Ha quasi un milione di followers su Instagram e i suoi tutorial di make-up che spaziano dal trucco natural al più estroso conquistano il vasto pubblico social. Ha 23 anni, un ragazzo che ama – conosciuto nel mondo televisivo – e un passato intenso da raccontare, che prende forma tracciando pagine di un libro: il suo. Con La vita secondo Naty, l’influencer Natalia Paragoni si racconta a cuore aperto.

Dislessia, atti di violenza fisici e verbali, bullismo, sono solo alcuni dei temi che abbiamo affrontato nel corso di questa intervista esclusiva. Nel tempo Natalia ha sviluppato un’arte nell’esorcizzarli con il semplice uso dei colori che spesso dipingono il suo volto. E no, non è uno slancio naïve, al contrario è frutto di consapevolezza. Il suo libro autobiografico edito da Mondadori Electa, è un racconto privo di filtri. Sincero e crudo come è stato il suo passato, che poi, avendo solo 23 anni, non è così lontano.

Intervista a Natalia Paragoni per VelvetMag

 

Partendo dalla sinossi e non dalla prima pagina del tuo libro, è chiaro cosa andrà a conoscere il lettore. Sicuramente scoprirà una parte di te che non è mai andata oltre lo schermo di un qualsiasi cellulare. Ma prima di riavvolgere quel filo della memoria che citi, qual è stato il motivo per il quale hai deciso di andare indietro nel tempo e trascrivere tutto su delle pagine bianche?

Volevo raccontare la mia vita con un mezzo di comunicazione differente rispetto al social e che potesse rispecchiare i miei pensieri, perché sono comunque una persona molto antica d’animo, ed è per questo che ho scelto le pagine di un libro. Con questa autobiografia volevo raggiungere le ragazze che mi seguono e sensibilizzare loro alla lettura. Io questo, purtroppo, l’ho capito tardi!

Un porto sicuro è certamente l’abbraccio di una persona che ti ama e che ti lascia libera di vivere. Ma allora perché spesso ci ritroviamo a rintanarci in quel porto sicuro nonostante quella stessa persona – che ci dice di amarci – arriva addirittura a lasciarci lividi e a privarci della nostra libertà?

Nel mio libro ho parlato di persone nocive che ho conosciuto e che le ho considerate tali troppo tardi. Perché sì, sono una donna abbastanza cocciuta. Finché non ci sbatto la testa continuo ad andare avanti. Per fortuna non l’ho sbattuta troppo forte in passato, nonostante abbia subito atti di violenza sia verbale che fisica. Ovviamente queste persone non hanno tracciato un passaggio “buono” nella mia adolescenza. E se ti chiederai il perché io sia rimasta al loro fianco per molto tempo, beh, il primo è per un legame affettivo. Lui conosceva mio nonno, una persona per me importante, fondamentale nella mia vita, e questo mi ha legata ancora di più a lui. L’altro invece, credo proprio per ingenuità.

Noi donne siamo molto infermiere. Cerchiamo di vedere il lato buono delle persone ma non capiamo che non siamo noi che possiamo cambiarli. Dobbiamo, al contrario, pensare un po’ più a noi stesse. Anche se per assurdo qualcuno può percepirlo come un pensiero egoistico, è invece la realtà. Capita che ci concediamo poco per il nostro benessere, abbiamo questo maledetto vizio di vedere sempre il buono e di sperare che prima o poi “lui” cambierà. Ma non è, e non sarà così. Anche se antico, ritorna sempre quel classico detto del lupo che cambia il pelo ma non in vizio; non è mai stato così veritiero.

È capitato, anzi, capita spesso che tante ragazze mi abbiano confessato le loro violenze, tuttora in casa. Io consiglio di parlarne, sempre. «Se vi sentite in difetto confidatevi con la vostra famiglia, con i vostri migliori amici. L’importante è fare qualcosa». E soprattutto, non smetto mai di sottolinearlo: «Se la persona ama, non torcerà mai un capello e soprattutto, nessuna brutta parola sarà detta».

In una pagina ben precisa del tuo libro che mi è rimasta particolarmente impressa, ti poni una domanda senza ricevere nessuna risposta subito dopo esserti trovata le mani del tuo ragazzo di allora “M” , inchiodate intorno al tuo collo. È la seguente: «Come hanno fatto i suoi genitori a non svegliarsi?». Te la faccio io ora questa domanda: «Come hanno fatto?»

