Fare una selezione spensierata e ridurre il tutto a soli 5 brani è stato un gioco difficile, bellissimo e a tratti personale. È quello che capita quando si maneggia la grande musica, ed è sacrosanto che sia così.
Se i capolavori nati dal duo Mogol-Battisti sono tanto noti da darli quasi per scontati, i brani che Mogol ha scritto per altri interpreti meritano un discorso a sé. E a ripercorrerne solo 5, vi accorgerete che anche qui dentro c’è un enorme pezzo di storia della musica italiana. E che, in un modo o nell’altro, Mogol ha fatto epoca.

1) Resta vile maschio, dove vai? – Rino Gaetano, 1979

“Ci sarebbe un treno alle tre / tre e cinque, tre e dieci, o giù di lì / Molla tutto e parti con me / non pensarci, rispondi di sì”. Nella lista di concerti rimpianti per svantaggio anagrafico, a Rino Gaetano riservo un posto speciale. Moriva circa 10 anni prima che io nascessi. Troppo presto per lui, troppo tardi per me.

Così ogni anno vado a ‘trovarlo’ a Piazza Sempione, dove il 2 giugno, a Roma, è festa popolare in suo onore. E quando la Rino Gaetano Band attacca con Resta vile maschio, dove vai?, è uno dei momenti in cui nell’aria cambia qualcosa. Ci si stringe un po’ di più, si ondeggia in silenzio, si canta meno. Si guarda spesso in alto, verso il cielo di Monte Sacro. Il cielo che un tempo ha adottato Rino. Ma non è la stessa fitta allo stomaco che torna con Escluso il cane, A mano a mano, Mio fratello è figlio unico o Tu, forse non essenzialmente tu. È una malinconia più timida e confusa. Ed è strano, per un pezzo buffo come questo, che parla d’un ménage à trois andato male (o forse bene, chissà). “Scusa, scusa se ho portato anche lei / Ma mi si è attaccata al braccio, cosa vuoi?”.

Rino Gaetano non ha mai fatto scrivere a nessuno i testi delle sue canzoni. Sarebbe stato impossibile. L’indecifrabile, il re del no sense, lo schivo calabrese geniale, i testi li tirava fuori insieme al resto, in un processo di gestazione tutto personale, che forse non siamo arrivati a comprendere mai. Resta vile maschio, dove vai? è l’unico brano di Gaetano scritto da qualcun altro. E l’altro è Mogol. Ma per capire come si è arrivati a quell’episodio unico nella carriera di Rino, bisogna mettere a fuoco quello che ha rappresentato il ’79 per lui.
Prima di incontrare Mogol, Rino ha appena firmato con la Rca. È l’anno della svolta: passa dall’indipendenza (precaria) all’ingaggio nella grande multinazionale. Grazie al boom di Gianna a Sanremo e poi a quello di Nuntereggae piùdiventa uno su cui puntare. Uno che può vendere.

Allora con i primi veri soldi compra una villa a Mentana e una Volvo bianca. Con una Nikon, invece, passa parecchio tempo a fotografare paesaggi. E inizia a lavorare al nuovo disco. “Resta vile maschio, dove vai? è l’unico pezzo che non ho scritto io, ma Mogol”, racconta già nel ’79, come riporta il libro di Emanuele di Marco, Rino Gaetano live. “È andata così. Eravamo a Roma, al Cenacolo, il luogo dove i grandi della Rca si ritirano a pensare. E noi due, dopo una partita di tresette e qualche bicchiere di Frascati, abbiamo pensato di scrivere assieme una canzone”.
La storia di quel viaggio di nozze a tre, dove la complicità delle due donne ha la meglio sulla marachella combinata dall’uomo, nasce così. Alzando un po’ il gomito durante una partita a carte.

Mogol e Rino si incontreranno una volta sola, a casa del paroliere. Mogol parlerà molto, Rino stranamente lo ascolterà. E in un’ora il pezzo sarà pronto. Uscirà con il penultimo album di Gaetano, ispirando anche il titolo del disco. È l’attimo prima dell’ultimo progetto di Rino, E io ci sto, e della sua morte prematura nell’81. Il tocco di Mogol è abbastanza delicato da non invadere la sfera del cantautore, ma è presente al punto giusto da ricordarci che a lui, e a lui soltanto, Rino ha concesso quell’incursione…

2) Dalla e Morandi – Vita, 1988

Dal 1988 in poi, Gianni Morandi non si è mai fatto problemi ad ammetterlo: “Mi ha salvato Mogol”. E con lui, ovviamente, anche Lucio Dalla. A proposito di angeli che tornano spesso nel brano Vita, i due che hanno guardato le spalle a Morandi hanno anche riportato in vita la sua carriera. Una carriera nata in tutt’altro contesto culturale, all’inizio di quegli anni Sessanta di cui lui e Rita Pavone furono, per certi versi, gli adolescenti prodigio di un’Italia spensierata. Dopo un decennio di abbondante successo, in cui il giovanissimo Morandi era andato davvero a cento all’ora, inizia il suo periodo buio. Con il passare del tempo, la sua immagine non riesce a tenere il passo delle nuove mode e dei nuovi nomi subentrati nel panorama musicale. Nessuno lo chiama più.

