“Molti artisti, davanti a una tela bianca, iniziano con piccoli segni. Stanley, secondo me, iniziava con grasse pennellate di colori primari, e poi insisteva su quei concetti“. Steven Spielberg conosceva bene Stanley Kubrick. Conosceva la sua meticolosità, la sua proverbiale passione per la musica, i suoi peculiari voli pindarici, e l’ineccepibile simmetria delle inquadrature, fortemente ricercata fino al parossismo. Ma sapeva anche che tutte queste fasi fossero secondarie, poiché subentravano in seguito a un guizzo creativo il quale, già da principio, non era un piccolo barlume, ma un incendio di entità catastrofiche. Perché in lui risiedeva una forza ancestrale e viscerale. La tensioni verso il passato, le preoccupazioni per il futuro, il rapporto con la contemporaneità, interpretati attraverso la lente focale della violenza primordiale ne sono le testimonianze più palesi. Niente mezze misure con Stanley Kubrick: i compromessi non erano il suo mestiere. Il cinema, invece, era il suo destino.
Al contempo, non aveva solo il controllo dell’intera macchina produttiva. Era lui stesso la macchina. Un occhio costantemente vigile, alla stregua del Grande Fratello orwelliano, perché tutto doveva essere fatto secondo quanto stabilito da lui. Il suo modus operandi univa dunque quell’intuizione iniziale a un controllo quasi totalitario su ogni dettaglio. John Alcott, direttore della fotografia di Barry Lyndon, ricorda che Kubrick fosse solito partecipare ad ogni discussione, anche quella delegata agli assistenti, chiosando infine: “Kubrick è stata la cosa più vicina al genio con cui mi sia capitato di lavorare“. Un genio che oggi 26 luglio avrebbe compiuto 93 anni e che, volenti o nolenti, ha cambiato per sempre il modo di intendere la settima arte.
In principio era la fotografia
Stanley Kubrick nacque a New York il 26 luglio 1928. Di origini ebraiche, sviluppa sin dalla prima infanzia una passione per i miti dell’antica Grecia e per le fiabe nordiche, a cui si aggiungono una predilezione per il gioco degli scacchi e il jazz. All’età di tredici anni, tuttavia, avviene il primo incontro con una macchina fotografica. Nel giovane Kubrick, da poco affacciatosi al mondo dell’adolescenza, quella piccola scatola magica risveglia determinate sensazioni.
Ed è così, da una prima foto venduta alla rivista Look che rappresentava un edicolante rattristato per la morte di Roosevelt, che ha inizio la sua carriera. Prosegue studi artistici sull’arte fotografica, che lo avvicinano alla filosofia simbolista e, in particolar modo, al pensiero di Nietzsche. Negli anni successivi, tuttavia, si rende conto che non si possa ricondurre tutto a un’istantanea. La sala di proiezione del Museum of Modern Arts di New York, presso la quale trascorreva cinque sere la settimana fu il suo deus ex machina che lo condusse verso la sua grande vocazione: il cinema.
“Se può essere scritto o pensato, può essere filmato“
Dal punto di vista tecnico, Kubrick ha dato tanto al cinema. Così come Hitchcock che per La donna che visse due volte (Vertigo) dovette ingegnarsi per realizzare la nota sequenza del campanile, anche Kubrick dimostrò di poter realizzare ciò che aveva in mente. Aprendo allo sperimentalismo tecnico e sfruttando le potenzialità del montaggio. In appena 13 pellicole, realizzate in quarant’anni di carriera – l’ultima delle quali portata a termine dall’amico e collega Spielberg, Eyes Wide Shut – ha dimostrato di conoscere a fondo il linguaggio cinematografico, lasciando dietro di sé un’inconfondibile cifra stilistica. Ed è qui che il montaggio assume una funzione essenziale. Come Stanley Kubrick stesso ammise: “Il montaggio è l’unico aspetto del cinema che non assomiglia a nessun’altra forma d’arte. Un momento la cui importanza non può essere sovrastimata. Può fare o rompere un film“.
2001: Odissea nello spazio, così Stanley Kubrick toccò le stelle
Ed è infatti suo uno dei match-cut più famosi della storia del cinema, che gli ha consentito di compiere uno dei salti temporali ancora oggi celebrati. I primi minuti di 2001: Odissea nello spazio, sequenza nota come l’Alba dell’uomo, mostra un gruppo di ominidi sorpresi dalla comparsa del misterioso monolite, attorno al quale ruota l’intero film. Lo strano parallelepipedo avrà un qualche effetto su di loro, portandoli istintivamente alla facoltà di maneggiare gli oggetti circostanti. Quell’osso, brandito come arma, viene associato in un rapido montaggio allo spazioplano Orion III. Sintetizzando, in un brevissimo lasso di tempo, milioni di anni di evoluzione. È la ciclicità del tempo, che mostra come gli effetti del passato influenzino il futuro, sotto forma di retaggio, insito in quella componente ancestrale che risiede in ciascuno di noi.
