Denis Villeneuve non è solo “Dune”: un bambino che sognava nuovi mondi
Esattamente un mese fa, il regista canadese è approdato a "Venezia78" per presentare l'atteso kolossal: uno dei tanti successi targati Villeneuve
“Da bambino ero un sognatore e mi è sempre piaciuta l’idea dei sogni come chiave per comprendere la realtà: tecnicamente la vita può essere descritta come una parentesi tra due sogni.” In un’intervista rilasciata a la Repubblica lo scorso 13 agosto, in vista del lancio di Dune, Denis Villeneuve così si esprimeva. E sogno è proprio la parola chiave per approcciarsi alla sua filmografia che non si limita solo al kolossal basato sull’omonimo romanzo di Frank Herbert del 1965. Perché tutto parte da lì, da quello spunto iniziale che lo ha pervaso fin dall’età giovanile, illuminandolo prima e guidandolo poi (come Chani/Zendaya con Paul Atreides/Timothée Chalamet in Dune). Quello stesso spunto che, ad oggi, lo rende uno tra i migliori registi in circolazione, che non potevamo non celebrare in occasione del suo compleanno.
Denis Villeneuve prima della fantascienza
Nato a Trois-Rivières, Québec, in Canada il 3 ottobre 1967, Denis Villeneuve si è formato presso l’Università del Québec a Montréal. Dopo un primo cortometraggio realizzato nel 1994, partecipa alla regia del film collettivo Cosmos. Il film è approdato inoltre alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 1997, contribuendo a lanciare a livello internazionale il nome del regista. Il primo successo effettivo arriva, tuttavia, l’anno successo grazie al suo esordio effettivo al lungometraggio, con Un 32 août sur terre. Un esordio drammatico, in una cornice desertica essenziale – altro motivo che ritorna in Dune – che gli ha permesso di tornare a Cannes per il secondo anno di seguito. Questa volta, però, nella sezione Un Certain Regard. Proprio nei Festival europei, Denis Villeneuve riscontra i maggiori apprezzamenti – oltre che nel “suo” Canada – grazie al successivo Maelström (2000) che con Next Floor (2008), che lo riporta sulla Croisette.
Sono anni in cui il regista si cimenta per lo più sul genere drammatico, affrontando inoltre fatti di cronaca che hanno scosso l’opinione pubblica. È il caso, ad esempio, di Polytecnique (2009), in cui Villeneuve ricostruisce il massacro di Montreal, datato 1989, nel quale persero la vita molte studentesse. Al contempo, si affianca sempre più al genere bellico, come nel successivo La donna che canta (2010), il quale segna inoltre il suo debutto alla Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione delle Giornate degli Autori.
Le atmosfere grottesche e la svolta noir “alla Lynch”: Prisoners e Enemy
Ben presto, quelle atmosfere belliche lasciano spazio una realtà più oscura in senso psicologico, servendosi del volto di Jake Gyllenhaal. Escono, entrambi nel 2013, Prisoners ed Enemy. Il primo, un rapimento che assume sempre più le forme di un misterioso enigma (alla stregua del lynchiano Twin Peaks, con un tocco di Clint Eastwood alla Mystic River), vanta anche la partecipazione di Hugh Jackman.
Il secondo, invece, riporta al cinema il tema del doppio, mostrando un incredibile Gyllenhaal nel duplice ruolo Adam Bell / Anthony Claire, rispettivamente un professore universitario e un attore esattamente identici. Liberamente ispirato da L’uomo duplicato di José Saramago, tra club notturni, chiavi misteriose consegnate senza una ragione apparente e sdoppiamenti vertiginosi, sulla scia di Strade perdute (ancora una volta torna David Lynch), il film procede in una narrazione forsennata. Fino al finale sibilino che anticipa l’unica via di fuga per Denis Villeneuve: la fantascienza. Da quel finale, infatti, è come se il regista si fosse svegliato da un sogno. Per immergersi, infine, in un altro. Perché, come lui stesso ha ricordato, è questa l’essenza stessa della vita: “Una parentesi tra due sogni.”
Un bambino che amava gli alieni: il sogno che è diventato realtà
“Sognavo di fare un film di fantascienza già dall’età di dieci anni. Credo che questo genere possieda il potenziale e i mezzi per esplorare la nostra realtà in modo molto interessante.” E, come dimostra la sua carriera fino ad oggi, il sogno di Denis Villeneuve è divenuto realtà. Anzi è attraverso quella fantascienza così tanto ricercata, anche nella drammaticità del quotidiano, che il regista canadese riesce a trovare la sua massima espressione. Il 2016 segna per Villeneuve l’anno “del contatto”: nelle sale approda Arrival che gli vale la nomination al Premio Oscar come Miglior Regista. Protagonista è Louise Banks (Amy Adams), una linguista chiamata a fare da mediatrice dopo che dodici misteriose astronavi aliene sono atterrate sul suolo terrestre.
Con il suo debutto nel mare magnum della fantascienza, Villeneuve ha realizzato un prodotto che ragiona, fuor di metafora, sul rapporto con la diversità. Non più avventurieri, o guerrieri alla conquista dello spazio e alla lotta per la difesa, ma menti illuminate, aperte al confronto. Una fantascienza umanista che apre al confronto senza troppi artifici. L’anno successivo è la volta di quello che sarebbe potuto risultare “il passo più lungo della gamba”. A Denis Villeneuve viene infatti affidata la regia del sequel di Blade Runner, cult del genere diretto da Ridley Scott. Nel 2017 esce dunque Blade Runner 2049, definito fin da subito degno erede del capolavoro del 1982, perché, in fin dei conti, mantiene ancora sospeso quell’interrogativo di fondo. Nonostante la presenza di androidi sempre più aggiornati e umanizzati, infatti, le questione rimane la medesima: “Cosa ci definisce in quanto esseri umani?” Dune è dunque l’ultima tappa – in ordine cronologico – di un percorso (o di un sogno) che dura da oltre vent’anni. Un sogno che Denis Villeneuve continua a restituirci di volta in volta sul grande schermo.