Michelangelo Antonioni, il regista che “inventò” un nuovo cinema
Non solo un regista, ma un poeta del grande schermo di cui si celebrano oggi i 109 anni dalla nascita
“Un poeta del nostro mondo che cambia, un pittore del labirinto delle nostre emozioni, un architetto della nostra ambigua realtà.” A spendere queste parole nei confronti di Michelangelo Antonioni è stato Martin Scorsese, riconoscendo il valore inestimabile del maestro. Al regista e sceneggiatore ferrarese va difatti il merito di aver posto una cesura netta con la tradizione del neorealismo, declinando un nuovo modo di fare. Un sguardo peculiare, che ha dato voce ai dissidi interiori di una società disseminata dalle contraddizioni. Il boom economico dopo la Seconda Guerra, la modernità e la speculazione edilizia che deturpa il paesaggio: è il dramma della contemporaneità di cui Antonioni è stato il maggiore portavoce. Un dramma che vive, attraverso i suoi personaggi, in forme mai viste prima.
Michelangelo Antonioni, le suggestioni ferraresi e l’importanza dell’immagine in Blow Up
Nato il 29 settembre 1912 a Ferrara, Michelangelo Antonioni sarà influenzato fin dalla tenera infanzia dalla sua città natia. Lì risiede infatti il deposito visivo delle sue prime suggestioni che, più o meno con continuità, sarebbero divenute motivi ricorrenti nella sua filmografia. Le strade lunghe e deserte, le acque del Po’, il cielo grigio e quell’orizzonte che azzera la distanza tra pianura e ciò che c’è al di sopra, rendendolo un tutt’uno. Un continuo “inganno visivo” alla base del mistero dell’immagine che Antonioni ha inseguito per il resto della sua carriera. Ciò è evidente soprattutto in Blow Up (1966, che ha fruttato al regista la duplice candidatura al Premio Oscar per la Miglior Regia e la Miglior Sceneggiatura Non Originale).
Nel film, che ha inoltre ottenuto la Palma d’Oro al Festival di Cannes, il regista ha difatti esplorato esplicitamente il rapporto tra immagine e realtà. Un fotografo (interpretato da David Hemming), attraverso il procedimenti di ingrandimento (Blow-up, per l’appunto), scopre di aver fotografato per caso un probabile delitto. Più cerca di venirne a capo, ingrandendo maggiormente l’immagine, più ciò che crede di aver portato alla luce si sgrana, perdendo man mano senso. Il tutto avviene in una swinging London caotica, indiscussa capitale culturale degli anni Sessanta. Grazie al film, dunque, Michelangelo Antonioni cancella quella linea netta di demarcazione tra il reale e la sua rappresentazione. In quel “mistero dell’immagine“, dovuto alle molteplici suggestioni visive del personaggio principale, è proprio il protagonista a perdere se stesso e il senso. E con lui, lo spettatore.
“Provo il bisogno di esprimere la realtà in termini che non siano affatto realistici“: l’incomunicabilità della modernità
Blow Up è stato il frutto di un lavoro approfondito sulla settima arte, nella quale Michelangelo Antonioni è approdato nel 1950. A quest’anno risale infatti il suo debutto al lungometraggio grazie a Cronaca di un amore, con il quale il regista declina fin da subito il “suo” nuovo cinema. Dimostrando di aver superato la lezione del neorealismo, infatti, l’artista ferrarese si fa portavoce di quello che la critica avrebbe poi definito stile moderno. Il suo approdo al mondo del cinema è un importante precedente, nonché necessario, perché aveva cambiato completamente il focus. Dalle conseguenze del dopoguerra, infatti, Antonioni aveva rivolto l’attenzione al mondo medio borghese, raccontando le ossessioni dell’individuo.
Come lo stesso regista ha spiegato, infatti, il suo diverso modo di fare è partito da tutt’altra prospettiva: “Mi è sembrato che fosse più importante non tanto esaminare i rapporti fra personaggio ed ambiente, quanto fermarsi sul personaggio, dentro il personaggio.” Il suo viaggio introspettivo lo ha condotto poi, in concomitanza con la rapida trasformazione della società – che di lì a pochi anni era radicalmente mutata – alla cosiddetta Tetralogia dell’incomunicabilità. L’avventura, La notte, L’eclisse e Deserto rosso danno voce ai dissidi interiori dei protagonisti. Attraverso il rapporto tra passato e presente, Antonioni ci racconta le vicende di persone alienate, che non riescono a trovare il senso nella “nuova” realtà.
Una realtà profondamente diversa rispetto a quella che poco prima avevano conosciuto, in cui la perdita di punti fermi è l’unica costante di un mondo in continuo movimento. E questa sua rappresentazione del reale assume, tuttavia, connotazioni sempre più rarefatte, sospese in un limbo. Da qui l’incomunicabilità. D’altronde, è lo stesso regista ad aver sintetizzato la propria poetica in un’intervista con Jean Luc-Godard, affermando: “Provo il bisogno di esprimere la realtà in termini che non siano affatto realistici.”
Michelangelo Antonioni lo strano legame con Monica Vitti: quando la sua “Musa” lo fece scappare via
Uno dei volti più frequenti nelle pellicole firmate Michelangelo Antonioni è senza dubbio Monica Vitti, indimenticabile nei panni di Giuliana in Deserto Rosso (per citarne uno). Accomunati entrambi da due forti personalità, il regista ferrarese e l’interprete hanno vissuto un’intensa storia d’amore. Ciononostante, proprio sul set di Deserto Rosso, l’attrice conobbe il direttore della fotografia Carlo Di Palma. Tra i due nacque una relazione, che sancì di fatto la fine della sua storia con Antonioni.
A svelare il curioso episodio della “fuga” del regista è stata l’interprete Sara Ricci, fortemente voluta da Antonioni per Al di là delle nuvole (co-diretto con Wim Wnders, 1995). Oltre ad averlo descritto come “un uomo che sapeva emozionarsi, amante delle donne e della loro eleganza”, l’interprete ha scelto anche di condividere questo curioso retroscena. “Ricordo che una volta incontrammo per caso Monica Vitti, che io reputo la più grande attrice italiana contemporanea.” – ha difatti svelato la Ricci, proseguendo – “e Antonioni mi disse “via, via…” Credo che fosse ancora dentro di lui il dolore per una storia d’amore finita anni prima.”
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