La mia prima relazione mi sembrava normale, perché non avendone mai avuto altre così serie prima, credevo che rientrasse nella routine vivere certe cose. Ne ero così convinta a tal punto che non ne parlavo nemmeno con i miei genitori. Me ne sono resa conto dopo, quando è subentrata la gelosia maniacale da parte di “M”, finché poi non è esploso tutto con l’atto fisico. Quella notte i miei pianti si sentivano. Si capiva benissimo che non era un semplice litigio ma qualcosa di più. Erano le tre di notte, credo, e la loro camera stava di fronte alla sua. «Come hanno fatto a non sentirci?» – mi sono chiesta, sì! Credo che di base c’era quella mentalità laddove ognuno ha la propria privacy, quindi nessuno si preoccupa delle situazioni degli altri.

È durata per ben cinque anni per quanto fosse stato bravo nel farmi il lavaggio del cervello dicendomi ripetutamente: «Tu senza di me non avrai mai nessuno, sarai sempre da sola». Mi sentivo inadeguata, sbagliata. Finché poi, cambiando lavoro è cambiato automaticamente qualcosa. Ma è stata comunque lunga.

Li hai mai più rivisti? 

Li ho incontrati una volta prima di iniziare Uomini e Donne e poi non li ho più visti.

I gong che hanno centellinato periodicamente la tua vita, e mi piace numerarli con un bel tondo 23, esattamente come i tuoi anni, hanno anticipato spesso quello che sarebbe stato l’inizio di una nuova battaglia. Bastava riscaldare l’eyeliner di tua mamma, vecchio e secco e aggiungerci poi un’altra riga glitterata sulla tua palpebra. Ed ecco che la maschera da lottatrice era pronta. Anche tra i banchi di scuola lo hai fatto. Cosa non dovrebbero fare assolutamente gli insegnati di una scuola?

Ogni ragazza è libera di esprimere la propria personalità nel modo di vestire, di truccarsi e porsi, e non deve esserci nessun pregiudizio. Se voglio mettere uno smalto che io sia maschio o femmina, o truccarmi, devo essere libera di farlo e serena nel distinguersi. Se si è adolescenti, bisogna trovare la propria strada senza inciampare nello stereotipo di essere uguale agli altri.

I professori dovrebbero capirlo un po’ di più. Io per esempio sarei contenta se a scuola ci fossero le divise. Ma anche in quel caso mi piacerebbe pensare che lo studente possa sentirsi libero di creare qualcosa di suo, di personale, ed esser originale anche partendo da una semplice divisa scolastica. Tutti questi dettagli, nel mio caso, non venivano capiti dai miei insegnati che giudicavano il mio modo di truccarmi. Ma nonostante tutto continuavo, perché volevo esprimere la mia creatività in quanto anche animo libero.

E vorrei aggiungere: per quanto possa essere lontana la risoluzione del problema, oggi noto che alcuni professori hanno iniziato ad informarsi, ma questo non basta. Secondo me c’è bisogno di un vero rinnovo nella scuola: maestre e maestri giovani che abbiano una cultura più aperta, in costante evoluzione. La differenza tra insegnate anziano e bambino è così netta, costellata da mondi troppo lontani, che può rendere il tutto ancora più difficile.

Ciò che ho riscontrato nel mio trascorso scolastico è stata la scarsa cultura alla dislessia. E ancora oggi credo che vi siano pochi corsi di aggiornamento. Ho avuto questo problema, lo chiamavo così. I professori, allora, me lo hanno fatto pesare perché mancava appunto quell’informazione. All’epoca eri semplicemente un somaro. Ed ecco che il pregiudizio si accompagnava con l’ingresso del bullo della classe che ti faceva gesti o “cose” strane in bagno. Se non intervengono i professori, qui si crea un circolo vizioso che non si placherà!

Il make-up è stato un tuo alleato di sempre. Ma è accaduto che ti abbia messo in difficoltà, perché forse troppo pesante tanto da non filtrare le tue reali emozioni.

Quando frequentavo la scuola non ero così perfezionista come lo sono adesso. Oggi mi ritrovo un bagaglio del tutto differente, reso tale dagli studi e dalle esperienze, ma prima per me era un mondo tutto nuovo. La riga dell’eyeliner non era la stessa che riesco a fare adesso, e la gente non mi capiva. Forse la società è abituata ad uno stile standard. Ecco perché non accetta ciò che è fuori dagli schemi. Mi ricordo che mettevo ovunque i glitter, in varie occasione, sia se ero felice o meno. E mi presentavo spesso con un eyeliner rosa o con i capelli strani. Particolari dettagli che andavano in contrasto con il classico stereotipo dei giudicanti. La diversità – soprattutto in un paese piccolo – non ha avuto, e non ha tuttora, la libertà d’espressione. Questo accade anche sui social.