2001: Odissea nello spazio fu inoltre l’unico Premio Oscar che Stanley Kubrick ottenne nella sua carriera, per gli effetti speciali. In effetti, nonostante abbia superato i cinquant’anni dall’uscita in sala cinematografica, non ha perso un minimo della sua lucentezza. Non stupisce che a lungo il regista statunitense sia stato tacciato di aver architettato il primo allunaggio che risale al 20 luglio 1969, un anno dopo l’uscita del film. In questa occasione, Kubrick mostrò la sua immensa conoscenza del dispositivo. Anticipò di decenni quel tipo di tecniche che tutt’ora, in fase aggiornata, fanno parte del nostro retaggio cinematografico. Fu tra i primi, infatti, a sperimentare la front-projection, antesignana del green screen. Valicò quei confini, quelle colonne d’Ercole che segnavano il mondo fino ad allora conosciuto.
D’altronde, come lui stesso sintetizzò, infatti: “Non sono mai stato sicuro che la morale della storia di Icaro dovesse essere: ‘Non tentare di volare troppo in alto’, come viene intesa in genere, e mi sono chiesto se non si potesse interpretarla invece in un modo diverso: ‘Dimentica la cera e le piume, e costruiscile più solide’“. E di ali solide ne ha costruite, tanto da essere riuscito a toccare lo spazio, pur rimanendo sulla Terra.
Il tempo, la simmetria, l’ultraviolenza e “Ludwig Van”
“Un film dovrebbe essere più musica che romanzo. Dovrebbe essere una progressione di umori e sentimenti. Il tema, quello che sta dietro le emozioni, il significato; tutto questo arriva dopo.” – se la fotografia è stata la sua prima folgorazione, la musica è diventata la matrice attorno a cui ruotano i film di Stanley Kubrick, come è evidente dalle sue stesse parole. In particolar modo ciò emerge sul lavoro che fece sia per Barry Lyndon che per Arancia Meccanica. Per quanto riguarda il primo progetto, di genere prettamente storico, pare che Kubrick si sottopose ad un lavoro senza precedenti. Come riporta Vincent LoBrutto in L’uomo dietro la leggenda, pare infatti che il regista statunitense trascorse oltre venti giorni ad ascoltare “ogni registrazione possibile della musica fatta nel Diciassettesimo e Diciottesimo secolo“. Alla ricerca costante di quella perfezione, che colpisse ogni sfera sensoriale.
Ma è con Arancia Meccanica che la musica ottiene una funzione quasi narrativa, oltre che di semplice accompagnamento. Alex DeLarge è il protagonista della pellicola scandalo, diretta nel 1971. Interpretato da Malcom McDowell, è un giovane “i cui principali interessi sono lo stupro, l’Ultraviolenza e Beethoven“. Musica e violenza, due tematiche care a Stanley Kubrick che si mischiano in un futuro distopico, in cui la narrazione si muove. E diventano i motivi conduttori del film. Quella musica, che accompagna le sue scorribande notturne, diventa per lui fonte di malessere, in seguito. Per guarire dalla sua “Ultraviolenza”, Alex sarà costretto a partecipare al Progetto Lodovico. Dovrà assistere forzatamente ad immagini di violenza, sotto somministrazione di sostanze che causano malessere e nausea. Il tutto accompagnato dalle musiche dell’amato Ludwig Van.
La sua rieducazione che lo esautora – apparentemente – delle sue pulsioni viene scandita attraverso la musica. DeLarge è il frutto del fallimento dei metodi educativi imposti dalla società, sempre più allo sbaraglio. E della volontà di “inoculare forzatamente la bontà“, attraverso una violenza ipocritamente taciuta. Il tutto filtrato attraverso un’eleganza formale che cozza con la narrazione e che è il fil rouge della filmografia di Stanley Kubrick. Il regista è altresì noto per le sue inquadrature simmetriche, in cui un personaggio è posizionato esattamente nel punto di fuga. Un espediente di cui cineasti come Wes Anderson hanno fatto la propria cifra stilistica. Insomma, attraverso i generi e le epoche, Kubrick ha dimostrato versatilità, tecnica e talento. Ha piegato il cinema a suo piacimento, disvelando la meraviglia della settima arte. Che con la sua filmografia ha raggiunto cime tutt’ora inesplorate.
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