Nel’88, invece, Lucio Dalla sta benissimo, tra la fama mondiale raggiunta con Caruso e la recente uscita di uno dei suo album più belli, DallAmericaCaruso. Lucio e Gianni, amici da tempo (fu proprio Dalla a comporre la musica di Occhi di ragazza vent’anni prima), si promettevano spesso di tornare a collaborare. Ma l’idea era quella di fare un progetto più grosso, più studiato. Solo che nel frattempo le cose cambiano e Morandi getta la spugna, molla il canto e torna a studiare musica.

Finché non incontra Mogol, abilissimo come pochi a far opera di convincimento per spronare il talento altrui. E infatti lo convince a fare un nuovo album, offrendosi di scrivergli i testi. Quando, subito dopo, Dalla viene coinvolto nel progetto, l’unico obiettivo è quello di non fallire. Che avrebbero scritto un nuovo, storico capitolo della musica italiana, non lo mettono in conto nemmeno loro.

Finché non esce Dalla/Morandi, disco da 15 tracce che vede i due amici cantare insieme i rispettivi successi. È a tutti gli effetti un lavoro di gruppo raffinato, complesso e innovativo, che stimola la sperimentazione di alcuni tra i migliori nomi della scena di quell’epoca. Mogol, Stadio, Ron, Battiato, Migliacci, Guccini e Lavezzi contribuiscono a scrivere e comporre anche una serie di inediti, tra cui, appunto, Vita. La vera gemma del disco, il singolo che rilancia Morandi. “E rinasce un fiore sopra un fatto brutto”.

Inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi Angeli sporchi e attaccare con la frase “Cara, in te ci credo”. Ma Dalla chiede a Mogol di trovare una parola alternativa, per non dare l’impressione che lui e Morandi avessero la tendenza a chiamarsi così tra di loro. Il passaggio da “cara” a “vita” segna anche il destino del titolo del brano. E quello di Morandi, che con Vita e con il resto del disco conclude il suo processo di rinascita musicale. L’influenza di Dalla lo aiuta a far pace con il pubblico (“Lucio mi ha insegnato a tante cose – ammetterà anni dopo – a non avere paura del pubblico, ad avere un rapporto diretto, senza timore”).

Il fuoco incrociato con Mogol è però indispensabile. Portando a termine un progetto di riscatto iniziato già nell’83 (quando per lui aveva scritto La mia nemica amatissima) il paroliere stavolta riesce a fare centro. Compie un lavoro di fino, ben oltre il testo in sé: va a prendere Morandi per i capelli e gli costruisce addosso un progetto enorme: il ragazzo della via Gluck è tornato per restare.

3) Mediterraneo – Mango, 1992

Nei giorni di lutto in cui c’era da dire prematuramente addio a Mango, Mogol non fece giri di parole: “Oggi è una giornata di sole – raccontò a RaiNews24 – ma per me è molto triste. È scomparso un grande artista. Io con lui ho scritto La mia città, Oro, Mediterraneo… Una delle canzoni più belle scritte nella mia vita. Grazie a lui, che ha composto una musica straordinaria”.

Il mondo in cui tutto è iniziato merita d’essere raccontato. Mentre nell’83 Pino Mango sta provando a chiudere per sempre con la musica, accettando l’idea che il successo per lui non stia arrivando, Giulio Rapetti inciampa per caso in una sua demo e rimane folgorato. Negli studi della Fonit decide di incontrarlo e riesce a convincerlo: non è tempo di abbandonare tutto, anzi, si propone di scrivergli il brano che lo consacrerà al successo. E che rimane forse il suo pezzo più celebre: Oro.

Da lì, da un incontro casuale valorizzato dalla visione di Mogol, partirà davvero la carriera di Mango, ma anche il sodalizio artistico tra i due. Mediterraneo (“da vedere”, “da mangiare” e “da pregare”), uscita nel ’92 e scritta in coppia, porta Mango a fare il tour delle kermesse televisive, da Azzurro al Festivalbar. E per Mogol rimarrà una delle canzoni più importanti della sua vita.

4) L’emozione non ha voce – Celentano, 1999

Siamo ancora negli anni Novanta (date da non sottovalutare: la carriera di Mogol mantiene un livello altissimo praticamente per mezzo secolo di fila). Per raccontare tutte le sfumature dell’amore, nel ’99 Celentano sceglie di affidarsi a chi le parole sa metterle insieme come nessun altro. Io non so parlar d’amore è il primo album a sancire l’inizio della collaborazione del Molleggiato con Mogol (per i testi) e Gianni Bella (per le musiche). La canzone che ispira il titolo dell’intero disco, L’emozione non ha voce, diventa la punta di diamante anche della rinascita di Celentano (per quanto lontanissima dall’anarchico rock degli esordi). E non a caso, è anche il brano che segnerà il successo dell’intero album (lanciato come secondo singolo estratto).

