partiti da uno spunto, da un fatto di cronaca, che è questo orso chiuso in una teca dentro un centro commerciale in Cina come attrazione, e ne abbiamo fatto poi una metafora: nel nostro racconto l’orso è in realtà un’orsa e siamo partiti esattamente da questo per raccontare un po’ tutti gli stereotipi legati al mondo del femminile. Benché se ne parli tantissimo e sia un tema altrettanto caldissimo, siamo ancora, purtroppo, anni luce lontano dall’averlo veramente affrontato e risolto.
In Alza la voce c’è chi sottolinea la presenza della stand-up comedy. Possiamo definire questa forma di spettacolo come una fotografia del tema che verrà raccontato al pubblico?
Sono sicura che i puristi della stand-up comedy un po’ storcono il naso, nel senso che è un tema molto delicato. Sai, io scrivo e ho fatto serate anche di stand-up con il mio gruppo collettivo che si chiama U.G.O, e c’è sempre un dibattito molto acceso, molto aperto su cosa è esattamente stand-up comedy e cosa è semplicemente rompere la quarta parete e rivolgersi ad un pubblico. Noi facciamo un po’ questo: rompiamo la quarta parete e parliamo spesso al pubblico. In realtà è uno spettacolo che ha una connessione di linguaggi, e questo – secondo noi – è anche un punto di forza perché alterna vari registri. Si passa infatti dallo stand-up più diretto che chiama in causa il pubblico ai livelli, se vuoi, più poetici a quelli visivi, in quanto ci sono momenti visivamente molto forti. Quindi sì! Il linguaggio da stand-up è uno di questi.
La domanda che sto per farti ha riempito pagine di magazine cartacei e online. Credo però che non sarà mai abbastanza parlarne finché il problema continuerà a rovinare vite. Qual è il motivo per il quale una grande parte del genere maschile denigra la donna, in tutte le sue forme: psicologiche, fisiche, morali?
Eh! È un problema. Sono secoli di diseducazione. Il fatto che la donna venga vista come un’appendice dell’uomo, priva di una sua autonomia e di una sua indipendenza, ciò porta l’uomo a vede la donna come un’estensione di sé, e non una persona a parte, pensante. E quando subentra il momento in cui lui la perde, credo che il femminicidio sia proprio la rivendicazione di un possesso che sta perdendo in quel momento. È allucinante, davvero.
Poi, c’è da dire inoltre che sì, sicuramente è anche un problema culturale. Non possiamo dare tutta la colpa all’educazione o al nucleo familiare. È chiaro che purtroppo, questo germe della cultura maschilista, patriarcale e della prevaricazione, faccia parte del sub-strato della nostra cultura. È un problema che andrebbe risolto alle radici, alle fondamenta della nostra società. La scuola per esempio avrebbe un ruolo fondamentale in questo.
C’è un motivo in particolare per il quale avete scelto di raccontare la storia dell’Orsa Pizza nel periodo della riapertura di teatri e cinema?
È pazzesco vero? Infatti è stata una coincidenza. Ho scoperto l’esistenza di questa teca e di questo orso da più di un anno circa, ed è una notizia che mi ha sconvolto fin da subito. L’ambientalismo, la prevaricazione dell’uomo su tutto ciò che è natura, animale, sono temi molto importanti per me. E il fatto che un animale selvaggio – che dovrebbe vivere in libertà – venga chiuso dentro una teca, posta in un centro commerciale per far sì che venga più gente coi loro bambini a veder l’orso, è una cosa che mi fa orrore. È lapalissiano di come siamo ridotti noi oggi. Lo trovo molto triste e al contempo pregno per essere una storia interessante da raccontare.
I personaggi principali sono due donne: Stella e Pizza.
Sì, siamo solo io e Giulia, mia sorella. Noi due in scena. Io sono Stella una donna che lavora in questo centro commerciale impegnata a fare le pulizie, e poi c’è Giulia che fa l’Orsa chiusa nella teca. Sono due donne nonché due facce della stessa medaglia. Molto diverse sì, ma in realtà anche altrettanto simili. Sono quasi la stessa cosa. Non a caso è un lavoro che abbiamo fatto sul doppio, e che chiaramente, abbiamo sfruttato il discorso del fatto di essere sorelle.
In che modo tu e Giulia Michelini vi siete approcciate ai personaggi? Quale porta avete riaperto del vostro passato per poter interpretare al meglio Stella e Pizza? Se sempre ce ne stato bisogno…
Guarda, sì! Abbiamo lavorato con Paolo Civati, un regista con cui io lavoro da anni e che ho conosciuto in accademia tempo fa. Da allora, vite permettendo, non abbiamo mai smesso di collaborare a livello artistico. Ed è stato naturale fidarmi ciecamente di lui a far entrare Giulia in questo mondo. Lei si è trovata benissimo e si è lasciata andare.
Abbiamo lavorato soprattutto nella fase iniziale, in quanto non avevamo ancora un testo scritto, e abbiamo lavorato di improvvisazione per far uscire delle cose. Sicuramente sì, siano andate a tirar fuori degli aspetti personali di persone, di donne ma anche di sorelle. È stato sempre tutto molto catartico se vuoi, una sorta di viaggio che abbiamo intrapreso insieme. Possiamo ritenerci abbastanza soddisfatte. Poi si sa, vedremo se lo sarà anche il pubblico. Speriamo!
Che cosa rimarrà nella mente di quel pubblico che si accomoderà finalmente in teatro e assisterà alla rappresentazione dopo che l’ultimo atto verrà messo in scena?
In questo spettacolo si ride anche vorrei precisare. È divertente. Poi sai, è un po’ la cifra che noi cerchiamo di portare avanti con i nostri spettacoli: far sì che il pubblico si diverta, ma che alla fine se ne vada anche con una riflessione importante.
Oltre al 6 maggio ci sono altre date in programma?
Beh, per il memento sì! Il 6, 7 e l’8 siamo a L’Aquila e poi stiamo ragionando su quelle estive che vedrebbero forse Bologna, forse Brescia. Ovviamente navighiamo a vista.