“Come mi ha insegnato Eduardo in tanti anni, per farci capire al Nord bisogna parlare un napoletano chiamiamolo piccolo-borghese, cioè parlare in italiano con l’accento napoletano, però lasciando alcune battute napoletane perché piacciono molto”.
Parte tutto da qui. In questa frase di Vincenzo Salemme sono racchiusi i punti cardine della sua formazione, della sua arte e della sua personalità. C’è Eduardo (De Filippo, ndr) fabbricatore di opportunità, mentore e amico. E c’è il napoletano, non un dialetto, ma un dilemma linguistico. Lo stesso che ha tormentato Massimo Troisi per anni. La questione non è prettamente filologica; l’espressività, la semantica, il richiamo atavico a quel ‘noi così ci siamo cresciuti, voi come potete capirlo?’. C’è sempre tutto questo dietro a una parola. Un concetto legato alle persone, al background, alla visione d’insieme della cultura del Paese. Nel caso specifico, è tratto distintivo di una sfumatura attoriale, ma anche di un modus vivendi. E poi c’è, in questa stessa frase, l’umiltà di chi ha saputo ascoltare, imparare e mettere a frutto. Un processo mai scontato, soprattutto quando si diventa uno dei volti più amati e rispettati del panorama artistico italiano. Infine, c’è il teatro: il primo amore. Tutto questo leggendo, letteralmente, tra le righe.
Vincenzo Salemme: dagli esordi al grande successo in teatro, al cinema e sul piccolo schermo
Vincenzo Salemme è nato a Bacoli, in provincia di Napoli, il 24 luglio del 1957; si è diplomato al liceo classico e ha proseguito gli studi frequentando la facoltà di Lettere dell’Università Federico II. Poi è arrivato il teatro, ed era il 1976. Dapprima scritturato per la compagnia teatrale di Tato Russo, poi l’anno successivo l’esordio con la compagnia di Eduardo De Filippo. Per oltre quindici anni, Salemme ha militato tra le fila di Eduardo, anche quando dopo la sua scomparsa, nel 1984, le redini passarono al figlio Luca. Una lunga gavetta che lo ha portato non solo ad affermarsi, ma anche a crearsi l’opportunità di avere una compagnia propria. Era il 1990 quando formò l’associazione E.T. e creò la propria compagnia amatoriale. Il debutto, il primo momento da solista, fu al Teatro dell’Orologio di Roma con lo spettacolo Sogni, bisogni, incubi e risvegli. Il successo ottenuto gli permise a tutti gli effetti la formazione di una compagnia professionale: la Chi è di scena. Ha potuto quindi esprimere un approccio alla recitazione e a tutto ciò che la riguarda intimo e personale. Una loquela dicotomica, la sua, che intende intelaiare l’amarezza legata a tematiche scomode, dolorose e riflessive con la comicità e la leggerezza del dialetto che arriva ovunque, anche quando non sembra essere immediato per tutti.
Nel 1991 andò in scena con A chi figli, a chi figliastri, lo spettacolo che comprendeva L’amico del cuore, quella che è poi è diventata una delle pellicole cinematografiche firmate da Salemme di maggiore successo. Impossibile escludere dall’equazione di quegli anni Passacantando: un tuffo coraggioso nel mondo femminile. L’anno successivo è quello de Lo strano caso di Felice C. È forse questa l’interpretazione che meglio esprime il progetto artistico di Salemme. Il racconto convulso e lucido di un processo di maturazione avvenuto a seguito di un confronto con la cruda realtà; non è un caso che l’opera sia stata scritta nel 1989, anno della caduta del Muro di Berlino.