Non un album qualsiasi, e anche questo va sottolineato. A ridosso del nuovo secolo, Celentano esprime l’esigenza di tornare in voga (‘sul pezzo’, come si dice in gergo). In quel periodo, infatti, è sulla linea delicatissima che separa un vecchio mito dal mito che sopravvive al tempo. A conti fatti, una volta prodotto l’album, non vi è certezza che l’esperimento funzionerà. Ma solo di una cosa Adriano è certo: L’emozione non ha voce è un clamoroso pezzo da novanta. Comunque andrà il disco, quel pezzo è destinato a far strada. Il resto della storia parla di sé: 2 milioni di copie vendute, 101 (centouno!) settimane fisso nella top 50 dell’hit parade italiana. Ma soprattutto diventa il ponte definitivo tra il Molleggiato (per come lo conoscevano le vecchie generazioni) e Celentano, in senso assoluto, per le nuove generazioni che impareranno ad amarlo proprio a partire da quel brano.

5) La prima cosa bella – Nicola Di Bari, 1970

Un capolavoro da lasciare per ultimo.
Il 1970 inizia con Nicola Di Bari che canta a Sanremo una canzone composta da lui con il testo di Mogol. A dirla tutta, sul palco dell’Ariston c’è una doppia esecuzione del brano, portato anche dai Ricchi e Poveri con un arrangiamento diverso. Ma nella versione di Di Bari (che nessuno me ne voglia) c’è troppo, troppo di più.

È una dedica alla figlia appena nata, e a produrla è la Numero Uno, l’etichetta di Battisti con un entourage composto dalle migliori teste dell’epoca. E infatti è proprio Battisti ad inciderne la prima demo, suonando la chitarra in prima persona, per poi passare ‘il gioiellino’ nelle mani del grande Reverberi, che aggiunge il resto dell’orchestra. Non servono troppi ascolti, è una ballata folk carica di significati: a Sanremo si classifica al secondo posto, diventa il 45 giri più venduto dell’anno, ispira un meraviglioso film di Virzì ben 40 anni dopo, e viene reinterpretata da Massimo Ranieri, Malika Ayane e Dalida. È un classico della canzone italiana.

Tre cose mi tornano in mente ogni volta che ascolto la canzone di Nicola di Bari.
Mia nonna, figlia della guerra: quando nel ’70 Di Bari cantava la magia del primo amore, lei invece faceva i conti con la scomparsa, tragica e improvvisa, dell’amore della sua vita. Per quasi trent’anni l’ho vista commuoversi e fissare un punto lontano, appena attaccavano le prime parole scritte da Mogol: “Ho preso la chitarra, e suono per te…”.
Il film di Paolo Virzì ispirato alla canzone (qui nella versione di Malika Ayane), con Stefania Sandrelli e Micaela Ramazzotti: il pianto sommesso e liberatorio, mio e di mia cugina seduta accanto a me, in un cinema di provincia. Eravamo adolescenti, e quante cose abbiamo capito senza dimenticarle più.
La rubrica di Gabriele Romagnoli su La Repubblica: per anni è stata il mio ‘saluto al sole’, grazie ad un amico che aveva la premura di condividerla con me ogni mattina. Le ‘prime volte’ dal mondo, con la sensazione che riguardassero anche noi.

Sì, perché di questo si tratta: già nel titolo è uno di quei brani che si trasformano in matrioske. È la storia del paese che contiene quella dei singoli, in un intreccio di vissuti ed emozioni che toccano lo spazio e i ricordi di tutti. 
“La prima cosa bella”
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il costrutto di Mogol è una delle frasi più importanti della nostra lingua. Pensiamoci, quando la prendiamo in prestito. E pesiamola, prima di cantarla o dedicarla a qualcuno. Tutto quello che viene dopo, “(la prima cosa bella) che ho avuto dalla vita è il tuo sorriso giovane, sei tu” si sposta su un livello che penetra ancora più a fondo. Quello della consapevolezza della prima volta, con tutto ciò che comporta: l’emozione e poi il dolore intrinseco, alterato dall’intensità della malinconia, perché la seconda volta non sarà mai come la prima.

Che sia un cuore innamorato, un cuore deturpato, la nascita di un figlio, la perdita o il lutto, Mogol ha afferrato quel sentimento inafferrabile. Il momento in cui ci guardiamo da fuori e lo sentiamo, lo sappiamo, con una sorta di tragicità, che quello è già un ricordo. E che non avremo altre occasioni per riviverlo.