A Hollywood bisogna stare molto attenti a non esagerare con la verità. Perché la verità è tanto potente che può spaventare.” – e chi meglio di Oliver Stone può saperlo? Tra i nomi più “politicizzati” del grande schermo, il regista ha da sempre incantato grazie al suo cinema, che rifugge dai manierismi e/o speculazioni “intellettualistiche” per arrivare al vero. Ma è anche un cinema fatto di grandi emozioni, che risente dei contrasti non solo insiti nei personaggi ma nella realtà stessa. Dallo stile epico e “aggressivo”, si è fatto portavoce degli orrori perpetrati durante la campagna militare in Vietnam (che, d’altronde, lo ha visto in prima persona sul campo di battaglia). Amato, temuto e – talvolta – affossato dalla critica, Oliver Stone è sicuramente riuscito in una grande impresa: quella di non lasciarci indifferenti. Non potevamo dunque non festeggiarlo oggi 15 settembre nel giorno del suo 75 compleanno.

Oliver Stone, e il trauma del Vietnam: auguri a uno degli autori più discussi

Nato a New York il 15 settembre 1946, trascorre la sua giovinezza nel periodo più stimolante, dal punto di vista diplomatico, nella storia degli Stati Uniti. Nel 1967, all’età di 20 anni, si arruola volontario nell’Esercito degli Stati Uniti prendendo parte alla guerra del Vietnam. Torna in patria nel 1971, dopo essere stato ferito due volte in combattimento, frequenta la New York University Film School. Tra gli insegnanti, Oliver Stone troverà Martin Scorsese, una personalità che influenzerà per sempre il suo modo di intendere il cinema. Allo stesso modo, l’esperienza trascorsa sul terreno di guerra ha maturato nel giovane Stone una diversa consapevolezza. Una volta tornato in patria, infatti, il regista ha capito di dover aprire gli occhi agli americani, troppo nazionalisti per comprendere quanto stava accadendo.

E per veicolare un messaggio di tale portata a più persone possibili, l’artista ha scelto il linguaggio che sapeva di padroneggiare meglio: quello cinematografico. Oliver Stone inizia dunque la sua carriera come sceneggiatore, curando gli script di Fuga di mezzanotte (Parker, 1979), che gli frutta il primo Oscar, e Scarface di Brian De Palma. Ben presto approda alla regia, trovandosi a dirigere Salvador e Platoon. Con quest’ultimo, in particolare, Stone offre un ritratto degli orrori del Vietnam, in un film dal sapore semi-autobiografico. La guerra, che ha avuto un impatto decisivo sulla carriera artistica – ma ancora di più nella sua vita – tornerà ad essere raccontata in Nato il 4 luglio. Attraverso le vicende del veterano Ron Kovic – interpretato da Tom Cruise – segnato nel corpo (e nell’animo) da quello stesso conflitto, ha riaffrontato il trauma di quei quattro anni trascorsi in campo di battaglia.

Le teorie del “complotto” su JFK e Jim Morrison

Dopo aver chiuso gli anni Ottanta con il tema a lui più caro, Oliver Stone ha aperto i Novanta all’insegna della musica. Nelle sale cinematografiche è difatti uscito The Doors, ritratto della storica band. E, in particolar modo, dell’intramontabile frontman: Jim Morrison (interpretato da Val Kilmer). La critica – soprattutto quella italiana – non sembra aver apprezzato  il racconto dell’artista, per via di alcune inesattezze storiche. Tuttavia se il film ha ricevuto un’accoglienza tiepida, il successivo – distribuito sempre nel 1991 – ha decisamente fatto discutere. In quell’anno è approdato in sala JFK – Un caso ancora aperto, nel quale Oliver Stone ha dimostrato di dare adito alle teorie “complottiste” circa l’assassinio del 35° Presidente degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy.


Il film (di cui ha presentato l’attesa director’s cut questa estate a Roma grazie all’iniziativa Cinema in Piazza) gli ha fatto valere la nomea di personaggio controverso. Una nomea che ha riconfermato negli anni successivi. È il caso esemplare del tanto discusso Assassini nati (Natural Born Killers). Montaggio frenetico – a tratti schizofrenico – ripropone sia dal punto di vista formale che concettuale e visivo il tema della violenza. Non più connesso alla guerra ma insito nell’intera società. Il tutto accentuato da un’estetica eclettica, che tra animazione, sit-com, talk show, crea un dialogo tra i diversi linguaggi, in una critica alla società dei consumi. Forse è anche per questo che è stato definito da Shia Labeouf – con il quale ha lavorato in Wall Street-Il denaro non dorme mai, come la fusione tra “Orson Welles e il coniglio di Pasqua“.

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