Cinema

Vittorio De Sica, i 120 anni del maestro del cinema italiano

Da "Ladri di biciclette" a "La Ciociara" ha scritto la storia del nostro Paese sul grande schermo

La sconfitta in seguito alla Seconda Guerra Mondiale non è stata devastante solo nell’immediato. Un suolo impoverito, distrutto e lacerato si stendeva lungo l’intera penisola italiana, appena uscita da uno dei peggiori conflitti a cui l’umanità avesse mai assistito. Eppure, proprio a partire dalle macerie e dalle ceneri ancora fresche, il nostro Paese è riuscito a trovare la sua chiave di volta per uscirne. “Quando sono debole, è allora che sono forte“: un insegnamento biblico che in un momento di crisi come il secondo dopoguerra deve aver ispirato molti, tra cui Vittorio De Sica. Tra i padri del cinema italiano, ispiratore di quel mare magnum che è stato il neorealismo, avrebbe compiuto oggi gli anni.

Vittorio De Sica, l’esordio al teatro e l’approdo al cinema

Nasce a Sora il 7 luglio del 1901, all’epoca facente parte della provincia campana di Terra di Lavoro, nel rione Cittadella. Figlio di Teresa Manfredi e Umberto De Sica, il quale nel 1952 ispirerà Umberto D, sceneggiato dal sempre fedele Cesare Zavattini. Si trasferisce nel 1914 a Napoli e, dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, a Firenze. Il suo esordio come attore risale all’età di 15 anni, per intrattenere i militari ricoverati in ospedale. L’arrivo a Roma lo fece entrare in contatto con il suo primo amore: il teatro.

La carriera di Vittorio De Sica ha dunque avuto avvio già a partire dal 1917, in un film muto diretto da Alfredo De Antoni, Il processo Clémenceau. Dopo questa prima esperienza decide di terminare gli studi, cosicché bisognerà aspettare il 1923 per rivederlo nuovamente in azione. Nel 1923 si lega alla compagnia teatrale di Tatiana Pavlova come generico, salendo di grado negli anni successivi, fino a debuttare come primo attore accanto a Guido Salvini. La sua carriera sul palco procede a gonfie vele, arrivando al varietà grazie alle sue qualità brillanti, notate in primis da Mario Mattioli. Negli anni successivi ha lavorato in teatro con nomi del calibro di Luchino Visconti, Oreste Biancoli e Mario Chiari, prendendo parte a un numero approssimativo di 120 rappresentazioni tra il 1923 e il 1949.

Se il teatro ha permesso a Vittorio De Sica di formarsi, il cinema gli consentito di raccontarsi ad una platea più ampia. La settima arte, per l’autore nostrano, ha avuto la duplice funzione di cassa di risonanza ma anche di lente, attraverso la quale leggere e interpretare la realtà. Una realtà complessa, in via di cambiamento in un tempo relativamente breve, che dal suo debutto alla regia con Rose scarlatte (1939), lo ha condotto a Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948). Erano gli anni dell’immediato dopoguerra, della distruzione, dell’annichilimento e della povertà: serviva uno scossone per rialzarsi. E, tra i primi, De Sica se ne fece portavoce.

Vittorio De Sica: il racconto della distruzione e della rinascita da Ladri di biciclette a Ieri, oggi e domani

Luchino Visconti ha raccontato la povertà con la sua innata eleganza. Roberto Rossellini ha affidato la voce disperata della gente all’immensa Anna Magnani. Ma Vittorio De Sica ha raccontato lo straordinario nel quotidiano, dando il medesimo grado di importanza anche all’evento in apparenza meno rilevante. Nobilitando gli umili, i poveri e i reietti. Tre figure peculiari, dunque, fattesi iniziatori di quel comune sentimento che, al cinema, ha ispirato il neorealismo. E di cui, tra i massimi esempi, bisogna citare proprio Ladri di biciclette. Sceneggiato da Cesare Zavattini, l’intera pellicola ruota attorno al furto della bicicletta di Antonio Ricci (Lamberto Maggiorani), unico mezzo con cui può lavorare e, dunque, permettere il sostentamento della propria famiglia. Insieme al figlio Bruno (Enzo Staiola) andrà in cerca del mezzo, senza riuscire a trovarlo.

