Si fa presto a parlare di icone e ci si confonde facilmente, tra falsi miti e facili entusiasmi. Quelle vere però attraversano le epoche e cambiano il costume di un paese: Raffaella Carrà era un’icona. Questo è il primo motivo per cui adesso sentiamo di aver perso qualcuno di importante, come se ci riguardasse personalmente. Che poi, siamo così sicuri che non ci riguardi da vicino?
Raffaella Carrà: la colonna sonora di diverse generazioni
Per me non c’è stata festa senza la Carrà. Non c’è stato compleanno senza Tuca Tuca, non c’è stato Capodanno senza il trenino di Tanti auguri, non c’è stata serata tra amici senza Pedro, né alcun tipo di catarsi senza l’aiuto di Rumore o Ballo Ballo. Questo è rilevante nella misura in cui chi scrive è figlio degli anni Novanta e quindi di una generazione diversa. Raccogliere il mito senza vederlo fiorire ha un peso diverso. Ed è un dettaglio che la dice lunga sulla portata dell’icona trasversale che oggi stiamo salutando.
Il primo motivo per cui lasciarla andare sembra particolarmente difficile è che Raffaella Carrà è, a tutti gli effetti, un ricordo personale per ognuno di noi. La cupezza del lutto e dell’assenza non potrebbero essere più distanti dalla sua immagine. Ma come la balleremo adesso la Carrà, senza incrinare l’allegria con la sensazione che sia finita un’era?
Il secondo motivo è che questa donna è riuscita nell’impresa che, per la maggior parte degli artisti, rappresenta invece lo sgambetto più rischioso: ha mantenuto vivo il mito fino all’ultimo. Senza mai contraddirsi, né farsi contaminare dal tempo che passa o dalle mode che mutano. Attiva fino al 2019 con la conduzione di un programma tutto suo, A raccontare comincia tu, non ha mai perso il filo del suo discorso personale con il pubblico. Non un’apparizione o una dichiarazione lasciata al caso, come tanti che scivolano nel ridicolo: siamo ben oltre le dinamiche dello showbiz. È quasi un traguardo da monarchia inglese. Ecco perché non ci sembrava possibile che l’era Carrà finisse.
L’enfant prodige
C’è da dire che la vita di Raffaella Carrà sembra quella di una predestinata fin dal principio. Con la grazia e il pepe degli emiliani uniti alla riservatezza e alla caparbietà dei siciliani, bisogna innanzi tutto immaginarla da bambina, piccina nella gelateria di famiglia. Perché forse è proprio lì che la sua vita sterzò la prima volta. Quando incantata di fronte al Musichiere, senza saperlo, già guardava verso lo Studio Uno romano della Rai, nuovo di zecca in via Teulada. Osservava e cominciava a ballare. A pensarci bene è come se un certo tipo di tv, nella sua infanzia, abbia avuto su di lei l’effetto che, in un secondo momento, lei avrebbe ha avuto su di noi: motore di sogni e piccole rivoluzioni.
Così a soli 8 anni Raffaella lasciava la riviera romagnola per addentrarsi nella giungla romana. Era una sorta di enfant prodige e allo stesso tempo era un’adulta in miniatura. Tra il percorso all’Accademia Nazionale di Danza e quello di recitazione al Centro Sperimentale di Cinematografia, perfezionava due dei grandi trucchi del suo successo: studio e disciplina. Alleati preziosi con cui poi avrebbe domato perfino i ritmi bulimici della televisione, l’ostacolo della censura e una popolarità incontenibile e internazionale.
La regina del tubo catodico
I primi tentativi nel cinema, diretta da Monicelli e poi accanto a Frank Sinatra e Modugno, furono un’avventura, ma non un colpo di fulmine. È come se il piano a due del grande schermo le andasse già stretto rispetto ai virtuosismi televisivi che avrebbero accompagnato i suoi movimenti. Vera étoile del piccolo schermo, solo una regia dinamica e le scenografie da disco music potevano offrire il giusto respiro ad un animale da palcoscenico singolare come lei: pop prima del tempo, ma tradizionale come il casqué che l’ha resa famosa. Galeotta fu la provocazione: correva il 1970 quando la trasmissione Canzonissima la portò in vetta alle classifiche grazie all’ombelico scoperto durante l’esibizione della sigla Ma che musica Maestro!.