Quando pubblico un make-up un po’ più complicato o stravagante, capita di leggere dei messaggi negativi. Uno dei tanti limiti è non capire che nell’interpretare c’è arte. Nella mia imperfezione creo la mia perfezione. Il make-up è come un quadro, se io avessi un paesaggio davanti e lo dovessi riprodurre su tela, la neve che vedrei sulle montagne la farei blu.

Improvvisamente un nuovo incidente ha portato a un’altra cicatrice. Questa è una delle ferite che se fisicamente si rimargina, dentro rimane. Sei giovanissima Natalia, ma in un’età ancor più giovane hai conosciuto il dolore dell’aborto. Che cosa è successo nella tua mente, sul tuo fisico, in quel periodo?

Io lo volevo! L’esser mamma era dentro di me da quando avevo 18 anni. Avere un bambino era il mio desiderio. «Se non trovo la persona giusta non è importante, basta che c’è mio figlio» – dicevo allora, con tanta convinzione. E lo pensavo ingenuamente anche quando stavo con il mio secondo ragazzo. Il quel periodo avevo letteralmente le “fette di salame sugli occhi”. Non capivo che non era la persona adatta, soprattutto per farci un figlio. Ma ero così tanto orgogliosa e mi sentivo così realizzata professionalmente, che pensavo: «Mi mancava solo un figlio e una casa».

Lo ricordo ancora, sai? Ero al telefono con mia madre, durante la pausa pranzo – in quel periodo facevo l’estetista nel mio centro estetico – e mi ero recata nel bagno del supermercato. Ricordo di aver fatto il test e di aver informato mia madre con un «Mamma è positivo. Sono incinta!». Sai cosa mi ha risposto lei? «E mo’ chi glielo dice a tuo padre?». Sapevo che non era la cosa più bella che poteva succedermi, ma ero felice e la mia famiglia non capiva il mio stato d’animo. La persona al mio fianco non poteva aiutarmi con un bambino, e loro lo avevano capito. Dopo esserci scontrati a causa di alcune situazioni, io e mio padre non ci siamo parlati per un po’, finché un giorno non ho perso il bambino.

Mi trovavo da sola. Anche se il mio ragazzo di allora c’era, mi aveva messa da parte quel giorno quando sono apparse le prime perdite: «Sto qua a vedere la partita. Vai te in ospedale», mi aveva risposto. Io stavo per morire dentro insieme al bambino e a lui non gliene fregava nulla. Questa è la dimostrazione che mi è rimasta più impressa. Forse è brutto da dire, ma ho ancora la foto del bambino. Lo senti immediatamente che il corpo sta cambiando, e quando questo improvvisamente vien meno e ti senti in difetto, sbagliata per l’ennesima volta, ti porta ad uno stato di depressione abbastanza importante. Io in quei mesi ho lasciato il lavoro e sono tornata a casa per cercare di riprendere la mia vita laddove si era interrotta.

Non vorrei entrare troppo nel dettaglio, ma da qui in poi c’è una voce narrante diversa. Si percepisce una nuova energia ed ecco che viene fuori la nuova Naty. Chi è innanzitutto e cosa ha custodito del passato?

La nuova Naty ha custodito il rispetto per se stessa, fregandosi oggi anche di alcune persone. Perché sì, in questi due anni ho preso altre fregature che potevo evitare. E per capirlo, c’ho dovuto sbattere la testa molte volte. Tante!

Cosa ti ha reso nuovamente felice?

Beh, ho un ragazzo fantastico al mio fianco che ha tutto quello che gli altri non avevano. Non sto facendo da infermierina, e direi meno male. E poi… sono felice, perché ho la mia famiglia che è altrettanto serena e un fratello che sta facendo dei passi importanti per la sua vita. Ha intrapreso l’università e sono contenta perché volevo che almeno un componente della famiglia si laureasse.

Concedimi una piccola curiosità: ma anche Andrea chiama tuo padre Ivan il Terribile?

Andrea lo chiama Ivano, col suo vero nome. Lo chiama proprio per esteso come se fosse il Re in persona (ride, ndr). Il timore lo ha sempre avuto. Mi ricordo infatti la prima volta che Andrea doveva incontrare mio padre. Per prepararlo gli avevo spiegato un po’ il suo carattere e come si era posto con i miei ex. Sai cosa mi aveva detto? «Oh mio dio! Io non ci voglio andare». Poi ovviamente si sono incontrati e, dopo averlo inquadrato, ora guai a chi gli tocca Andrea!