Il viaggio alla (ri)scoperta di Venezia inizia a partire proprio dal titolo che ha ispirato la copertina di settembre di VelvetMAG: La forma dell’acqua – The Shape of Water. Per la regia di Guillermo del Toro, la pellicola ha ricevuto il prestigioso Leone d’Oro in occasione della 74a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Nell’edizione dei Premi Oscar 2018, inoltre, è riuscita a vincere quattro statuette, a fronte di tredici candidature, tra cui la prestigiosa doppietta di Miglior Film e Miglior Regista. Al di là dell’accezione prettamente nozionistica, tuttavia, la vittoria del lungometraggio firmato Guillermo Del Toro fu significativa sotto diversi punti di vista. Scopriamo perché.
Guillermo Del Toro e la “mostruosità” come metafora
È una peculiarità del cinema di Del Toro raffigurare la “mostruosità” come metafora che sottende tutt’altro. Lo abbiamo visto in precedenza ne Il labirinto del fauno, datato 2009, andando a ritroso in Hellboy (2004) e più recentemente in Crimson Peak (2015). Che siano fantasmi del passato o oscure creature che simboleggiano il rituale passaggio dall’età infantile all’adolescenza – come nel caso di Ophelia ne Il labirinto del fauno – le sue fiabe macabre mescolano sapientemente i cliché del genere con elementi horror. Una cifra stilistica che ritroviamo nel film vincitore del Leone d’Oro del 2017. Ed è proprio attraverso La forma dell’acqua che Guillermo Del Toro compie il passo decisivo.
La forma dell’acqua è La Bella e la Bestia dei nostri tempi: quando l’emarginazione diventa unione
Elisa Esposito (Sally Hawkins), Zelda (Octavia Spencer) e Giles (Richard Jenkins) sono degli emarginati. Siamo negli anni della Guerra Fredda e, chiunque rappresentasse una devianza – intesa in termini sociologici come una mancata appartenenza all’egemonia dominante di una data epoca – era appunto spinto ai margini della società. La protagonista, Elisa Esposito, è un’inserviente affetta da mutismo, che ha come unici amici una donna afroamericana, Zelda, e un uomo omosessuale, Giles: sono dei “reietti”, rappresentanti simbolici di quell'”isola dei giocattoli difettosi“, così declinata da Stephen Chbosky in The Perks of Being a Wallflower (trasposto al cinema, in Italia, come Noi siamo infinito). Ma è nelle rispettive differenze che trovano il senso di unione. È nell’esclusione dalla società, che trovano il loro senso di appartenenza.
Sullo sfondo già complesso del periodo storico, che ha messo in discussione tutte le certezze, Guillermo Del Toro ha scelto di raccontare una versione moderna de La Bella e la Bestia. In un villaggio amazzonico viene infatti rinvenuta una curiosa creatura anfibia dalle sembianze umanoidi. Condotta nel laboratorio governativo nel quale Elisa lavora, attirerà fin da subito le attenzioni dell’inserviente. La donna riuscirà ad insegnargli a comunicare attraverso la lingua dei segni. Prenderà dunque la decisione rischiosa di liberarlo e condurlo nella propria abitazione. Il tutto con l’aiuto dei propri amici. Il tempo trascorso farà sbocciare in loro un sentimento d’amore.
La forma dell’acqua è una fiaba dark necessaria: chi è il vero mostro?
Sulle tracce della misteriosa creatura è il perfido colonnello Richard Strickland (Michael Shannon). L’uomo è il responsabile del laboratorio, intento a condurre esperimenti sul “mostro”. Sulla scia del già citato classico Disney, il quale si basa sul cliché cinematografico che trova il suo massimo esponente in King Kong (datato 1933, a cui si aggiungono i diversi remake), Guillermo Del Toro ci pone dinanzi a una domanda: Chi è il vero mostro? Non pretende una risposta dal proprio pubblico, almeno non immediata. Ma comunque vuole suscitare una riflessione. Nonostante l’aspetto stesso sia un chiaro rimando a Il mostro della laguna (Jack Arnold, 1954) – tra gli storici b-movie Anni Cinquanta, denunciando un metalinguaggio che ai Cinefanatici piace e non poco – a livello di “mostruosità” viene battuto da Strickland.
Il colonnello si fa portavoce di quei valori alla base del Sogno Americano. Un sogno, tuttavia, minacciato dall’incertezza del periodo in cui la pellicola è ambientata. Il 1962, anno in cui si svolgono i fatti de La forma dell’acqua, è cruciale, ricco di scontri culturali e contraddizioni di fondo nella società: le tensioni con la Russia e l’odio razziale che tuttavia cozzano con lo slancio verso il progresso, rappresentato dalle innovazioni tecnologiche. Un’incoerenza di fondo che maschera, di fatto, una società ancora restia ad andare avanti. È evidente negli ambienti fatiscenti, nei quali i protagonisti si muovono: l’appartamento di Elisa così come anche i luoghi della modernità frequentati dall’amico Giles. Tutto è ricoperto da una patina di finto modernismo. Ed è qui che emerge il vero mostro: mosso dalla mentalità del colonialista, è Strickland l’antagonista, incarnazione del regresso.
“Se noi non facciamo niente, non siamo niente”
Elisa è la quintessenza del Cinefanatico. È sognante, si nutre di immaginazione, in particolar modo di musical classici. Questi ultimi sono quasi una sorta di feticcio, in sostituzione della sua condizione di mutismo. Inoltre, la sua abitazione è situata proprio sopra una sala cinematografica. Ma Elisa una voce ce l’ha. Tra le sequenze sognanti e oniriche, nelle quali riesce ad avere anche l’uso della parola, la protagonista prende una posizione netta. Lei e il suo gruppo di amici condurranno la Creatura alla libertà, animati dallo spirito del “è uno di noi” (che ci porta al Freaks di Tod Browning, 1932). L’anfibio è, difatti, un nuovo “diverso” da salvare. Ed è solo attraverso la loro reciproca condizione di emarginazione, che può trovare senso di appartenenza. “Se noi non facciamo niente, non siamo niente” – così, infatti, dirà Elisa all’amico Giles.
Il finale vedrà Stickland sparare contro la creatura ed Elisa. L’essere renderà anfibia anche la donna, portandola con sé nelle profondità acquatiche. Tutto ha inizio e tutto ha fine nell’acqua. È un chiaro rimando al liquido amniotico che ci avvolge nel grembo materno e che ci dà la vita, così come la creatura ha ridato nuova vita a Elisa. L’acqua, il vero leitmotiv della pellicola, è fluida, si adatta. È la metafora dell’amore, quell’amore universale che non conosce distinzioni di genere e di appartenenza. Così come il cinema a Venezia, che riconosce l’universalità come valore aggiunto. Come, d’altronde, ha sottolineato lo stesso Alberto Barbera, rimarcando l’eterogeneità della Mostra. Il direttore ha parlato infatti di un parterre che offre “moltitudine di prospettive, generi e aree cinematografiche che da sempre caratterizza il programma della Mostra“. La forma dell’acqua è dunque la forma dell’amore, nonché la (nuova) forma del cinema.
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