Un “ombelico alla bolognese” però – unica peculiarità che, con ironia, mamma Iris era riuscita a trovare nella fama improvvisa della figlia – era solo la provocazione, non il motore del cambiamento. Ballerina di formazione e soubrette per evoluzione, Raffaella si era limitata a portare in tv quello che iniziava a prendere forma nella vita reale: un corpo femminile libero, erotico e disinvolto al punto da mettere a disagio gli uomini. Il vero gap era tra il cambiamento già in atto, per le strade, e i tempi di adattamento di mamma Rai, che lei aveva clamorosamente accorciato senza chiedere permesso, sfidando la censura con il gusto dello scandalo. Al cinema sarebbe stato impossibile: l’enorme cassa di risonanza del tubo catodico era un filo diretto con il grande pubblico. Con un colpo di testa Raffella si è infilata dritta nelle case degli italiani, scuotendone i costumi.
Icona gay
“Ricevevo tante lettere di ragazzi gay – ha raccontato in un’intervista al Corriere – Scrivevano: Non mi suicido solo perché ci sei tu”. Si fa presto a parlare di icone, dicevamo. Ma quelle vere lo diventano in modo spontaneo, si trasformano in simbolo e spesso non sanno neanche perché. Raffaella Carrà era un’icona gay e se ne è andata senza capirne il motivo. Ma Raffaella Maria Roberta Pelloni (questo il nome all’anagrafe prima di adottare lo pseudonimo) sapeva bene da dove arrivava: fin dagli anni Quaranta era stata cresciuta da due donne, mamma Angela Iris e Nonna Andreina, in una sorta di bolla matriarcale lontana dalle gerarchie di genere e da qualsiasi stereotipo dell’epoca. La madre fu una delle prime donne a separarsi dal marito, nel dopoguerra. La nonna rimase vedova e decise di non risposarsi mai più.
La futura icona dei diritti civili era semplicemente figlia di un padre assente e playboy. Il dolore per la mancanza di una figura maschile e la diffidenza verso gli uomini eterosessuali – che ha confessato di aver allontanato a lungo – la portarono a preferire la compagnia della comunità gay. Ecco perché una canzone come Luca nasce dall’esperienza e non dall’intento di far politica. Ed questo è l’altro segreto di Raffaella: non esiste un vero repertorio arcobaleno nella sua produzione. Lei era semplicemente la ragazza innamorata del “ragazzo dai capelli d’oro”, che un giorno sparì insieme ad un altro uomo spezzandole il cuore. “Credevo di essere attraente – cantava nel ’78 – così mi ha detto tanta gente. O lui non ha capito niente o c’è qualcosa che non va”.
In un’intima intervista rilasciata a Giacomo Papi per Il Venerdì di Repubblica aveva confidato: “Oggi, quando si parla delle adozioni a coppie gay, ma anche etero, faccio un pensiero: Ma io con chi sono nata, con chi sono cresciuta? Mi rispondo: con due donne, mia madre e mia nonna. Facciamoli uscire i bambini dagli orfanotrofi, non crescono così male anche se avranno due padri o due madri. Io le ho avute. Sono venuta male?”.
A far l’amore continuiamo noi
Quando nel 2013 Paolo Sorrentino ha scelto per La Grande Bellezza la canzone della Carrà remixata da Bob Sinclair, nel clamore della vittoria agli Oscar forse ci siamo anche accorti che Raffaella non sarebbe morta mai. Ora è quasi impossibile ascoltare A far l’amore comincia tu senza immaginare Toni Servillo che balla ammiccando con una sigaretta tra i denti. Sembra un paradosso eppure è la prova del mito che torna senza sosta, parte da Bologna, attraversa il mondo tradotto in francese, inglese, turco, francese, spagnolo, greco e portoghese, riaccende le discoteche delle nuove generazioni e parla ancora di eros e muri da abbattere. La storia di quella donna spregiudicata che nel ’76 sapeva prendersi da un uomo tutto quello che voleva è una storia senza tempo. “Liebe, liebe, liebe lei, è un disastro se te ne vai“.