Il primo motivo per cui mi piace Carolina Crescentini è che oltre ad essere un’attrice è anche una nerd. Ma non di quelli antipatici e boriosi: è un essere curioso e famelico, che comunica con una certa ‘febbre’ di complicità le suggestioni e le emozioni in cui si imbatte. In testa, è ovvio, ci sono il cinema e la musica, che è anche una delle sue più grandi passioni (incoronata poi dal matrimonio con il cantautore Motta: dall’esterno una coppia da sogno indie-rock. Potentissimi, insieme). “Mi perdo completamente a scoprire un sacco di gruppi nuovi. Quando mi innamoro di una canzone, allora la condivido”.

Carolina poi racconta – e anche molto bene – i grandi incontri della sua vita professionale con una capacità narrativa che cresce in potenza (e che non tutti i suoi colleghi possiedono). “Mi faccio delle litigate che non hai idea”, mi confessa parlando delle sue esperienze da giurata (tra i tanti festival anche a Venezia, al Giffoni e al Tff). “Posso battermi davvero, per assegnare un premio e favorire la distribuzione di un film o di un regista”.

La incontro ai Nations Awards di Taormina. È tra gli ospiti speciali di un festival storico, che premia i nomi internazionali dello spettacolo creando un punto d’incontro attorno all’emergenza ambientale. Lei si presenta con un intervento aperto al pubblico in cui parla anche di ecosostenibilità e, sorpresa, mi accorgo che è pure un’ottima comunicatrice. Poi, in chiusura lancia una stoccata schiettissima sull’imposizione delle quote rosa nelle produzioni cinematografiche. Senza giri di parole me lo ripete anche più tardi, a porte chiuse: No, non voglio essere una quota rosa. Io voglio essere scelta per la competenza”.

Intervista a Carolina Crescentini

Credi stia funzionando questa battaglia per una maggiore inclusione delle donne nel settore dell’audiovisivo?
Beh, a qualcosa ha portato. È un dato oggettivo che abbiano iniziato a produrre molti film di registe o di sceneggiatrici, che prima invece rappresentavano una percentuale bassissima della produzione generale. Cerchiamo di vedere il buono che sta accadendo.

Essere attori prima e dopo l’avvento dei social: tu sei stata letteralmente a cavallo di questo cambiamento storico. Quando hai capito che stava diventando una percentuale importante del vostro lavoro e della vostra immagine?
Negli ultimi anni. Anche perché me l’hanno fatto notare. Le stesse produzioni, quando fai una promozione del film, ti chiedono l’uso dei social. Prima no. E va bene, va benissimo, ma bisogna stare attenti. Se condividi troppo, rischi di penalizzare quella possibilità di mistero che ti consente di intrepretare personaggi molto distanti da te.

Quindi qual è la tua misura?
Non so dirti se la mia sia una una scelta calcolata. Di sicuro su Facebook ho un profilo privato e uno pubblico, che in verità non gestisco io, ma una persona che mi consulta sempre prima di pubblicare contenuti. È che sui social io scrivo molto, i miei pensieri, gli incontri che faccio, le suggestioni che ho. E non voglio essere in pasto a tutti. Perché vedo quello che succede su Twitter, dove se hai un’opinione, incontri persone che sono odiatori di professione.

Oltre 15 anni di carriera, tra cui titoli-tormentone come Notte prima degli esami, Boris e Mine Vaganti. Secondo me sei stata diverse volte al momento giusto sul progetto giusto.
C’è chi mi ha detto che sono stata molto sfortunata (ride, nda)

Cosa hai pensato quando ti è arrivato tra le mani un progetto assurdo come Boris? Eri agli inizi…
Ero ancora al Centro Sperimentale, una ragazzina! Mi avevano mandato la sceneggiatura di una puntata pilota, un anno e mezzo prima di iniziare effettivamente a girare la serie. Andai a fare il provino e lì ritrovai Massimo De Lorenzo (lo ‘Sceneggiatore 2’ in Boris, nda), che avevo incontrato poco tempo prima per un altro provino. E infatti mi disse subito: “Alla fine per quel progetto hanno preso un’altra, perché era raccomandata”.

Così, con nonchalance.
Esatto. Ma poi aggiunse anche: “Giocati bene questo provino, improvvisa”. E infatti mi sono divertita, facendo proprio la stupida. Per fortuna sono anche molto autoironica. Il provino andò bene, mi presero e girammo questa puntata pilota pazzesca. Poi per un anno e mezzo non ne sapemmo più niente e io non capivo come fosse possibile… Perché mentre giravo Boris sapevo che stavamo facendo qualcosa di geniale.

Che poi, ormai si sa, la fortuna di Boris è dipesa dal passaparola attraverso la pirateria. Era il 2007, altro che streaming on demand per come lo fruiamo ora…
Sì, infatti inizialmente fu distribuita su Fox, ma non tutti avevano Sky. A livello di numeri fu un flop, ma tutti iniziarono a scaricarla dai Torrent. Me lo ricordo bene, ce lo ricordiamo bene tutti, dai (ride, nda).