Il fil rouge della produzione artistica dell’attore napoletano è una continua indagine dell’animo umano, delle azioni e le loro conseguenze. È l’esplorazione di ogni stilla del cuore, dei sentimenti, dell’affermazione dell’uomo in quanto animale sociale. A testimonianza di ciò: E fuori nevica e Premiata Pasticceria Bellavista. Due opere teatrali che hanno la capacità di far dimenticare agli spettatori i pensieri, i problemi legati alla quotidianità, perché si ride. Si ride fino a quando, alla fine, il sipario sta per calare e l’atmosfera diventa terribilmente seria, cupa. Allora la spensieratezza lascia spazio alla riflessione. Se non fosse così, il teatro probabilmente non avrebbe motivo di esistere. Chi è di scena interpreta e se lo sa fare davvero ha il dovere di lasciare qualcosa: un’emozione, un pensiero, una sensazione. Forse il più grande merito di Salemme, tra tutti quelli che gli si potrebbero riconoscere, è proprio questo: la capacità di saper lasciare il segno. Ogni volta. Anche a costo di invadere uno spazio personale, in cui non si lascerebbe entrare nessuno.
Gli anni a seguire sono stati un perpetuo giro di walzer tra commedie teatrali, successi in cabina di regia e sul set tra nuove pellicole e trasposizioni cinematografiche. Solo per citarne alcune: Di mamma ce n’è una sola, La gente vuole ridere, Una festa esagerata e Bello di papà. Da non dimenticare il sodalizio televisivo con la Rai, che gli ha permesso di vestire i panni di giudice per Tale e Quale Show. E ancora le collaborazioni eccellenti, quelle che hanno fatto e fanno parte della sue due vite: quella di attore e quella di uomo. Carlo Buccirosso, Maurizio Casagrande, Nando Paone, Francesco Paolantoni, Nanni Moretti, Giobbe Covatta ed Enzo Iacchetti.
Oggi, nel giorno in cui ricorre il suo compleanno, ripercorriamo non solo la brillante carriera, ma ci troviamo a fare i conti e sottolineare un’indiscutibile verità. Se alla base di tutto questo non ci fosse stato un animo nobile, umile, il talento non avrebbe trovato un terreno fertile su cui attecchire. Vincenzo Salemme è lo stesso che ha salutato due icone della napoletanità, ognuna a proprio modo, con ossequio e rispetto. E non è lapalissiano quando sei tra i maggiori rappresentati, in campo artistico e culturale, della città partenopea da oltre quarant’anni.
Quando è scomparso Maradona, Salemme ha scritto una nota in cui si è rivolto al Pibe de Oro come al “Signor Diego Armando Maradona”, per poi proseguire: “mi chiamo Vincenzo Salemme e faccio l’attore. Non ho avuto la fortuna di conoscerla personalmente, ma appena ho sentito la notizia della sua morte ho provato un dolore profondo, come quelli che si provano quando si perde un affetto molto caro. Le sto dando il lei per rispetto, per la stima che le porto e perché vorrei provare a dire qualcosa su di lei come persona e non come calciatore che pure ho amato alla follia tanto da diventare tifoso del Napoli grazie a lei”.
E quando improvvisamente il cuore di Pino Daniele si è fermato, ha saputo dirgli addio così: “Caro Pino, avrei voluto scriverti, a te, a te che hai cantato Napoli in tutte le sue declinazioni, avrei voluto scriverti un pensiero su Napoli, avrei voluto scriverti che Napoli è Grecia, è Spagna, è Francia, è ‘nobiltà borbona’, ricchezza poderosa. Napoli la perdo tutti i giorni e la ritrovo in sogno immerso nel suo mare che freme ai colpi di chi le spara al cuore. Pino avrei voluto scriverti che ci manca la tua voce che somigliava a un soffio di violino accarezzato dal vento. Avrei voluto scriverti salutami Totò, Massimo, Eduardo, Titina, Peppino, Luca, Luigi, Renato Carosone, Vittorio De Sica e tutti gli artisti che hanno fatto grande questa città meravigliosa“. Un’eleganza innata e coltivata con saggezza che merita questa e infinite altre pagine: “E chest’ è!”.