La disperazione spingerà dunque Antonio a macchiarsi del medesimo torto subito, tentando egli stesso di rubare una bicicletta. Lui, tuttavia, verrà colto il flagranza di reato, davanti allo sguardo impietrito del piccolo. Sarà proprio il pianto di Bruno a muovere a pietà tutti i presenti, convincendoli a lasciar stare il padre. Il gesto che il figlio farà alla fine, ovvero stringere la mano al genitore, comporterà la sua perdita dell’innocenza. L’uomo che, fino a prima aveva ammirato, stavo commettendo un crimine. Ciononostante lui dimostrerà di comprenderlo, perché, come ha capito nonostante la giovane età, la disperazione e l’annichilimento che la guerra ha causato possono portare ai gesti più estremi. In quella stretta di mano c’è la vicinanza di una nazione, che tenta di rialzarsi e che Vittorio De Sica ha voluto confortare. La rinascita è possibile, il barlume di speranza esiste, nonostante tutto.

I toni catastrofici, pur nella dimensione quotidiana, hanno lasciato spazio ad un maggiore ottimismo negli anni successi. Il neorealismo, lontano dagli intenti con i quali è nato, si è aperto a toni più morbidi e quasi favolistici: sono gli anni del ‘neorealismo rosa‘, anticipatore della più celebre stagione successiva, la commedia all’italiana. Miracolo a Milano (1951) è stato una tappa fondamentale di questo passaggio. Nonostante anche il protagonista, Totò, un orfano cresciuto da Lolotta, abbia avuto una vita difficile, in lui è presente quell’ottimismo che guida ormai l’Italia: la guerra è finita e il Paese si sta rialzando. Le macerie neorealiste lasciano posto alla baraccopoli di Miracolo a Milano, segno che, a prescindere da tutto, la volontà di farcela è tanta.

Al contempo, Vittorio De Sica si alternerà dietro e davanti la macchina da presa. Nel 1953 esce al cinema Pane, amore e fantasia, diretto da Luigi Comencini, in cui divide la scena con Gina Lollobrigida. Il film apre ad una tetralogia di successo, che lo vede nuovamente al fianco della ‘Lollo‘, l’anno successivo, in Pane amore e gelosia. Nel 1955, il terzo capitolo si avvale della regia di Dino Risi e vede, al fianco di De Sica, Sophia Loren. Pane, amore e… segna dunque l’incontro tra i due grandi volti del cinema. Il regista sceglie, inoltre, la diva come protagonista de La ciociara nel 1960, nel ruolo di Cesira. Trasposizione dell’omonimo romanzo di Alberto Moravia, il successo del sodalizio stretto tra i due dimostra un fatto incontrovertibile: De Sica ci aveva sempre visto lungo. La Loren ottiene, difatti, il Premio Oscar come Miglior Attrice Protagonista – prima a riuscirci per un film non in lingua inglese – nell’edizione del 1962.

Proprio Sophia Loren diviene il volto anche delle pellicole successive dirette da Vittorio De Sica. Il suo volto è ormai il simbolo della ripresa, della rinascita italiana sopra ogni fronte, tanto da conquistare anche Hollywood. In Ieri, oggi e domani (1963), in coppia con Marcello Mastroianni, la diva dà prova di sé nella celebre scena dello spogliarello. Al contempo, la pellicola dimostra che l’Italia ce l’ha fatta: il progetto trionfa come Miglior Film Straniero nel 1965 agli Academy Awards. Si tratta del terzo Oscar, in ordine cronologico, per un film di De Sica, dopo Sciuscià, Ladri di biciclette e prima del quarto e ultimo per I giardini dei Finzi Contini (1972). Insomma, nel corso della sua sconfinata carriera si è fatto portavoce del comune sentire, interpretando la realtà in ogni sua sfaccettatura, prima di salutarci definitivamente il 13 novembre 1974. Lasciandoci un’importante eredità artistica.

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Lorenzo Cosimi

Cinema e tv

Romano, dopo la laurea triennale in Dams presso l’Università degli Studi Roma Tre, si è poi specializzato in Media, comunicazione digitale e giornalismo alla Sapienza. Ha conseguito il titolo con lode, grazie a una tesi in Teorie del cinema e dell’audiovisivo sulle diverse modalità rappresentative di serial killer realmente esistiti. Appassionato di cinema, con una predilezione per l’horror nelle sue molteplici sfaccettature, è alla ricerca costante di film e serie tv da aggiungere all’interminabile lista dei “must”. Si dedica alla produzione seriale televisiva con incursioni sui social.

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