Io ricordo anche lo stupore nel vedere smascherati gli altarini di un ambiente che per il pubblico, invece, è l’altare dell’intellighenzia. Dalla “qualità che c’ha rotto” perché “una televisione diversa è impossibile”, ai vizi del set, il problema con le paghe e gli straordinari, il cameratismo dei reparti, e poi quel tormentone verso l’attrice (tu), la “cagna maledetta” o raccomandata.
Io so’ contenta, lo sai? Sennò la gente immagina il mondo del set solo in un modo, mentre ti puoi benissimo trovare su set terribili come quello de Gli occhi del cuore. Io dico sempre che Boris non è una parodia, è un documentario. Quei personaggi lì mi è capitato di incontrarli diverse volte nella mia carriera. Per quello ti dico che mentre giravamo sul set ci ammazzavamo dal ridere. Lo sentivamo quello che stava per accadere.

Tra il 2006 e il 2007 poi ti è capitato di tutto. Insieme Boris, Notte prima degli esami e Cemento armato, il primo film di Martani con una soundtrack meravigliosa dei Negramaro e Dolores O’Riordan. Lì hai anche recitato con Faletti…
Che meraviglia davvero quella canzone, Senza fiato, che Giuliano fece con Dolores. Quell’anno per me fu tutto di fila, saltai anche nel 1860 de I demoni di San Pietroburgo. È una psicopatia emotiva bellissima, tipica del mio mestiere. Oggi per me Cemento armato è soprattutto il ricordo di Giorgio Faletti. Avevamo diverse scene molto aggressive da interpretare insieme, e lui era così a disagio… Gli dava fastidio, non voleva essere l’uomo che interpretava. E io gli ripetevo: “Giorgio, non ti preoccupare”.

Poi è arrivato anche 20 sigarette, un piccolo grande capolavoro. La storia autobiografica di Aureliano Amadei, reduce dall’attentato alla base militare italiana di Nassiriya. Cosa ha rappresentato per te quel film?
All’inizio tantissimi provini. E io sapevo che c’erano altre candidate, ma volevo troppo, davvero troppo farlo. Ho letto la storia e sono impazzita, ma soprattutto successe una cosa bizzarra. Un giorno, a casa di un amico conobbi un ragazzo magrissimo, con gli occhi di fuoco e una gamba rotta. Gli chiesi: “Che hai fatto?”. E lui: “Ho subito un attentato a Nassiriya”. E io: “Sì vabbè. Dai che hai fatto? Sei caduto dalla moto?”. Capisci? Non gli credetti. Tre anni dopo lo incontrai di nuovo al provino: una persona completamente diversa. Camminava col bastone, aveva gli occhi liquidi e i segni delle schegge. Era Aureliano, era il suo film.

Che storia… Presentarlo al pubblico è stata l’altra metà del viaggio?
Esatto, non mi è mai più successa una cosa del genere. Durante la proiezione c’erano tutti i parenti delle vittime. Per loro quel film era un’altra roba. E niente, mi si è aperto il rubinetto. E a me quando si apre il rubinetto… Poi c’erano i militari presenti accanto al red carpet, ci salutavano con un rispetto che io ricorderò. È capitato spesso che si presentassero anche durante il tour promozionale: “Sono finiti i biglietti, ma domani devo tornare in Afghanistan. C’è modo di entrare?”. Anche se avevamo idee politiche diverse, dopo la visione si apriva un dibattito incredibile. Poi a Barletta Aureliano incontrò una persona che era a Nassiriya insieme a lui, all’epoca erano entrambi in ospedale insieme. Ma quel giorno, dopo anni, sembrò tutto diverso…

Fatico ad indovinare: qual è stato il film per cui hai avuto più paura di metterti alla prova?
Forse I demoni di San Pietroburgo. Mi chiamò Giuliano Montaldo dicendomi: “Io ti vedevo nei corridoi del Centro Sperimentale”. E io pensai subito: “Ma chissà che ha visto, che stavo facendo, magari ero in braccio a qualcuno, avevo vent’anni!”. Poi feci i provini, e mi scelse: “Il tuo partner sarà Miki Manojlović”. Sul set ci svegliavamo alle quattro di mattina per preparare costumi e parrucco. All’inizio la notte non riuscivo a dormire. Poi, pian piano diventammo forti, finché non arrivammo in Russia che eravamo amici. Ero terrorizzata, ma ero anche Stachánov, perché io sono sempre Stachánov.

E Stachánov come gestisce le riprese di un film che la terrorizza?
Qui fu Montaldo a fare un’operazione geniale: girò il film in sequenza. Il mio personaggio, Anna Grigor’evna Snitkina, era la stenografa di Dostoevskij e aveva appena finito la scuola di stenografia quando venne scelta direttamente dal suo mito, che era Dostoevskij. Esattamente quello che stava accadendo a me, quindi il film è iniziato nello stesso modo in cui mi sentivo io. Non so spiegartelo, ma era una situazione straordinaria. Montaldo l’ha fatto perché voleva che anche la troupe si sentisse come noi, che vivesse la stessa emozione della storia che raccontavamo. Mi ricordo che gli elettricisti stavano sul trabattello, lui apriva la finestra e li chiamava: “Gli attori stanno per provare questa emozione. Mi raccomando, provatela anche voi!”.

Carolina, ma quindi se domani dovessi scegliere di fare l’ultimo film della tua vita, chi vincerebbe? Una commedia alla Boris o un dramma alla San Pietroburgo?
Oddio, non lo so neanche io! È che mi diverto troppo nella commedia, ma provo una soddisfazione terribile nel dramma.

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